Ragionamento Settimo
Sala d'Ercole
Principe e Giorgio
G. Gli è meglio: guardi Vostra Eccellenza questa camera è chiamata la camera d'Ercole, e queste sono le sue storie; questa di mezzo è quando Anfitrione obbligato nelle nozze di Alcmena, a far le vendette della morte del suo fratello; mentre che egli era a questa impresa, Giove presa la forma d'Anfitrione, come se venissi dallo esercito: Alcmena credendolo marito giacque seco, e così ingravidando ne nacque Ercole, il quale vedete che l'ho fatto in quella culla ignudo, che è perseguitato dalla matrigna Giunone, quale gli mandò dua serpi per divorarlo, mentre dormivano i padri; ed egli con le mani tenere presegli per la gola, e strangologli quivi; e Giove e Alcmena ignudi, che guardano la forza d'Ercole, che quasi scherzando dà la morte a que' velenosi animali.
P. Mi pare questo un quadro molto pieno; ma perché avete voi fatto quell'aquila grande a piè del letto con quel fulmine negli artigli?
G. Per mostrare che quella figura, che siede ignuda in quel letto, è Giove trasformato in Anfitrione, e non Anfitrione.
P. Bene avete fatto; ma ditemi, in questo tondo io veggo Ercole, che ammazza quel serpente da sette teste.
G. Questo è quando alla palude Lema combatte con l'idra, mostro grandissimo e terribile, che aveva appiccato in su le spalle sette capi, che ogni volta che se ne tagliava uno, ne nascevano sette altri, ma da Ercole preso per ispediente di estignere col fuoco l'origine vitale, gl'insegnò morire. In questo altro quadro è quando e' vinse il lione Nemeo, dannoso a tutto quel paese, orrendo e fiero animale; e dopo scorticatolo, portò sempre per insegna la pelle.
P. Quest'altra che seguita, dov'è la bocca dello inferno?
G. È quando Ercole, entrando nello inferno, prese per la barba il trifauce can Cerbero, il quale gli voleva vietar 1'entrata, legandolo appresso con una catena di tre ordini di metallo, lo condusse di sopra; di là nell'altra storia è quando e' tolse i tre pomi d'oro alle donzelle Esperidi, e che egli ammazzò il dragone focosissimo e velenoso, che gli guardava.
P. Certo che sono belle forze. Che veggo io fuggire da Ercole e con la clava ammazzare uno che tira una vacca per la coda?
G. Signore, questo è Cacco ladro, il quale stando nel monte Aventino tirava per la coda le vacche che egli rubava, acciò si vedessi alle orme de' piedi quelle essere uscite di quello e non entrate.
P. Quest'altra?
G. È quando Anteo figliuolo della Terra, maestro della lotta, giucò con Ercole, il quale sendo in isteccato, e avendolo gittato in terra parecchie volte, e' ripigliava nel toccar della madre Terra più forze; in ultimo levatolo di peso in aria lo strinse, e tanto lo tenne, che mandò fuori lo spirito. In questa che segue è quando egli ammazzò Nesso, centauro, che sotto spezie di farli servizio s'era ingegnato di menargli via la moglie Deianira; e questa altra ultima in questo palco è quando Ercole prese il toro, che Teseo vincitore aveva menato in Creta, il quale con la furia ed insolenza sua rovinava tutto quel paese. Ora si son finite di veder tutte queste storie del palco; abbassate gli occhi, e veduto che aremo le storie de' panni d'arazzo, che son qui di sotto, dirò poi i significati di tutte.
P. Incominciate addunque, che le prove di questo Ercole mi sono sempre piaciute.
G. Eccomi: in questo panno vi è drento quando i centauri nelle nozze di Piritoo volsono rapire Ippodamia, sua moglie, i quali furno feriti e morti dalla virtù d'Ercole; seguita in quest'altro il porco cignale Menalio, il quale fra' boschi ne' gioghi di Erimanto in Arcadia rovinava e faceva tremare ogni cosa.
P. E quest'altro che segue che è dove io veggo Mercurio?
G. Questo è che Ercole ragiona con Mercurio, che ammazzi con l'arco gli uccelli stinfalidi, cioè l'arpie, le quali facevano oltraggio al Sole; che gli Dei, fatto consiglio in cielo, mandarono a dire che levassi que' mostri ai mortali.
P. Questa che segue che cosa è?
G. È, che essendo Ercole in Occidente sul mare Oceano pose Calpe ed Abila, che l'uno e l'altro si chiama le colonne d'Ercole, mostrando che a' confini di quelle le navi non dovessono per quelli altri mari andare, sendo pericolo in quelli; ed in questo che segue fu che quando i giganti fecion guerracon gli Dei celesti, i quali impauriti si tirorno in una parte del cielo, e tanto fu il lor peso e paura, che il cielo minacciava rovina; laonde, visto Ercole che Atlante non poteva sostener quel carico, vi messe le spalle fino che Atlante si riposasse.
P. Certo che fu un grande aiuto; e dove lassate voi quest'altra, che, deposta la clava, con questa donna fila?
G. Questa è una burla che gli fanno i poeti, e dicono che Ercole si innamorò di Iole, sua moglie, figliuola di Euristeo, re di Etolia, ed ai prieghi di lei, deposto la fortezza e la clava e la pelle del leone, si pose a filar con quella, cantando le favole.
P. Certamente che sta male fra tanta virtù una dappocaggine sì fatta, e massime a uno Dio sì forte.
G. Questo dinota, Signor mio, che lo amor delle donne toglie il cervello ad ogni forte e savio uomo, e ad ogni gagliardo animale, avendo provvisto la natura di noi che la nostra superbia si abbassa talvolta in cosa che fa gli animi nostri da tanta altezza diminuire in cosa che non si stima mai da nessun mortale; ché Ercole, vinto dallo amore di Deianira, ricordandosi del dono che a lei gli fece Nesso centauro e credendo esser vero quel che mentre moriva gli disse che volendo fare che Ercole tornassi a amarla come faceva prima, gli mandò le vesti di Nesso segretamente, le quali Ercole a caso, senza pensare a inganno, se ne vestì, ed andando a caccia, sudando per la fatica, quel sangue velenoso, che aveva toccato quella spoglia, gli entrò nella carne e per le vene, e cadde in tanto dolore, che deliberò darsi la morte, e così nel monte Eta, fatto una catasta di legne, e prima spezzato l'arco, ancorché si dica che lo donasse a Filottete figliuolo di Fiante, poi fattole dar fuoco, consumandosi e ardendo si morì.
P. Tutto sta bene; ma ricominciate da capo e diffinitemi l'interpretazione di queste storie dalla nascita d'Ercole per insino alla morte, secondo il senso nostro.
G. Io ho dipinto, Signor Principe mio, la vita d'Ercole in queste camere, come cosa illustre e celebrata dalli scrittori antichi e moderni, ed ancora come fatiche virtuose, e per non mi partire dall'ordine già preso della Geonologia, che dopo Giove nasce Ercole suo figliuolo, e mi sono sempre ito immaginando che questi, onorati pensieri e fatiche naschino, e tutto il giorno accaggino ai principi grandi, i quali si affaticano a ogni ora, mentre vivono, governando, per combattere co' vizi della invidia e della avarizia e lussuria, e molti altri, ma ancora con le contrarietà de' giuochi della fortuna, che non son pochi; dove infinitamente sono lodati coloro che con la virtù e valor dell'animo loro gli vincono; che ciò causa a questo mio pensiero un altro intendimento, il quale in questa mia opera è utilissimo e necessario, atteso che la vita di questo Dio terrestre, e i suoi gran fatti e le battaglie, e le avversità che egli ebbe, sono in queste mie pitture come uno specchio, che serviranno a chi le guarda, a imparare a vivere, e massime ai principi, che tali storie non hanno a essere specchio da privati; talché Vostra Eccellenza che vede qui Ercole, che appena nato, a sedere in sulla culla soffoca i dua serpenti, che venivano per divorarlo; che tale è l'invidia potente degli uomini, i quali s'interpongono alle imprese gloriose, come disse bene il poeta nostro in que' bellissimi versi:
O invidia nemica di virtute,
Ch'a' bei principi volentier contrasti
che questo si vedde ne' principj della grandezza di Cesare, e di molti altri in Roma ed in Grecia, ed ha tanta forza questa invidia, che talvolta ancora vi fa rimaner drento quelli che ottimamente son buoni, come si vide nel caso di Catone, che, quanto potè, cercò impedire i gloriosi principj di Scipione. Ma che più vivo esemplo possiamo noi pigliare di quello del duca, vostro padre, partorito appena dalla bontà di Dio per esser capo di questo governo, ed involto ancora nelle fasce, di quello, quando il veleno della simulazione e della invidia de' cardinali venne per divorargli lo stato, che egli con le mane ancor tenere strangolò loro i pensieri, che non seguì loro l'effetto velenoso e maligno. né pensate, Signor Principe mio, che il veder combattere quivi Ercole alla palude Lerna con l'idra, non diletti chi considererà quella storia, potendo pascer l'animo, ed imparare a cognoscere che questo animale sia l'adulazione e la falsità, la quale i principi buoni arebbono a combattere del continuo come fece Ercole; i quali, quando aranno cura alla peste di questo animale, faranno sempre come fece Alessandro imperatore, il quale cacciò di Roma tutti li adulatori e falsari, che aveano prima ammorbata, avvelenata quella città e del suo antecessore; non pare egli a Vostra Eccellenza che tagliasse i capi all'idra col fuoco a levarseli dinanzi?
P. Certamente sì.
G. Ma ditemi, non è una virtù grandissima quella di quel principe, quando libera una città per soffocamento di alcuni cittadini, i quali, non contenti d'un governo, vanno con la grandezza e superbia loro sottentrando per venir capi, e cercando per vie diverse tenere in sedia altrui, e voler con malvagi pensieri sotto quella ombra rubare e vendicare l'ingiurie loro? Non è quella di quel signore una battaglia col superbo leon Nemeo? Pongasi mente nelle storie greche, delle quali infiniti esempli so che sapete, ed in quelle di Roma quello che intervenne a Catilina, che ragunati insieme molti tristi e scellerati cittadini, oppressi da' debiti e dal modo del ben vivere, furono da Cicerone consolo soffocati e sbranati come il lione Nemeo. Ed al tempo nostro il duca Cosimo quanti ne ha distrutti di questi simili uomini! Vostra Eccellenza consideri di mano in mano chi è quello che, se vuole esser tenuto principe grande, non combatta di continuo con Cerbero, cane infernale, posto a mangiare gli uomini vivi, e con l'avarizia, la quale si vince con la liberalità e con i doni grandi alle persone virtuose che hanno lasciato memoria, come fece Alessandro Magno, Cesare, Pompeio, Lucullo, e molti altri, che colle magnificenze delle spese pubbliche, e con quelle fabbriche che hanno fatto, l'hanno superata e vinta: esemplo grandissimo di avvicinarsi a Dio, dove tutto quello che sapiano di certo che non è nostro con giudizio donasi alle persone virtuose, che per li scritti loro ed altre memorie grandi lo fanno esser loro in vita e dopo la morte; che questo ci è intervenuto più in casa Medici, che in altra moderna, per Cosimo, Lorenzo, Leon X, Ippolito, Alessandro, ed il duca nostro.
Ma che dirò io delle donzelle Esperidi, nel cui giardino erano i tre pomi d'oro guardati dal vigilantissimo serpente, tolti per virtù d'Ercole; se può esser più bella virtù in que' principi, che spettando l'occasione, e che addormentati i nimici, quando men pensano al pericolo, la virtù d'un solo giudizio vince la confusione di maggior forze; che ciò intervenne a Claudio Nerone, che volando con l'esercito suo vincitore oppresse i Cartaginesi, che, addormentato, fu desto dal presentarli la testa d'Asdrubale. Ma che più chiare storie di quelle che furono (si può dire) ieri nel duca nostro, nella celerità della guerra di Montemurlo e nel pigliare i forti di Siena? né crediate, Signor Principe, che il combattere con Cacco non sia l'odio e lo sdegno che la giustizia de' principi buoni ha di continuo con la natura de' ladri e malfattori, ché questa storia la prese per insegna questo palazzo. Che molti esempli per ciò si potriano adurre; che mi basta solo accennare a Quella che legge spesso le storie, lo indirizzo e a che cammino vanno i miei pensieri: che non meno Spartaco gladiatore facendo la congiura degli altri simili a sé, tutti ladri e malfattori, furono per metter sottosopra il Senato di Roma. Ma troppo lungo sarei forse, se minutamente io arei a dire il tutto di quel che rappresentano queste fatiche, come questa di Anteo, figliuolo della terra, che è la Bugia, nata di essa Terra, scoppiata dalla Verità, nata di Giove in cielo; la quale dalla sua chiarezza mostra le tenebre in che sono i bugiardi, che per virtù di chi ministra la giustizia se li fa esalar lo spirito. Tanto interviene, Signor Principe, nella Fraude, in figura di Nesso centauro, che sotto le lusinghe menò via la moglie d'Ercole, la quale è l'anima de' gran principi, che ingannata dalle lusinghe, e piaceri, e ricchezze terrene, se non è vinta dalla virtù d'Ercole che con l'arco della ragione, tirando la freccia dello intelletto nella fortezza dell'animo suo, vincendo se medesima, resta vincitrice di essa Fraude. La qual virtù vince e spezza poi le corna alle forze grandi dell'orgoglioso toro, facendone empiere il corno secco, pieno di frutti virtuosi.
Di questa vittoria de' Centauri che dirèno? Se la virtù e le forze d'un principe severo e giusto e santo come fu Traiano imperatore, non combatte e vince la moltitudine di tanti mostri, che altro non sono che la varietà di tante sorte vizi che di continuo combattono con la vita d'essi principi. Ma quanti troverrete, Signor Principe, che restino come Ercole alle battaglie del porco cignale in persona della lussuria, come Alessandro Magno nella moglie e figliuole di Dario, e Scipione Affricano nel rendere al marito la sua consorte, e altri infiniti, come anche in questo il duca vostro padre ammiri tanto la virtù di questi illustri e di Ercole ancora? Ma chi son quelli che si possono difendere come Ercole dalla voracità, rapina e puzzo delle Arpie? Certo non so qual Signore possa resistere dai buffoni, parasiti, ruffiani ingordi, sporchi, rapaci e insolenti e mordaci e gelosi, come fu Ercole, che da questi vizi corrotto si ridusse con tanta virtù in viltà a filare e cantar le favole con le donne semplice: che tutto nacque che Ercole era uscito dalla via virtuosa, la quale per il cammino suo onorato ci conduce alla salute di noi mortali.
Ora, Signor Principe mio, è oggimai da mettere i termini delle colonne di Ercole al mare Oceano, per non passare più oltre ancor noi con l'istorie, ma sì bene co' termini della vita virtuosa mettere le colonne del buono esempio per aiutare e reggere, come Ercole, la palla del mondo posta in sulle spalle a Atlante, il quale non è altro che l'aiuto de' principi nel governo loro, fatti simili a Dio nella pietà, nella clemenza, nella giustizia, e nelle altre virtù, le quali membra fortissime sostengono la palla del mondo: che sarà ora in Vostra Eccellenza lo aiuto che doverrete dare al duca nostro nel governo di questo stato, acciò, quando sarà stracco da' pensieri e dalle fatiche, che allora Quella con la prudenza e con la temperanza e con l'altre virtù onorate metterete le spalle obedienti e virtuose sotto il peso de' faticosi negozi, per levargliene da dosso, acciò e lui ed i servitori vostri e gli altri principi illustri che vedranno voi giovane pio inverso il padre vostro, impareranno da Quella a soccorrere e aiutare il prossimo loro. E per concludere l'ultimo di questa storia dico che stracco Ercole dalle fatiche e ingannato dalle cose terrene in Deianira per la fragilità viene avvelenato per le carni sua insanguinate [dalla camicia] di Nesso, che altro non è che il veleno delle male opere, le quali chi conosce ciò cede, ricognoscendosi nel dolore della correzione e della penitenza; e così va preparando il rogo del fuoco per ardere nella carità della grazia di Dio, gittandosi in quelle, le quali per virtù loro consumano le male cogitazione, onde vola perciò l'anima al cielo: che tale arebbe a essere il fine del principe santo e buono. E qui, Signor Principe mio, finisco le fatiche di Ercole, e le mie insieme del ragionare.
P. Io non so, Giorgio, il più bello fine, che io mi avessi voluto di questo, che da poi che cominciasti nella prima sala a far l'anime per metterle ne' corpi di terra nella storia del padre Cielo per adoperargli quaggiù vivi e di carne, che avete tanto aggirato per queste stanze con queste storie, che ormai son ridotti dal suo principio al fine per il fuoco e tornati di cenere in terra e fatto ritornare le medesime anime al Cielo, dove (donde?) partirono nella morte d'Ercole virtuosissima: certo che io resto satisfatto da voi sì delle pitture, sì delle invenzioni, che questo giorno non m'è parso né lungo né caldo, sì l'aura della dolcezza del vostro ragionare mi ha fatto fuggire l'uno e l'altro fastidio; io non vo' ringraziarvi oggi, poiché mi avete allettato a sì dolce trattenimento, ma sì bene domani: sicché preparatevi per le stanze di sotto, dove molto più spero d'avere a satisfarmi, per vedere e sentire le cose moderne e tutte di casa nostra. Or per non tediarvi più, che so dovete essere stracco, andatevi a riposare che io vi lasso; Son vostro, addio.