Ragionamento Secondo.
Sala di Lorenzo vecchio.
Principe e Giorgio.
G. Poiché noi abbiamo visto e discorso gran parte delle azioni di Cosimo Vecchio, signor principe mio, e considerato minutamente tutti i ritratti delli amici suoi, ed insieme Giovanni di Bicci, suo padre, e la successione in Piero e giovanni suoi figliuoli, comincieremo a ragionare e vedere le storie di Lorenzo suo nipote, che questa camera, dove siamo, è dedicata alle azioni delle virtù sua.
P. Molto, non fate doppo Cosimo le storie di Piero suo figliuolo? Il quale successe e governò lo stato poi, ed ancora che fusse storpiato dalle gotte, so pure che e' vinse con la prudenza il veleno di molti cittadini.
G. Vostra Eccellenza dice il vero; ma io passo tutto con silenzio di storia, parendomi che e' non bisognasse far altro che il ritratto suo nella camera di suo padre, con lo esemplo del quale si vede che lo imitò grandemente.
P. E gli giovò assai, che molti si scopersono nimici palesi, che mentre visse Cosimo stettono occulti, temendo la reputazione e le ricchezze potenti, che dalla prudenza e forza di Cosimo aveva acquistato in vita; ancora che Piero non attendesse molto al governo, diedono a' suoi nimici molte difficultà di levargli lo stato, e se bene M. Diotisalvi Neroni, nel quale si confidò Piero (che lo ingannò poi) e M. Luca Pitti, poco innanzi nimico a Cosimo, e che fatta la congiura per ammazzar Piero nel ritorno da Careggi, al quale scelerato tradimento Iddio non promisse lo effetto; per il che, sendo confinati que' cittadini in più luoghi, non mancarono con ogni via tentare tutti i principi d'Italia per rimuovergli lo stato, il quale mantenne quella forma di governo fino che [a] Piero postosi in letto, senza poter mai muover altro che la lingua, n'uscì lo spirito.
G. Vostra Eccellenza in breve ha detto i gesti suoi, senza che io li dipinga, e mi hanno confermato nella mia medesima openione di non far di lui altra storia; egli è ben vero che io trapasso in questa di Lorenzo molte cose che sarieno state molto bene in pittura, e di Giuliano suo fratello ancora; che per non avere grandi spazi in queste volte, ed esser cose da chi avesse stanze maggiori, e tutte cose odiose, le lasso, sendo l'intento mio tutto volto solo a esempli e gesti grandi, più che a fare abbigliamenti ed ornamenti ne' componimenti delle storie loro.
P. Che cosa lasciate a drieto? Voletemelo dire?
G. I torniamenti, che feciono in que' tempi felici per le nozze di Lorenzo, quando menò la Clarice di casa Orsina sua donna, e la giostra tanto famosa, che nella piazza di Santa Croce si fece, dove, per proprio valore d'arme, Giuliano suo fratello fece di molte prove, e Lorenzo di quello torniamento ebbe il premio; che certamente in pittura una simil cosa piena di cavalli, e di abiti, e ricchezze di gioie e d'ornamenti arebbe fatto molto bene, perché non è cosa che nella pittura faccia meglio che la varietà delle cose.
P. Voi dite il vero; che ho letto le stanze, che in lode di quella giostra fece M. Agnolo Poliziano in ottava rima, che furono molto degne sopra quella materia; ma eraci egli altro che si potessi fare?
G. Signor sì, che ci era, che, dopo la morte di Piero, rimanendo giovanetti Lorenzo e Giuliano, ed in aspettazione per le loro virtù, d'esser nella patria utilissimi alla republica, fu tentato da molti cittadini torre di mano il governo a questi giovani, dove da M. Tommaso Soderini (la prudenza del quale, e l'autorità era nota, non solo in Firenze, ma a tutti i principi d'Italia fu fatto ragunata de' più nobili, che governavano, in Santo Antonio della porta a Faenza, e da lui recitata in benefizio loro e della città una orazione, con sermon lungo; che perciò fu stabilito loro, ancorché giovani, il governo; per il che Lorenzo rispose a tutti con gravi e modeste parole, e con eloquenza assai; che rimasti vinti dalle virtù di Lorenzo ne feciono quel giudizio, che seguì poi nelle mirabili azioni sue; dove chi avesse voluto fare questa locuzione, guardate se ci andava de' ritratti di naturale e de' gesti nelle attitudini delle figure ma poiché gli spazi son pochi, e questi gesti sono tanti, sono andato scegliendo i fiori per mettergli in opera.
P. A voi come pittore v'è lecito fare ogni cosa; ma ditemi un poco, voi mi avete ragionato di Santo Antonio alla porta a Faenza; io non ce l'ho ma' visto; arò caro sapere da voi che muraglia ell'era, da che non ce n'è rimasto memoria.
G. Santo Antonio era una chiesa murata all'antica, assai ragionevole, simile a Santo Ambrogio, dove abitava in una gran muraglia, ed intorno alla chiesa una gran congregazione di preti forestieri, che portavano nel petto il segno e l'ordine di quel santo; e ci avevano poi uno spedale di poveri ed intorno un gran ceppo di case, e v'erano allato giardini e Compagnie, con molte comodità; così nelle case come nel chiostro, vi erano pitture ecellenti di mano di Lippo e di Buonamico Buffalmacco, che tutte furono buttate a terra con tutti questi edifizi, quando si fece il castello, o cittadella che noi la chiamiano, e la porta a Faenza fu occupata per farne la torre, che è oggi nel mezzo del mastio principale. Ma torniamo all'ordin nostro, perché io passo ancora, Signor Principe, l'impresa che fe' Lorenzo nello acquisto di Volterra, quando, ribellata dai Fiorentini per conto della cava delli allumi, facendo Lorenzo quella impresa di guerra contra il parere di alcuni, ed avutone poi vittoria, salì in tanta riputazione; le quali storie, se mai noi aremo a far tessere panni di seta a queste stanze, o d'arazzi, saremo a tempo in quelli a far tutto quello che avessimo mancato in questi, come aviam fatto nelle di sopra.
P. Non mi dispiace, perché son tutte belle e ricche storie; ma cominciate un poco a dirmi che cosa è questa, che è in questo partimento, spartita in questa stanza nella volta in queste storie, ed otto virtù ne' cantoni di questa camera; che è qua sopra, dove io veggo quel re abbracciar Lorenzo? Sarebbe ella mai l'andata di Napoli?
G. Vostra Eccellenza l'ha conosciuta; questa è quella storia degna del grande animo suo risoluto, piena di pietà verso la patria, e di fede verso quel re, nimicissimo suo; il quale re trascorrendo, e rubando l'Unigiana, per venire a' danni de' Fiorentini, come ancora vennero le genti d'Alfonso, e del papa, e del padre, le quali in sul Sanese ed in sul Fiorentino scorrendo, fu un gran spavento de' populi, che si fuggivano da questi eserciti, per essere stato il campo de' Fiorentini rotto da Alfonso e Federigo d'Urbino. Travagliato adunque Lorenzo dagli odi vecchi della congiura del 1478, la quale io non voleva dipignere, e poi per questa guerra, e trovando il comune senza danari, e la peste nella città, ed avere a combattere con un re grandissimo, e con un papa crudele, il quale non desiderava altro che cacciarlo di casa, per satisfare alla parte contraria, sotto colore che voleva levare Lorenzo di quel governo, come tiranno di quella repubblica; risolè fra tanti pensieri importanti, nella grandezza dell'animo suo, per salute pubblica e per util proprio, che ottenuto la tregua per due mesi e confidato nella innocenza sua [di fare] intendere a Ferdinando che voleva andare a trovarlo a Napoli per rimettere la somma delle differenze nel giudizio suo.
P. Fu una gran resoluzione, e molto pericolosa, sapendo egli che Ferrante era sanguinosissimo e vendicativo; ma ditemi un poco, quel re che abbraccia Lorenzo, quella testa somiglia egli Ferrante? Donde l'avete cavata?
G. Signore, lo ritrassi quando stei a Napoli in Monte Oliveto, dove l'è di rilievo di mano del Modanino, in una cappella, Alfonso e Ferrante, interi, ginocchioni intorno a un Cristo morto, che lo somiglia che par vivo.
P. Gli ha un'aria molto terribile; ma chi è quaggiù basso quel grassotto raso, in zucca, di quegli tre, vestito di nero, che pare che accompagnino Lorenzo?
G. Quegli è Paulantonio figliuolo di Tommaso Soderini, come sa Vostra Eccellenza, che rimase gonfaloniere in Firenze, per mantenere il governo di Lorenzo nella città, menandol seco a Napoli quasi che per ostaggio; che, senza che si sapesse per molti, andò in compagnia seco verso Pisa, mostrando di andare a vedere le possessione l'uno dell'altro, che con piacevolezza e senza avvedersene, lo condusse a Napoli.
P. Bellissimo tratto; ma quell'altro con quella testa secca grinza, anch'egli senza niente in testa, per chi lo avete fatto?
G. Quello è Piero Capponi, savio e confidente di Lorenzo, il quale fu padre di Niccolò, che innanzi lo assedio governò sì bene e sì saviamente questa città per il populo; e quest'altro qua innanzi, anch'egli vecchio, e grassotto, è Giovanni de' Medici, bisavolo del signor Giovanni vostro avolo, che l'uno e l'altro dicono che l'accompagnarono.
P. Chi è quel vecchio magro dreto alla sieda del re, accanto a quell'armato all'antica?
G. È M. Diotisalvi Neroni, vecchio e fuoruscito, nimico a Lorenzo, il quale non mancò con tutti gli stromenti d'invidia e d'odio e di biasimo, sforzandosi di fare che quel retogliessi la vita a Lorenzo.
P. Gli altri, che io ci veggo, non hanno arie di questi paesi; ed invero questa storia è molto accomodata per lo spazio che ha, e mi par bello il casamento, e le genti, e la corte, che sono attorno a vedere con che cera raccoglie il re Ferrante Lorenzo, maravigliandosi del giudizio e della eloquenza sua; ma ditemi, Giorgio, chi è quella donna in questo angulo a man ritta, che ha la croce in mano, e quegli altri vasi in su quello altare, vestita di color chiaro, e l'altra di là nell'altro angulo che abbraccia que' tanti putti facendo carezze loro, e nutrendone col proprio latte, e ricoprendoli con la propria veste?
G. Signore, questa prima è la Fede co' sacramenti della Chiesa; l'altra, che ha tanti putti, che gli cuopre dal freddo, è la Pietà, mostrando a chi vede questa pittura che Lorenzo andò a Napoli per la pietà che egli ebbe della sua patria, e mostrò aver tanta fede in quel re e nella sua bontà, che gli riuscì il disegno suo, che fu contra 1'oppenione de' suoi nimici, i quali non pensaron mai che Lorenzo uscisse delle mani di quel re sanguinoso e crudele, il quale osservandogli la fede e avendolo esperimentato, in pubblico ed in secreto, discorrendo delle nature degli uomini, e generalmente delle cose de' governi di tutti gli stati e repubbliche, rimase vinto dalla umanità e grandezza di Lorenzo, confessando che nessun principe lo avanzasse di sapienza e di giudizio; e così Lorenzo, fatta la lega con gli Aragonesi, portò l'amicizia e la grazia di quel re, ed insieme alla sua patria la desiderata pace.
P. Tutto è vero, e molto più, secondo altre volte ho sentito dire; ma ditemi un poco, che storia è questa che è qua, dove io veggo questi signori e principi che seggono e disputano insieme col Magnifico Lorenzo?
G. Signore, questa è fatta per la dieta che a Cremona feciono questi principi per la cagione che i Veneziani, come forse dovete sapere avendo mosso quel Senato a Ercole, duca di Ferrara, una guerra improvvisa e crudele, accompagnata dal favor grandissimo di Sisto IV, pontefice, il quale era unito in lega con quella signoria, per ampliare ed ingrandire lo stato al conte Girolamo Riario suo nipote, e tutto con danno e rovina di Ercole, ogni volta che i Veneziani fussino stati vincitori; la qual guerra fu con gran fastidio ed odio di tutti i principi italiani, i quali non desideravano punto che quel senato si fussi fatto maggiore di dominio, conoscendo che agevolmente potevano, nello occupare l'altrui paese, aspirare all'imperio di tutta Italia. La lega adunque in contrario loro era il re Ferdinando, e Lodovico Sforza tutore d'un fanciullo duca dello stato di Milano, e Lorenzo de' Medici, i quali avendo mandato per impedire questa guerra, nel Ferrarese per soccorso ed aiuto di Ercole, e di più nel territorio della Chiesa, gente ai danni del papa, ed in Toscana Niccolò Vitelli, perché ritornasse in Città di Castello sua patria; della quale Sisto poco innanzi lo aveva cacciato; che queste imprese tutte attendevano a impedire sua Santità, perché egli, come fece poi, abbandonasse la lega che aveva coi Veneziani; laonde, nascendo poi la morte di Ruberto Malatesta da Rimini, e di Federigo duca d'Urbino, capi di quegli eserciti, questa accrebbe ai Veniziani tanto vantaggio, che ardirono accostar le genti loro fino sotto Ferrara; per il che la lega stretta da questi pericoli, conoscendo quanto dannoso fusse loro l'accosto che con gente e danari dava il papa a' Veneziani, tentorono fino a Federigo imperatore, che facesse un concilio per tutti i sacerdoti contro al papa in Basilea; i quali difensivi e freni giovarono in ultimo, che il papa fece lega con gli altri principi italiani contro a quel senato, dove prima era in confederazione, ai quali fece intendere che si levassino del contado di Ferrara con lo esercito, e che, se non posavano giù l'armi, insieme con gli altri compagni della lega, si sarebbono aspramente vendicati contra di loro di queste ingiurie. Dove i Veneziani, per questo in più furore e animo accesi, feciono maggiore apparato di forze e di guerra, che potessono, deliberando voler vedere il fine di tutta questa impresa; dove inteso ciò i principi italiani, avvisando l'un l'altro, si raunarono in Cremona per consultare sopra questa guerra il rimedio alla salute degli stati loro, nella qual dieta intervenne il Magnifico Lorenzo vostro.
P. Già l'ho visto a sedere con quella veste lunga di scarlatto; ma ditemi, chi è quello che gli siede allato, vestito di rosso, con quella barba canuta, e che stende la mano in verso di lui?
G. È il legato del papa, cardinal di Mantova, mandato da Sisto a quella dieta; e l'altro, che gli è vicino con quella berretta rossa, e raso, è Ercole da Este duca di Ferrara; l'altro, che gli è vicino è Alfonso duca di Calavria, e quel giovane, che volta a noi le spalle, vestito di sopra di rosso, e sotto con quella corazza antica azzurra, è il signor Lodovico Sforza, che con le mani e con l'attitudine esplica l'animo suo, ragionando con que' signori.
P. Veramente ch'egli hanno tutti cere d'uomini grandi: ma ditemi, sapete voi chi sono gli altri principi che seggono e parlano in questa dieta?
G. Signor no, perché prima io non ho avute i ritratti d'altri signori, che questi, ch'io sappia il certo che vi si trovassero, ed il restante ho fatto per fare quelli che vi furono; che ogni giorno che mi venisse occasione di ritrovarli, poco si perrà a mutar loro l'effigie e farli somigliare.
P. Sta bene; ma ditemi, io veggo il nostro Lorenzo, che voi lo fate mettere da man destra in su un corno di dovizia e tenere la sinistra in sulla spada rimessa nella guaina. Ditemi perché in questa dieta l'avete fatto così?
G. Per cagione che avendo egli parlato in questa dieta con tanta gravità, ed eloquenza, e giudizio, e del modo e come si doveva governare, e muover quella guerra, egli solo avanzò di esperienza delle cose di arme tutti i capitani, e nel resto gli altri principi grandi; onde il metter la mano destra sul corno di dovizia e la sinistra in sulla spada nella guaina, mostra che con que' modi che egli ha ragionato loro, e che egli piglieranno da lui, ne risultò, come fu poi, una eternissima pace; ed ecco ch'io ho fatto qua fuor della storia in questi dua angoli dua virtù sue, che questa storia accompagnano; in uno è Ercole che ammazza l'idra, avendo egli tagliato con la verità all'Adulazione la lingua, e con le virtù sua la via alla Falsità, che sogliono spesso nelle imprese grandi e difficile accecar la mente de' principi; nell'altro angulo è il Buono Evento, povero ed ignudo, che ha preso la tazza da bere, ed ha in mano le spighe del grano.
P. Tutto ho considerato e veduto, voltiamoci di qua a quest'altra storia, dove io veggo questo esercito de' Fiorentini, che lo conosco ai soldati ed alle insegne; che cosa comanda quella figura armata all'antica in su quel caval bianco a quello esercito? Ditemi che cosa è.
G. Signore, quella è la guerra, che nacque in Lunigiana fra i Genovesi ed i Fiorentini, quando Lodovico Fregoso aveva preso per inganno Serezzana, e venduta a' Genovesi, i quali, con ogni studio ed apparato per mare e per terra guerreggiando molti mesi con l'aiuto de' Pietrasantini, i quali abitano in sul Motrone, che porgendo aiuto ai Genovesi furono poi dallo esercito fiorentino combattuti, e presa poi e poi difesa da loro; Lorenzo de' Medici vedendo che in campo era molti disordini sì per i commessari, come per i soldati, venne in campo per emendare gli errori e i disordini loro, e presa Pietrasanta, ed in oltre messo tutto lo sforzo de' Fiorentini intorno a Serezzana, la quale battuta con artiglierie, ed al fine assediata i Genovesi fattisi forti volson soccorrere; che dallo esercito fiorentino furon poi rotti e mandati per mala via: mentre Lorenzo era in campo, comandò allo esercito che si discostasse da Serezzana; e, non prima discostato, i popoli della città aprono le porte, e tutti umili vengono in verso Lorenzo con gli olivi in mano, e con le chiavi, presentandole a Lorenzo, che sperando nella clemenzia e virtù sua lo ricevono nella città. Non fu, Signor Principe, questo di questi popoli un gran segno di amore e di fede in tanta lor miseria?
P. Certamente sì, ma e' fu anche una gran clemenza ed un buon giudizio quello di Lorenzo verso di loro.
G. Ed eccolo appunto in questi dua angoli, che mettono in mezzo la storia l'uno e l'altro; il Buon Giudizio ha in mano quello specchio, che vi si guarda drento, ed il mondo appresso per giudicar con quello le azioni sue, che mostra che chi conosce benissimo sé, può nello specchio dalle sue lorze giudicar quelle d'altri; onde perciò chi è savio ben giudica e domina, come fe' Lorenzo, il mondo.
P. Molto a questa Clemenzia fate gettar via le due spade, che ha in mano? Ditemi, perché la fa così?
G. Signore, questa ha indosso le arme difensive, sendo armata, come Quella vede, che io l'ho fatta con quell'elmo in testa, e quella corazza in dosso, a sedere in su quelle arme, mostrando che ella getti le offensive, e le difensive le tenga in dosso, che tal fu la clemenza in verso di loro usata da Lorenzo.
P. Mi piace la storia, e queste sua virtù; ma alziamo, Giorgio mio caro, il capo un poco a questa del mezzo, ch'io veggo in questa volta grande, piena di figure varie, e, con tanti begli ornamenti di stucco attorno, messi d'oro; ed ancora veggo il Magnifico Lorenzo a sedere, ed intorno tanta gente, che gli presentano varie cose ed animali; cominciate un poco a dirmi che fantasia ella è.
G. Signor Principe, questa è la gloria e lo splendore delle virtù di Lorenzo, le quali furono tante, che tirarno a sé ogni persona grande; ancorché di lontano paese, per cognoscerlo; e questa l'ho fatta perché, essendo egli diventato albitro di tutti, o la maggior parte dei principi d'Italia, gli sono intorno tutti gli ambasciatori, che di varie nazioni erano tenuti da' loro principi appresso a Lorenzo, per udire i sua consigli savi e giusti per i governi de' lor signori.
P. Voi non sapete però dirmi chi si siano, se son ritratti di naturale, o no.
G. Signore, questi gli ho ritratti da Sandro del Botticello, pittore, che udii dire che questo grassotto primo, con quella toga di dommasco pagonazzo, in zucca e raso, che è appresso a Lorenzo, era l'ambasciatore che teneva qui il sopra tutti gli altri virtuosissimo re Mattia Corvino di Ungheria, il quale oltre ai consigli e l'intrinseca amicizia che aveva con Lorenzo, gli fe' in questa città per le sue mani fare una grandissima sorte di libri miniati con bellissime figure, e gli mandò tarsie di legnami commessi di figure di mano di Benedetto da Maiano, eccellenti; così fe' fare l'oriuolo, che noi aviamo qui in palazzo, di mano di Lorenzo dalla Volpaia, con tutte le ruote che girano secondo il corso de' pianeti, il quale, perché non fu finito innanzi alla morte di Lorenzo, rimase, per esser cosa rara, in questa città. Ebbe questo re virtuoso, per le mani di Lorenzo, scultori, architettori, falegnami e muratori eccellentissimi, e di mano di Niccolò Grosso fabbro, ferramenti divini. Onde sempre tenne quel re che la virtù di Lorenzo fosse venuta in terra dal cielo, per insegnare a vivere a tutti i principi del mondo.
P. Ditemi chi è l'altro che è dopo questo ambasciatore.
G. L'altro fu tenuto qui da Ferrando da Aragona, e gli altri due, quel dalla barba lunga era tenuto qui da Iacopo Petrucci di Siena, e quell'altro da Giovanni Bentivogli di Bologna, i quali allora reggevano quelle città, che tutti erano confederati amici di Lorenzo, che insieme gli portavano reverenza ed amore. Sapete voi, Signore, chi sono que' capitani armati che portano quelle insegne?
P. Non io, se voi non me lo dite.
G. Quel soldato che tiene quella insegna, dove è quel vitello, che ha quella palma nella zampa, e che ghiace in su quel prato d'oro, l'uno e l'altro in campo azzurro, è Niccolò Vitelli; e quell'altra insegna, tenuta da quell'altro, che ha drento in campo azzurro quella fascia d'oro, è Braccio Baglioni da Perugia; e quella, dove in campo azzurro è il diamante con le tre penne, impresa di Lorenzo, è un capitano de' Manfredi da Faenza, che tutti furono capitani di eserciti per Lorenzo;gli altri soldati appresso a quegli sono quelli che furono messi dallo stato alla guardia della persona di Lorenzo, dopo il caso de' Pazzi, ed insieme con gli altri mostrano l'unione e la fede ehe hanno usato in verso la prudenza e la magnanimità di Lorenzo; le quali virtù son quelle due femmine che Vostra Eccellenza vede accanto a lui, che una abbracciando l'altra ha certe serpe in mano, l'altra si riposa in sur un tronco di colonna a guisa di fortezza; le quali virtù lo ammaestrano e consigliano.
P. Belle fantasie; ma non volete voi che io sappia chi son coloro che stanno attorno a Lorenzo? Che mi par vedere che li presentan cavalli barberi, ed altri leoni, ed alcuni armati ginocchioni tante arme da guerra, e quel prete ritto, giovane, vestito di scarlatto che gli porge quel cappello da cardinale: ma dreto loro tante gente indiane con que' mori, che hanno condotto innanzi a Lorenzo quegli animali sì strani, e scimmie, e pappagalli, e que' vasi di pietre orientali addosso a tanti schiavi; ditemi, se vi piace, che invenzione è questa, ch'io non la conosco.
G. Signor Principe, questi, che presentano i cavalli barberi ed i due leoni, sono gli Aragonesi, che gli hanno condotti di Napoli per fare questo dono a Lorenzo in segno di benevolenza, dimostrando che il lione ed il cavallo, uno per bellezza e l'altro per fortezza, non potevano essere presente se non dal bello e forte animo di Lorenzo; il quale dono con la virtù sua si guadagnò da Ferrando di Aragona. Que' due soldati armati all'antica, che stanno ginocchioni a' piedi di Lorenzo e che portano tante arme da guerra; queste furono mandate a donare a Lorenzo da Lodovico Sforza da Milano in segno d'amore, non tanto per fare il presente onorato delle armature e de' superbi lavori di quelle, quanto per mostrargli che la virtù di coloro che sanno adoperarle ed usarle, come fece Lorenzo, vince ogni difficile impresa contro a' nimici. Quel vestito di scarlatto, che presenta quel cappello da cardinale, è un cameriere di papa Innocenzo VIII di casa Cibo, Genovese, il quale, avendo portato per le discordie passate odio a Lorenzo, conosciuta per lo avvenire la molta virtù sua, cominciò a amarlo ed onorarlo, e nell'ultimo imparentatosi seco, con dar la Maddalena sua figliuola al signor Franceschetto Cibo suo nipote, e dopo non molto tempo, elesse cardinale Giovanni suo figliuolo, che appena avea finito tredici anni; questo è quando gli manda il cappello, vinto in concistoro con voci innanzi il tempo ordinate dai decreti papali; e da quel collegio, per benevolenza e virtù di Lorenzo, fu messo in casa sua quella suprema dignità. La gente indiana, che dice Vostra Eccellenza, vengono a far segno, con tanti ricchi e vari doni, della benevolenza che alla virtù e grandezza di Lorenzo portava Caiebo, Soldano del Cairo, il quale fu allora grandissimo nelle imprese di guerra, che gli mandò (come vedete) a presentare fino in Fiorenza que' vasi, gioie, pappagalli, scimmie, cammelli, e, fra gli altri doni, una giraffa, animale indiano non più visto di persona, e di grandezza, e di varietà di pelle, che in Italia simil cosa non venne mai; e tanto più era da tenerne conto, quanto né i Portoghesi né gli Spagnuoli nell'India, e nel nuovo mondo, non hanno mai trovato tale annuale; sicché, Signor Principe, come dissi prima, questa storia non contiene altro che nel suo sedere come sta qui dipinto, per virtù delle lettere e della sapienza, è diventato glorioso, meritando tanti vari doni, non da uomini plebei, i quali accarezzò col provvedergli del suo nelle carestie, né da quelli delle buone arti ingegnose, che sempre e' favorì, ma da' gran principi e da' potentissimi re, e fino da esterni e contrari di costumi e di religione.
P. E non è dubbio alcuno, Giorgio mio, che non solo egli abbia vinto di valore e di virtù ogni cittadino moderno, ma molti de' grandi che in Grecia ed in Roma fiorirono nel tempo delle felicità loro. Ora, se vi pare, abbassiamo gli occhi a quest'ultima, dove io veggo sedere Lorenzo con quel libro aperto, in mezzo a tante persone litterate, che hanno tanti libri in mano, ed appamondi, e seste da misurare; ditemi i nomi loro e chi sono.
G. Volentieri: questo è quando con felice giudizio ed ottimo modo, poi che alle cose pubbliche egli aveva dato gli ordini, e simile alle private della città, si diede a' piaceri e studi della filosofia e delle buone lettere in compagnia di questa scuola di uomini dottissimi, co' quali, quando alla villa di Careggi, e quando al Poggio a Caiano, per più lor quiete, esercitava gli onorati studi.
P. Ditemi adunque se questi uomini litterati, che Lorenzo aiutarono, sono ritratti di naturale, o no; e mi sarà caro che mi mostriate chi e' sono, che mi ci par vedere di belle teste fra loro; ma ditemi, chi è quel vecchietto raso accanto a Lorenzo, in proffilo, che accenna con quella mano?
G. È Gentile da Urbino, vescovo d'Arezzo, litteratissimo, e precettore di Lorenzo e Giuliano suo fratello, che fu tante volte mandato da Lorenzo per ambasciadore in Fiandra ed in Francia a più potentati, che visse tanto, che le prime lettere insegnò a Piero, Giovanni, e Giuliano, suoi figliuoli.
P. Certamente ch'io ho avuto caro aver veduto l'effigie sua, che gli ero affezionato per le qualità sue virtuose d'animo e d'ingegno; ma questo qua innanzi vestito di rosso chiaro, con quella berretta tonda di que' tempi pagonazza, magro in viso, ditemi chi è?
G. Demetrio Calcondila di nazion greco, il quale insegnò le buone lettere della sua lingua a quella accademia, e fu insieme con questi altri trattenuto con provvisioni onorate da Lorenzo.
P. Questo giovane a lato a Demetrio, con sì bella cera e piacevol'aria, con quella incarnazion fresca e pulita, in zazzera di capelli sì grande, vestito di rosso, sarebbe egli mai il conte Giovanni Pico, signor della Mirandola? Che mi pare averlo visto altre volte.
G. Vostra Eccellenza l'ha cognosciuto, e certo che fu un fonte di dottrina e di tutte le scienze, e Lorenzo lo trattenne di continuo.
P. Gli ebbe ragione; ma quello in proffilo, che gli è accanto, vecchio, in zucca, grassottino, per chi lo avete voi fatto?
G. Per il nostro M. Francesco Accolti, Aretino, grandissimo interprete delle leggi civili, il quale a questa accademia fu onorato ornamento.
P. Oh come mi diletta il vederli! Ma seguitiamo; questo da quella gran zazzera, che è lor dreto, e che tiene quel libro nella man sinistra?
G. Quello è M. Angelo Poliziano, poeta ingegnoso e dotto, caro infinitamente a Lorenzo, che nella giostra di Giuliano suo fratello compose le lodi di quella, dove nella quarta stanza disse, invocando Lorenzo per il lauro:
O causa, o fin di tutte le mie voglie,
Che vivo sol d'odor delle tue foglie?
mostrando ancora la volontà delli studi, per la corona del lauro che si dà a' poeti. Guardi Vostra Eccellenza in quest'ultimo, dreto al Poliziano, quel poco di proffilo che è alquanto di colore scuro. P. Io lo guardo, ditemi chi è.
G. Questo è il favolosissimo e piacevole Luigi Pulci, che per mona Lucrezia fece le battaglie di Morgante, campione famoso, e le tante altre composizioni a requisizione di Lorenzo.
P. Or torniamo da quest'altra parte, dove io veggo M. Marsilio Ficino, filosofo platonico, vero lume della filosofia, che questo lo conosco, perché altre volte l'ho visto ritratto; certo che il luogo che gli avete dato a canto a Lorenzo se gli conviene; ma questa figura intera qua innanzi, vestita di rosso che cangia, e che tiene quella palla della terra con quelle seste in mano, che mi pare un bello omaccione; ma in quel tempo usavon le zazzere molto grande, ditemi il nome suo.
G. Questo è Cristofano Landino, allora segretario della signoria, che fu da Pratovecchio di Casentino, che comentò il nostro Dante; e perché la parte dell'inferno, secondo che si dice, egli la intese meglio, però gli ho fatto in mano la palla della terra, perché sotto la gran Secca (come la chiama il nostro poeta) misurò e distinse bene, e meglio intese le bolge di quella, che non fece il cielo.
P. Ditemi, chi è quello che volge a noi le spalle, con quella berretta azzurra in capo, e che parla con quell'altro giovane?
G. Quello è il nostro M. Lionardo Bruni Aretino, il quale ho voluto mettere fra questa accademia, poiché egli a questa repubblica scrisse l'istoria fiorentina ed il Procopio, ed anche egli fu segretario della signoria, il quale parla con Giovanni Lascari, dottissimo greco; e quel proffilo, che è fra Lionardo ed il Lascari, è lo ingegnoso Leonbatista Alberti, grandissimo architettore, il quale scrisse nel tempo di Lorenzo i libri d'architettura; e l'ultimo, che Vostra Eccellenza vede in proffilo dietro al Lascari, è il Marullo Tarcagnotto, greco dottissimo, il quale fa fine a questa onorata scuola.
P. Io non credo, Giorgio, che mai in tempo nessuno in questa città e' sia accaduto, che si sia trovato maggiore abbondanza di begl'ingegni, o volete nelle lettere greche o latine o vulgari o nella scultura o pittura o architettura o ne' legnami o ferramenti o ne' getti di bronzo, né chi ancora di casa nostra le pregiassi, e le onorassi, e premiassi, e più se ne intendessi, che Lorenzo; che si può giudicare da questi segni, che queste scienze non fanno mai profitto, se non dove elle si stimano e si premiano.
G. Gli è così; e vedetelo, che Lorenzo aveva fatto fare il giardino, ch'è ora in su la piazza di S. Marco, solamente perché lo teneva pieno di figure antiche di marmo, e pitture assai, e tutte eccellenti, solo per condurre costì una scuola di giovani, i quali alla scultura, pittura ed architettura attendevano a imparare sotto la custodia di Bertoldo, scultore, già discepolo di Donatello; che avviatosi quivi un numero di giovani, tutti o la maggior parte furono eccellenti, fra' quali fu uno il nostro Michelagnolo Buonarroti, che, come sa Vostra Eccellenza, è stato lo splendore, la vita e la grandezza della scultura, pittura e architettura, avendo voluto mostrare il cielo che non poteva né doveva nascere, se non sotto questo magnifico ed illustre uomo, per lassar la sua patria ereditaria ed il mondo di tante onorate opere, quante si vede di lui oggi, e di molti altri, che io ho viste, di cotesta scuola onorata. Or concludiamo adunque, che Lorenzo fiorì nel tempo suo di tutti que' doni che può per virtù e fortuna prospera avere e desiderare un uomo mortale: e però guardi Vostra Eccellenza in questi dua angoli, che mettono in mezzo questa storia, dove sono questi litterati, che da un canto vi ho fatto la Virtù, che appoggia un braccio in quel vaso grande pien di fiori, per l'odore buono che essa Virtù fa sentire dell'opere sue; con l'altro tiene un libro aperto, mostrando che senza le fatiche e gli studi non si dà di sé odore al mondo; le quali, quando sono condotte al segno che facciano romore, la Fama, che è di qua in questo altro angulo, suona la tromba d'oro, e bandisce la chiarezza dell'opere con le trombe che gli scrittori hanno lassato all'età nostra.
P. Io vi dico, Giorgio, che non è tanto grande opera, che per Lorenzo aviate fatta, che al merito della sua lode non sia poco; ma ditemi, queste quattro teste che avete fatte in queste medaglie ovate, tenute da que' putti di rilievi tondi e messi tutti d'oro, con tanti ricchi ornamenti attorno, per l'effigie degli uomini di casa nostra e per le lettere che vi sono intorno, si conoscono che le sono; ma questa prima qui, sotto a questi uomini dotti, che è la testa di Giuliano, fratello di Lorenzo, che fu padre di papa Clemente VII, ditemi, questa impresa che gli fate dalle bande con quel troncon tagliato verde, che nelle tagliature de' rami getta fuoco, con quel motto scritto che dice SEMPER, se voi sapete il suo significato.
G. Dicono che questa impresa portò Giuliano nella sua giostra sopra l'elmo, dinotando per quella, che, ancora che la speranza fusse dello amor suo tronca, sempre era verde, e sempre ardea, né mai si consumava.
P. Mi piace; ma voltianci qua sotto la storia, dove Lorenzo abbraccia il re d'Erminia a Napoli; non è questo, armato d'arme bianca con questo zazzerone nero, Piero primogenito di Lorenzo, che ebbe per donna la figliuola del cavaliere Orsino, e che governò dopo suo padre lo stato?
G. Signor sì, e fu anche quello che lo perdé.
P. Egli non è dubbio che, a chi si governa con poca prudenza, come fece lui, spesso interviene il contrario di quelloche si spera; ma ditemi, perché gli fate voi quella impresa di questo broncone mezzo secco, che ha le rose rosse fiorite, e con le foglie verdi, con questo motto franzese che dice ...?
G. Io non so quello si voglia significare; credo che questa impresa fusse fatta nel suo esilio fuora, perché l'ho vista a Montecasino, dove egli è sotterrato, che Clemente VII gli fece fare di marmo una gran sepoltura; e credo che il broncone, o rami secchi, sieno coloro che son stati già in istato, e, fatto fiori e frutti, poi per le avversità perduti, e del tutto fuori della verde speranza; che ancora ha il ramo tanto del verde, che e' può fare rose e frutti: e ciò seguì mentre che e' visse, che gli mostrò tre volte la fortuna la via del suo ritorno.
P. Può essere ogni cosa; ma voltianci a quest'altro sotto la storia di Serezzana, che non si può scambiare, ancora che voi non ci avessi fatto le lettere; questo io lo cognosco, gli è Giovanni cardinale de' Medici; oh che cera proprio da esser papa, come egli fu! Ma in questa impresa senza motto arò caro di sapere che significa quella neve piover dal cielo, ed agghiacciarsi in terra, ed il sole dall'altra parte, battendovi sopra coni suoi razzi, la disfà.
G. Questa l'ho già sentita interpretare per la natura e bontà di questo singolar uomo, il quale, col sole della grazia e della virtù sua, disfaceva ogni indurato animo, vincendolo con lo splendore de' razzi della sua liberalità, come egli mostrò poi nel suo pontificato.
P. Questo ultimo, che è di qua, dove io veggo il Magnifico Giuliano, suo fratello e minor di tutti, il qual sempre m'è parso ch'egli abbi un'aria molto gentile, ed odo che fu la gentilezza del mondo, e l'umanità e la bontà di casa nostra; ma ditemi questa sua impresa, dove io veggo in su quel ramo di miglio quel pappagallo verde, con quel motto che dice GLOVIS.
G. Signor Principe, il Magnifico Giuliano per questa impresa volse inferire secondo molti che il pappagallo sul miglio è una sorte di biada che è prodotta dalla natura, perché si conservi più che l'altre biade, ed è manco corruttibile che gli altri semi fuor della terra; dove fa che il pappagallo, che è in forma della voce umana, dice sempre GLOVIS, il qual motto, secondo alcuni, ogni lettera per parte dice una parola, che sonerebbono così: Gloria, Laus, Honor, Virtus, Iustitia, Salus; che visto il Magnifico Giuliano il pontificato di Leone suo fratello, in casa sua, volse dire che sempre starebbe quivi la gloria, la lode, l'onore, la virtù, la giustizia e la salute.
P. Io non sapeva a quel GLOVIS dargli mai interpretazione alcuna; ma quel che mi è piaciuto, oltre a queste imprese, è l'arme che voi fate loro delle palle, che sono differenti queste di Lorenzo a quelle di Cosimo, perché veggo queste che son qui, dove voi fate la palla azzurra di mezzo con i tre gigli che ebbe Lorenzo dal re di Francia, e mi piacciono questi tre angoli con le tre punte di diamante.
G. Le sono impresa sua, ed in questi angoli le palle fanno per ogni verso numero perfetto, che squadrato drento l'angolo in quadri in ogni mezzo viene giusta una palla; che quando io era giovanetto, stando a Roma col cardinale Ippolito de' Medici, me la insegnò a fare papa Clemente.
P. Io vedevo bene che ella aveva disegno, e mi pareva che ciò venissi dal buono.
G. Ora, Signor Principe, come io dissi a Quella innanzi nel mio ragionamento, che a questo subietto di Lorenzo sarebbe stato necessario avere avuto una stanza di maggior grandezza, chi avessi voluto dipignere tutte le storie sue, perché, come Quella sa, ancora egli non vivessi più che quarantaquattro anni, egli fece cose assai e tutte onoratissime, così nelle azioni della vita, come ancora nelle fabriche ed edifizi particulari per sé, e per memoria de' suoi, come la sepoltura di bronzo e di porfido in S. Lorenzo per Piero suo padre, e Giovannisuo zio, edificando ancora il palazzo del Poggio a Caiano, e molti altri per la città e fuori, come fu lo spedaletto di Volterra, ed il gran principio della villa di Agnano di Pisa, ma per il pubblico il castello di Firenzuola infra le Alpe, ed il Poggio Imperiale ne' confini di Siena, e le cittadelle di Pisa, di Volterra e d'Arezzo, dove sempre gl'ingegnosi, e gli architetti furono in pregio ed in favore da lui tenuti; e, perché usò sempre inverso ogn'uno pietà e clemenza, fu da Iddio amato sommamente, dove per ciò le imprese sue furono sempre condotte al fine con una felicità incredibile.
P. Io per me non sento suono a' miei orecchi più dolce che le lodi di questo savio e prudente uomo; e quando io ho inteso quanto egli era eloquente, e finalmente senza alcun vizio, vorrei con ogni diligenza che non solo io, ma molti cittadini, che io conosco, fussino tali, che e' specchiassino in queste sue virtù, che lo imitassino, e in tutte le azioni nostre ci fussi per esemplo. Or poiché abbian finito di veder le storie, e ragionare assai di quelle, non perdiamo tempo più altrimenti a guardar le grottesche e gli altri ornamenti, che avete fatti nelle facciate e nelle volte; che, volendo noi ragionare di queste altre stanze, ho paura più che il tempo ci manchi, che la materia.
G. Vostra Eccellenza dice benissimo; ma, per concludere il fine del ragionare, io dirò solo a Quella in questa, per ricordo dell'altre, che ogni volta che Vostra Eccellenza viene in una di queste stanze, se ben prima non vi ragiono delle storie, che son fatte nelle stanze di sopra a queste, come feci nel principio a quella di Cosimo vecchio della Dea Cerere, la quale era in figura di Cosimo, il quale provvide l'entrate a casa sua, e vi introdusse il governo; così in questa, che noi siamo, son quassù di sopra le storie della Dea Opi, adorata, e da tutte le sorti di uomini grandi e piccoli con doni e tributi riconosciuta per madre universale, così come Lorenzo in questa abbiamo veduto, che da tutte le sorti d'uomini è stato riverito, presentato e tenuto per padre de' consigli e di tutte le virtù; perché bisogna che Vostra Eccellenza vadia sempre col pensiero immaginandosi che ogni cosa, che io ho fatto di sopra, a queste cose di sotto corrisponda; che così è stata sempre l'intenzione mia, perché in ciò apparisca per tutto il mio disegno; e per non tener più Vostra Eccellenza in questo ragionamento, noi passeremo a questa avendo noi a vedere e ragionare delle imprese gloriose di Leone X, figliuolo di Lorenzo, che sono pure assai al mio dire, acciocché avanzian tempo.
P. Andiamo che il mio piacere è oggi infinito; se non fussi che io patisco nell'animo, che ho paura che non vi venga a fastidio a ragionar di tante cose, quanto io sento oggi.
G. Vostra Eccellenza non lo pensi, perché queste storie di casa vostra Quella le sa al par di me, perché veggo che ne dite una gran parte e mi aiutate di sorte, che oggi si può dire che aviamo patito a mezzo la fatica. Ora entri Vostra Eccellenza in questa sala.
P. Volentieri: venite.