Giornata Prima
Ragionamento Primo
Sala degli Elementi
Principe e Giorgio
P. Che si fa oggi, Giorgio? Voi non disegnate per la muraglia, e non dipignete le storie. Questo caldo vi debbe dar fastidio, come fa ancora a me, che non dormendo il giorno mi sono partito delle stanze di là per il caldo e sono venuto in queste vostre che voi avete dipinto, per passar tempo e vedere se ci è più fresco che in quelle di là.
G. Sia Vostra Eccellenza il ben venuto. Voi siate molto solo?
P. Io son solo, perché mandai, poco è, a vedere quel che facevi, senza dirvi niente; che mi fu detto che voi passeggiavi sfibbiato per questa sala, e che sonavi a mattana, e non facevi niente.
G. Vi fu detto il vero, Signor mio; a me non basta l'animo lavorare per questo caldo; e non si può fare sempre, sapendo Quella che ogni cosa terrena quale ha moto, spesso si stanca; ed in quest'opera ora non è maraviglia se facciamo adagio perché siamo presso alla fine, e ci andiamo intrattenendo.
P. Voi fate bene, che in vero avete fatto in brieve tempo volare questo lavoro, e quando mi ricordo di quelle stanzaccie torte di sotto e di sopra che ci erano, e che vi sete sì bene accommodato di questi muri vecchi, io mi stupisco. Ma quando volete voi attenermi la promessa di dirmi tutte queste invenzioni di queste storie che avete fatto in queste stanze di sopra e di sotto? Che se bene qualche volta ho sentito ragionare un pezzo del fine d'una ed il cominciamento d'un'altra, arei caro un di da voi che l'avete fatte, sentire per ordine questo intessuto; che, secondo che io ho sentito ragionare al duca mio signore, che gli è uno stravagante componimento e capricciosa e grande invenzione in tutto questo lavoro.
G. La invenzione è grande e copiosa, ed ogni volta che Vostra Eccellenza mi dirà ch'io lo faccia, uno cenno mi sarà comandamento.
P. Io non so miglior tempo che ora, poiché a ciò veggio disposto ognun di noi; e ve ne priego e se non basta, per amorevolezza vel comando.
G. Eccomi a Quella: dove vogliamo noi cominciare? A me parrebbe, da poi che noi siamo in questa sala, la quale fu prima di tutte le stanze a farsi, noi incominciassimo di qui.
P. Io mi lascerò guidare da voi, perché voi la sapete meglio di me. Ora dite su.
G. Dirò a Vostra Eccellenza, poi che per amorevolezza mel comanda, e che vuole che il principio di questo nostro ragionamento sia la sala dove siamo. Quando io venni qui al servizio del duca Cosimo suo padre e mio signore, trovai questa muraglia vecchia; la quale, secondo io intesi, furono già trecent'anni sono le case d'alcuni gentil'uomini di questa città, quali in spazio di diversi tempi per più cagioni furonoincorporate dal comun di Firenze, per fare che tutto questo palazzo fusse isolato dalle strade e dalla piazza, come Quella vede al presente. E perché, come altre volte abbiamo ragionato, quelli che in quel tempo erano tenuti grandi, non ebbono modo di edificare, se non a uso di torre e di fortezze; qual modo, o fussi per l'innondazione de' Barbari in Italia, de' quali, rimanendocene poi li semi, s'è visto che ancora che il tempo sia stato lungo, con la purgazione dell'aria, non si sono mai appiccati insieme con l'animo e con l'amore con li terrazzani di questi paesi; dove ne nacque che in Toscana è stato sempre mutazioni e parzialità, o forse per altro, che per nol conoscere lo lasso. Basta, che si vede, che ogn'uno per sua sicurtà si andava con le fabriche fortificando nelle proprie case; il qual modo di murare non solo se ne vede oggi in Firenze, ma in tutte le città di Toscana ed a Ravenna, in Lombardia, ed in molti altri luoghi d'Italia, che per ora non scade che noi ne ragioniamo.
P. Anzi sì; ed avvertite, Giorgio, che, poiché mi avete tocco questo tasto, che io non ho minor voglia sapere l'ordine del murar vecchio di questi tempi doppo la rovina dell'imperio Romano, ch'io abbi cercato di sapere il modo de' veri antichi innanzi a Cristo, che più volte n'ho avuto notizia. Ditemi un poco, queste torre piene di buche e di mensole con quelle porte lunghe in mezzo, ed il murar grosso nelle torre, che e' feciono, andando tanto in alto con esse, a che serviva loro?
G. Signor mio, io non vi saprei dir tanto, ma io conosco bene una gran sicurtà di difesa in questi edifizj, perché allora le buche erano piene di legnami grossi, che erano trave di quercie e castagni, le quali sostenute da certi sorgozzoni di legnami fitti nelle medesime buche facevano puntello per reggerle, come è rimasto quel modo ancora nelli sporti che noi veggiamo al presente in Firenze; quali, circundando intorno a dette trave per ispazio di braccia quattro, facevano palchi di legnami, di che era copiosissimo il paese, alcuni balconi, o terrazzi, o ballatoi che li vogliàn chiamare, da' quali eglino giudicavano poter difendere l'entrate principali delle torre e combattendo con i sassi per l'altezza di quelle, facevano caditoie fuori e drento nelle volte, che col fuoco non potevano essere arse; li quali luoghi, per virtù di queste difese, si difendevano ogni dì dalle scorrerie de' populi della città, e dall'altezza di quelle vedevano di fuori chi veniva a offenderli, e sapevano tutto quello si faceva nella città per contrasegni, che da quelle altezze mostravano con fuochi, ed altri cenni. Ma ancora che fusse il murar barbaro e disforme dal primo ordine antico, riservarono sempre la quadratura delle pietre, il muralle con diligenza, e le crociere delle volte con la antichità. de' Romani; e se bene egli ebbono i garbi delle porte con quei quarti acuti bislunghi, e certe mensolaccie goffe, cercarono far con più brevità le muraglie loro che e' potevano; laonde in spazio di tempo, consumata l'età rozza, e ringentilita dall'aria e dal tempo, fu poi da' nuovi maestri per la quiete, qual dava più tempo, e studio loro, che trovorno il far le case con l'ordine toscano, con le bozze grosse e piane, e di mano in mano ampliando con più ornamenti quell'opere, che s'è ridotto a questa perfezione moderna.
P. Tutto mi piace, e si vede esser per queste vestigie, a quel che dite, verisimile assai. Or torniamo all'origine di queste stanze di che si ha a ragionare; ditemi, molto non avete consigliato il duca mio signore a gittare in terra tutte queste muraglie vecchie, e con nuova pianta levare dai fondamenti una aggiunta grande a questo palazzo di fabrica moderna, riquadrando le cantonate di fuori, e le stanze di drento, e con vari e ricchi ornamenti aver mostro e la grandezza di Sua Eccellenza e la virtù vostra, insieme con la magnificenza di questa città, la quale per li tempi passati si è visto in ogni luogo, per li artefici suoi nelle fabriche private e publiche, il vero esemplo della bellezza e della perfezione; confessando tutto il mondo, come sapete, dopo i veri antichi, d'avere imparato il modo del murare e la diligenza dagl'ingegni toscani?
G. Vostra Eccellenza dice la verità, ma so bene che Quella sa che il duca arebbe saputo, e potuto farlo felicissimamente, se il rispetto di non volere alterare i fondamenti e le mura maternali di questo luogo, per avere esse, con questa forma vecchia, dato origine al suo governo nuovo. Che poi che egli fu creato duca di questa repubblica, per conservar le leggi e sopra quelle aggiugner que' modi che rettamente faccin vivere sotto la iustizia e la pace i suoi cittadini e che dependendo la grandezza sua da l'origine di questo palazzo e mura vecchie, e benchè sieno sconsertate e scomposte, gli è bastato l'animo di ridurle con ordine e misura e sopr'esse ponendovi, come vedete, questi ornamenti diritti e ben composti, e ‘l far conoscere anche nelle cose difficili ed imperfette, che ha saputo usare la facilità e la perfezione ed il buono uso dell'architettura, così come anche ha fatto nel modo del governo della città e del dominio; e merita, Signor Principe mio, più lode chi trova un corpo d'una fabbrica disunito e da molte volontà fatto a caso e per uso di più famiglie ed alto di piani e bassi e con buona salita di scale piane per a cavallo ed a piè, e lo riduca senza non rovinare molto, e unito e capace alla commodità d'un principe, capo d'una republica, facendo un vecchio diventar giovane ed un morto vivo; che sono i miracoli che fanno cognoscere alle genti che cosa sia dall'impossibile al possibile e dal falso al vero; perché ogni ingegno mediocre arebbe saputo di nuovo creare qualcosa, e saria stato bene, ma il racconciar le cose guaste, senza rovina, in questo consiste maggiore ingegno: né si poteva sopra a mura nuove, volendo con tanto ornamento dipigner le storie di questa Republica onoratissima, per non essere stati que' sassi testimoni a tante gran cose come questi di queste mura vecchie, le quali poi che sono state ferme alle fatiche ed a' travagli, debbono per la costanza loro essere ornate ed indorate, come Quella vede e crede, da che fur murate l'anno 1298 per fino a questo dì: ancoraché questo palazzo abbi avuto dimolti travagli d'importanza, come sapete, ed abbi mutato governi vari, abitator nuovi, moneta, leggi e costumi, ha pur fatto onoratamente sempre guerra ai suoi nemici, e suddite di queste mura le castella e le città circonvicine; e se bene fra la fazione popolare ed i magnati hanno spesse volte combattuto fra loro, non si son però mai lasciate vincer da altri; dove cognoscendo queste pietre in nel gran Cosimo vecchio il giudizio, la bontà e l'amore che egli portò a loro, ed alla sua patria, sempre li furono devote; sperando un giorno che in chi si doveva rinnovare il suo nome, dovesse un giorno illustrarlo, rinnovarlo e rimbellirlo, e con lo splendore degli ornamenti che si dovevano fare, avessi poi aver fama del più raro palazzo e del più commodo e singulare, che alcun altro fusse stato fabricato dalla grandezza di republica o principe che sia stato mai: dove egli per i tempi degli esili dell'Illus.ma casa e che molte statue e cose rare che furon levate di casa Medici e portate in questo luogo ed unitesi colla volontà loro, sono state cagione di pigliare il possesso per Sua Eccellenza, acciò potesse nel colmo della sua grandezza essere albergo e ricetto di molti principi illustri, e del più singulare duca che ci abitasse o ci venisse mai; e contra la natura sua, che soleva esser volubile per i governi passati, ora è diventato saldo, né è più variabile, parendoli, per chi ci abita al presente, aver trovato il riposo e la quiete sua. Ed è statoli sì propizio il cielo in venti anni che Sua Eccellenza ci abita, che ha voluto che ci nascano i principi e che si onorino di titoli e che in questo tempo le vittorie di Siena e di altri luoghi si acquistino e le tante grandezze dello illustrissimo don Giovanni nel suo cardinalato ed i parentadi e le nozze si facciano del duca di Ferrara, e duca di Bracciano, e si consumi in esso i matrimoni; e poi essere albergo già due volte e di due cardinali alloggiativi, che poi per suo fatal auspicio son diventati pontefici sommi, e molte altre ed infinite cose successe per lui, che le passo con brevità. Dove, mosso Sua Eccellenza da sì potenti cagioni, non ha mai voluto che nessuno architetto dia disegni che abbino a torgli la forma vecchia, ma s'è bene contentato (come dissi prima) che sopra questi sassi, onorati da tante vittorie vecchie e nuove, vi si faccia ogni sorte d'ornamento di pietre, di marmi, di stucchi, d'intagli, di legnami dorati e di pitture e sculture e pavimenti e si conduchino acque e facci fontane con più eccellenza che si può in questa età, per ricognoscere l'amore e la fede di questo luogo; e come vedete, se non in tutto in parte: e che sopra queste ossa con nuovo ordine si vadiano accommodando in più luoghi appartamenti e molte abitazioni varie e utili e magnifiche e ridurre le membra sparte di queste stanze vecchie in un corpo insieme, per dare poi nome con le storie dipinte nelli appartamenti delle camere e sale, a gli Dei celesti nelle stanze di sopra, ed a gli uomini illustri di casa Medici in quelle di sotto; accompagnandole con quella copia di tanti ritratti di signori e di cittadini segnalati e padri di questa republica, con fare l'effigie al naturale di molti uomini virtuosi di que' tempi, come Quella vedrà nelle storie che io ho dipinto: e così come egli, che è capo di questa republica ed ha conservato ai suoi cittadini le leggi e la iustizia e il Dominio e tutte le ha ampliate ed accresciute e con tanta gloria magnificate, il medesimo vuol che segua di queste muraglie, le quali per esservi tante discordanze e bruttezza di stanzaccie vecchie ed in loro disunite, che mostranci il medesimo ordine che era in loro per la mutazione de' governi passati; dove il Duca nostro adesso mostra appunto in questa fabrica il bel modo che ha trovato di ricorreggerla, per far di lei, come ha fatto in questo governo, di tanti voleri un solo, che è appunto il suo. E questo è quanto gli è occorso per non rovinar quello che è fatto, ed avere a fare nuova fabrica, perché molti sono stati che di nuovo hanno fatto fabriche onoratissime e mirabili; e non è maraviglia: ma egli è ben virtù miracolosa un corpo storpiato e guasto ridurlo con le membra sane e diritte, come un giorno io mosterrò a Vostra Eccellenza un modello grande di legname di tutto questo palazzo ridotto, senza guastare quel che è fatto, a una bellissima perfezione. come disse il nostro Poeta.
P. Mi piace assai il discorso che ci avete fatto sopra, ed in vero conosco che a ragione; perché le antichità delle cose passate rendono più onore, grandezza ed ammirazione alle memorie, che non fanno le cose moderne. Or ripigliate il nostro ragionamento primo.
G. Dico, che venendo il duca nostro a abitare in questo palazzo l'anno 1537, e crescendo la famiglia e la corte a Sua Eccellenza, e trovandosi di stanze stretto, per compassione di se medesimo deliberò di fare questa aggiunta di sale e stanze nuove, e con queste camere, ed altre commodità in su questi fondamenti e mura vecchie, fatte a caso da que' primi cittadini, che non a pompa, ma solo per commodo loro le fabricorno, non guardando più a esser fuora di squadra e con cattiva architettura; e se bene erano bieche per quelle torri antiche, non curarono, pur che si accommodassino, se elle eron basse di piani, avere a salire e scendere in più luoghi bassi che alti; ed anche, per essere di più famiglie, feciono secondo il loro bisogno, chi piccole, e chi grandi; dove poi nel mio arrivo, avuto la cura di tutta questa fabrica, cominciai con l'ordine e consiglio del duca nostro a pensare, che se questa parte si fossi potuta correggere e ridurre con proporzione, abbassando ed alzando i palchi vecchi di queste stanze, perché a uno piano e' venissino alla medesima altezza de' palchi del palazzo vecchio, e che si unissino con queste stanze nuove, le quali, disegnando di farle proporzionate e ornate, le fussino cagione per questo principio, e di dar regola per poter ridurre anco col tempo le stanze del palazzo vecchio di là alla medesima maniera e bellezza moderna, come queste che avian fatte ora in tutta quest'opera, senza avere a rovinare molto le cose fatte, come Vostra Eccellenza un dì, volendo vederne di mia mano un disegno, lo mosterrò a Quella volentieri: il quale, se Dio concede la vita lunga al duca Cosimo ed a me, ho speranza che, se non peggioriamo dall'ordine preso, che in pochi anni se ne vedrà il fine; se non, ne lasceremo la cura a Vostra Eccellenza, il quale, sendo giovane e voglioloso di fare, lo potrà finire del tutto.
P. Io mi rendo certo, Giorgio mio, che se voi fate come avete fatto in questi tre anni, che abbiamo avuto la guerra addosso, e che avete fatto tanto, son certissimo che a me non toccherà altro che ringraziare Dio ed il duca Dio signore di questa commodità, e lodar voi, che lasserete per onor di casa nostra a' posteri questa memoria.
G. Signore, io vi ringrazio di queste lode, che in me non è tanta virtù; ma torniamo al primo ragionamento: dico che trovai, come Quella sa, il tetto posto non solo a questa sala, dove noi siamo a ragionare, ma a tutte queste stanze, ed avendolo chi lo fece messo troppo basso, e volendo alzare Sua Eccellenza il palco senza muovere il tetto, feci fra questo ricignimento di travi e di cornici questi sfondati che s'alzano in alto, dove dua e dove tre braccia, fino al piano del tetto, e gli spartii di maniera, che in questo quadro grande di mezzo potesse venire una storia con le figure maggiori che il vivo, accompagnandolo con dua quadri minori, che venivano più bassi, e lo mettevano in mezzo; e, perché lo spartimento venisse eguale, si fece poi questi dua altri quadri grandi, che, dalle bande, ciascuno da' dua ottanguli è messo in mezzo; che questi rilegati con cornici vengono, come vedete, nelle quadrature de' quattro cantoni del palco. Così questo mio disegno lo spartii in questa forma, perché volendo trattare de' quattro elementi, in quella maniera però che è lecito al pennello trattare le cose della filosofia favoleggiando; atteso che la poesia e la pittura usano come sorelle i medesimi termini; e se in questa sala ed in altre vo dichiarando queste mie invenzioni sotto nome di favolosi Dei, siami lecito in questo imitar gli antichi, i quali sotto questi nomi nascondevano allegoricamente i concetti della filosofia. Or volendo, come ho detto, qui trattare delli elementi, i quali, con le proprietà loro avevano a dare a questa sala, per le storie che ci ho dipinto, il nome, chiamandosi LA SALA DELLI ELEMENTI, così in questo palco o cielo mi parve di dipignervi le storie dello elemento dell'Aria.
P. Fermate; molto non ci avete fatto quel del Fuoco, il quale, come sapete, arebbe a essere più alto?
G. Perché come pittore, mi accommoda per questi sfondati e strafori d'aria dipinti in questo palco, dove in parte mostrano volare queste figure, ed in quest'altri maggiori mi tornavano ben composte e con più disegno le storie del padre Cielo, come più alto Dio; ed ancora per lassare la invenzione del fuoco materiale, che noi veggiamo ed adoperiamo quaggiù, in questa facciata, dove Vostra Eccellenza vede il cammino; che del fuoco della sfera celeste, non sapend'io come si sia fatto, lasserò questa cura a miglior maestro di me che lo dipinga.
P. Comincio già a scorgere parte della materia; ma, per vostra fè, di grazia ditemi un poco che cosa è questa che è in questo quadro grande di mezzo, dove io veggo tante femmine ignude e vestite?
G. Questa è la castrazione del Cielo fatta da Saturno. Dicono, che avanti alla creazione del mondo, mentre era il caos, il grande ed ottimo Dio deliberando di creare il mondo, egli sparse i semi di tutte le cose da generarsi, e poi che gli elementi fussono tutti ripieni di detti semi, ne venissi il mondo per quelli a diventare perfetto. Ordinato il Cielo e gli elementi, fu creato Saturno, che dal girar del Cielo si misura; il quale Saturno castrò il Cielo, e gli tagliò i genitali.
P. Benissimo, seguitate.
G. Quel vecchione adunque, ignudo a giacere con quello aspetto sereno, sì canuto, è figurato per il Cielo; quell'altro vecchio ritto, che volta le spalle e con la falce gira, è Saturno, il quale taglia con essa i genitali al padre Cielo per gettarli nel mare.
P. Fermate un passo: che vuole significare questo tagliargli i genitali, e gittarli nel mare?
G. Significa che, tagliando il calore come forma, e cascando nella umidità del mare come materia, fu cagione della generazione delle cose terrene caduche e corruttibili e mortali, generando Venere di spuma marina.
P. Passiamo pure innanzi; questo coro di figure che circondano questo Cielo e questo Saturno, disfiniteci di grazia che cosa sono?
G. Queste sono le dieci potenze o gli attributi che i Teologi danno all'Iddio, che realmente concorsono alla creazione dell'universo.
P. Mi piace; ma non hanno nomi? Veggo pur loro intorno ed in mano cose che debbono avere significato.
G. Hanno significato, signore, ed hanno nomi, e più nomi ha una cosa sola, e chi l'ha descritto in un modo e chi l'ha dipinto in un altro, e chi più e chi meno oscuro; ma io ho cerco farle per essere inteso più facile, riservando la dottrina loro.
P. Incominciamo un poco, quella cinta o corona ch'è nel più elevato luogo: che cosa è?
G. L'Eccellenza Vostra l'ha chiamata per nome; quella è quella corona, che i Teologi tengono il primo delle potenze, attribuito a Dio, che è quel fonte senza fondo, abbondantissimo di tutti i secoli; però l'ho fatta grande ed abbondante e ricca di pietre e di perle.
P. Sta benissimo. Quello scultore che fa quelle statue e quelle città, paesi, e cose simili, che cosa è?
G. È il figliuolo di Dio, cioè la possibilità di creare tutte le cose, che è la Sapienza, ed è in aria il medesimo volando, che è figurato per la provvidenza che ha Dio nell'infondere lo spirito a tutte le cose create, e però soffia in quelle statue che Vostra Eccellenza vede, e quelle del color della terra pigliano quello di carne, che rizzandosi mostrano da esso avere la vita.
P. Seguitate.
G. La Clemenza, che è la quarta: questo è attribuito a esso Dio per la sua bontà e clemenza, come dissi prima; la quale apparisce maggiore, quanto più si estende in nutrir tutte le cose create, e però l'ho figurata ignuda, e più bella che ho possuto, spremendo a se stessa le poppe, e schizzando latte per nutrimento di tutte le cose animate.
P. Oh quanto mi piace questa storia! Dite su.
G. Persuadendomi che la quinta sia la Grazia del grande Dio, la quale egli infonde in tutte le cose, e però ho fatto quella donna che ha quel vaso grande che lo rovescia in giù, pieno di gioie, danari, vasi d'oro e d'argento, collane e mitrie da papi, corone da imperadori e re, da principi, da duchi, cappelli da cardinali, mitrie vescovili, potestà di capitani generali, e scettri e altre dignità.
P. Ditemi, mi par di vedere il Tosone dell'imperatore; e quei fiori che significano?
G. Per le virtù, le quali sempre adorarno e sempre parson belle. Il Tosone di Carlo Quinto: questo s'è fatto, perché oltre a tante dignità che da questa grazia di Dio son venute in casa Medici, che l'hanno illustrata, per li generalati delli eserciti, per le corone ducali, per cappelli di cardinali e per le corone reali ed i regni pontificali, mostra che anche il duca nostro Sua Maestà l'ha ornato meritamente di questo segno, per la sua fedeltà d'animo e di forze grandi. Vede Vostra Eccellenza quella femmina che si leva dalla faccia quel velo e che è ornata più di tutte ed ha intorno al capo tanti razzi solari?
P. Veggo.
G. Quella è l'ornamento del Cielo.
P. E quella femmina che vola in aria mezzo ignuda, che ha in mano quelle corone di lauro e quelle palme, per chi l'avete fatta?
G. Per la settima potenza attribuita a Dio che è il Trionfo; ché arei potuto fare carri trionfali, ma il poco spazio non me l'ha concesso, e però ho fatto questa figura sola. Seguita l'ottava, che è la Confessione della lode, che sono quelle figure ginocchioni che alzano le mani verso la corona, e mostrano con fede confessare reverentemente la lode sua.
P. Certamente che questo è uno intessuto molto bello e molto bene immaginato.
G. Quella pietra lunga, su la quale posano tutte le figure già dette, è finta per il Firmamento, che più apertamente non l'arei saputo figurare, che è la nona potenza del cielo.
P. Sta bene; ma ditemi un poco che significa quello appamondo così grande nel mezzo della storia, con le sfere del cielo e col zodiaco con i dodici segni in mezzo, posato anch'egli in su la pietra o firmamento ch'io ve l'abbia sentito chiamare, e che ha sopra quel scetro?
G. Quello è fatto per il Regno, che è la decima e ultima potenza, e lo scetro è l'imperio del comandar a tutti i viventi: e questo è quanto alla storia del quadro di mezzo.
P. Questa invenzione mi piace certamente; ma ditemi, io veggo drento a quella sfera grande la palla che è messa per la Terra, e Saturno, che con quella mano che abbassa e che tiene la falce, tocca nel zodiaco il segno del Capricorno: che significa?
G. Quello, come sa Vostra Eccellenza, è un corpo cosmo, che così è nominato dalli astrologi il mondo, che è dritto il nome del duca nostro signore, che è fatto patrone di questo Stato; e Saturno, suo pianeta, tocca il Capricorno ascendente suo, e mediante i loro aspetti fanno luce benigna alla palla della terra, e particolarmente alla Toscana, e, come capo della Toscana, a Firenze, oggi per Sua Eccellenza con tanta iustizia e governo retta.
P. Voi mi fate oggi, Giorgio, udir cose, che non pensai mai che sotto questi colori e con queste figure fussino questi significati, e mi è acceso il desiderio di saperne di tutto il fine: or seguitate addunque.
G. Dico, che da quello scultore che fa le statue, che dissi essere la Provvidenza, e l'altro in aria che spira loro il fiato, per la Sapienza, facendo l'anime generalmente per tutti gli uomini, io ho voluto significare, che le fanno particolarmente per li principi grandi, i quali come sostituiti di Dio sono al governo di tutte queste parti del mondo, ed a ciò concorrono tutte le grazie celesti e terrestri, a cagione che con quelle possino esaltare e premiare le virtù, così ai vizj degli uomini tristi dar le punizioni: e perché veggendo il duca nostro sì mirabili effetti, possa da Dio ricognoscere ogni cosa, quando guarda queste figure.
P. Sta bene.
G. Seguitano poi gli occhi del Cielo, che sono questi due quadri grandi, l'uno è il carro del Sole, l'altro quel della Luna.
P. Sta bene, ma io non intendo in questo del Sole oltre ai quattro cavalli alati, quello che significano quelle tre femmine che gli vanno innanzi, alate d'ale di farfalle.
G. Quelle sono le Ore, le quali son quelle che la mattina mettono le briglie ai cavalli, e li fanno la strada innanzi, e si fanno loro quelle ali per la leggerezza, non avendo noi cosa qua, che fugga più dinanzi a noi che l'ore.
P. Piacemi, ma dite, l'ore non son dodici il giorno, ed altrettante la notte? Molto ne avete fatte così tre?
G. Perché una parte sono innanzi, e l'altre gli vengon drieto, ché questa licenza l'usano i pittori, quando non hanno più luogo.
P. Voi m'avete chiarito.
G. Signor mio, non vi paia strano che innanzi che partiamo di queste stanze, ve le mosterrò tutte in un altro luogo. Il carro d'oro pien di gioie mostra lo splendore solare, e Febo, che sferza i quattro cavalli.
P. Ditemi ora, in questo quadro della Luna, molto ci avete fatto il carro d'argento?
G. L'ho fatto, perché il corpo della luna è bianchissimo, li poeti lo figurano così, e questo è tirato da due cavalli, l'uno di color bianco per il giorno, e l'altro nero per la notte, camminando la luna e di giorno e di notte, come La sa; e quell'aria, carica di freddo, mostra che dove la passa fa la rugiada; e però ho dipinto quella femmina che le va innanzi, che è la Rugiada partorita dalla Luna, e se li fa tener il corpo della luna in mano, mostrando quella parte di grandezza in che era quando nacque Sua Eccellenza, e con l'altra tiene il freno de' suoi cavalli, guidandoli per il corso pari e leggieri; quel giovane bello, che dorme in terra, è Endimione amante della Luna.
P. Tutto mi contenta, ma mi pare pure aver visto tirare il carro della Luna da non so che animali.
G. Signore, egli si è usato più volte farlo tirare da dua cani, per esser Proserpina stata chiamata Luna e moglie di Plutone; altri dalle femmine, per occulta e natural conformità, che hanno le donne nello scemare e crescere della luna. Ho poi fatto che il carro lo tiri i cavalli, perché come pittore mi è venuto meglio a fare i cavalli, per accompagnare quell'altro quadro, dove è il carro del Sole.
P. Tutto mi contenta, ma passiamo a questi dua quadri lunghi, che hanno le figure sì grandi: che cosa è questo maschio, che si svolge da quel lenzuolo, e che ha la palla del mondo vicina e quello oriuolo da polvere?
G. Signor mio, quello è il Giorno, che dal carro del Sole è fatto luminoso, e si sveghia, e sviluppa dal sonno della Notte, la quale si vede qua in quest'altro quadro dirimpetto, che par che dorma con gran quiete, ché di questa ha cura il carro della Luna.
P. Oh come risponde bene ogni cosa! Che maschere son quelle, e che lucerna? Ci è fino al barbagianni, e pipistrelli, oriuoli; certo voi non avete lassato indietro cosa notturna; e sono questo Giorno e questa Notte due belle figure.
G. Tutto ho caro satisfaccia a Vostra Eccellenza; ved'Ella questi quattro ottanguli con queste quattro figure ne' cantoni del palco?
P. Veggo.
G. Queste l'ho fatte, perché il padre Cielo, ottima provvidenza del grande Dio, stante le cose ordinate con quelle potenze che gli sono intorno, che ne risulta, per l'effetto di noi mortali, quattro gran cose, e particolarmente nel duca nostro, che l'una è la Verità, per la cognizione della quale il principe intende e vede e conosce ogni sua chiarezza.
P. È forse questa, che è qua in iscorto, che vola di cielo in terra ignuda e pura?
G. È dessa; e questa che è qua in quest'altro ottangulo dirimpetto a lei, è la Iustizia, che reprime i tristi e premi ai buoni.
P. Sta bene; ma ditemi, perché ha ella armato il capo e non il petto, ed ha quello scudo di Medusa in braccio? E quello scettro egizio in mano che cosa è, che non ho visto mai figura tale?
G. Questa, Signor Principe, per quello che si vede, è che Sua Eccellenza ha sempre armato la testa con quell'elmo, che è d'oro e di ferro; il ferro arrugginisce e l'oro no; il che denota esser necessario che il giusto giudice abbi il cervello non infetto, così il petto disarmato e nudo, cioè netto di passione.
P. Mi piace; ditemi, quelle tre penne, che sono in sul cimiere, una bianca, una rossa e l'altra verde, che significato hanno?
G. Il significato loro è, che la bianca è posta per la Fede, la rossa per la Carità, e la verde per la Speranza, che deve nascere nella mente del giusto giudice, che furono imprese de' vostri vecchi di casa Medici, dove ell'è sempre fiorita, facendo le penne di quest'impresa dentro al diamante, che Lorenzo Vecchio le legò con quel breve scrivendovi dentro SEMPER, denotando che questa virtù piacque loro d'ogni tempo. Il diamante, che fu impresa di Cosimo, col falcone, l'ho sentito interpretare Dio amando, che chi fa giustizia, ama Dio; e, per venire a fine, ella tiene in braccio lo scudo di Medusa, perché fa diventar sassi ed immobili tutti i rei che guardano in quello. E quello scettro, che l'Eccellenza Vostra diceva poco innanzi egizio, che ha in fondo di quello quell'animale, che pare un botolo, ed è l'ipopotamo, animale del Nilo impietosissimo che ammazza il padre e la madre. A sommo dello scettro è una palla rossa per l'arme di casa, e vi è su la cicogna, animale pietosissimo, il quale rifà il nido al padre ed alla madre, e l'imbecca fino a che son morti; e questa è fatta per la Pietà: la Iustizia tiene e governa con questo scettro il mondo.
P. Oh questa è la bella invenzione di Iustizia, piacevole, nuova, e varia! E mi pare che chi l'amministra, sia tenuto a fare che non gli manchi tutte queste parti; ma ditemi, che figura è questa, che vola di cielo in terra, con quello scòrto terribile, portandoci quelle corone di mirto, di quercia, e di lauro, e con quella rama d'oliva in mano?
G. È la Pace, che fa godere i premi dopo le vittorie acquistate, così col vincere altri, come nel vincere se stesso.
P. E quest'ultima qua col caduceo in mano di Mercurio, e con l'ale agli omeri, che cosa è?
G. Signore, questa è la virtù Mercuriale, la quale tutti i principi debbono conoscerla, intenderla ed amarla e dilettarsene e favorire tutte le arti ed i belli ingegni, come fa il nostro duca, che ciò facendo, tutti i populi che l'esercitano, fanno due effetti mirabili in loro, l'uno che la poltroneria non ha luogo ne' lor dominii ed il mondo diventa buono e ricco per tanti buoni effetti ed arti ingegnose, quanto si vede, che certamente il duca nostro di mano e d'ingegno se ne diletta e intende tanto, che posso con verità dire e senza adulazione, che se non Le fussi come Le sono servitore, direi, che la minor virtù che gli abbia, sia l'esser duca.
P. Tutto vi credo; ma ditemi un poco, queste ale, che ha in sulle spalle questa figura sì grande, perché le fate voi?
G. Per quelle della Fama, aggiunte a essa Virtù, per portare il nome dove non possono andare i piedi umani. Sicché, Signor mio, [ho fatto] questo componimento del padre Cielo, ed elemento dell'aria, con questi scorti delle figure al disotto in su, parte per mostrar l'arte e parte per mostrare che coloro, che alzano la testa in su in questo palco, contemplino oltre alle figure il grande Dio; e questo è stato il mio pensiero, ed anche per arrecare al duca nostro a memoria l'obligo che gli ha seco.
P. Voi l'avete ancor voi; e certamente ch'io non saprei dirmi quello ch'io ci avessi voluto; ma guardate la invenzione delle travi, che belle imprese ci avete fatte! Queste teste di capricorno, tante che ci sono, le conosco che sono imprese del duca mio padre, così quella testuggine con quella vela e le due ancore insieme con quel motto, che dice DVABUS; ma io vi dico bene una cosa, che questi festoni di frutte, che circondano queste travi, e così quelli di fiori, mi piacciono maravigliosamente, né ho mai veduto meglio, né i più vivi e naturali; certo mi fanno venir voglia di spiccarle con mano, tanto son vive.
G. Queste furon fatte da Doceno nostro dal Borgo, il quale per questa professione fu tanto eccellente, che merita, morto, che il mondo lo tenga vivo, come tiene in memoria chi lo conobbe, che troppo presto a quest'opera lo tolse la morte.
P. Dio gli perdoni, che certo n'è stato danno; or veniamo a questa facciata, dove è questa Venere con tante figure; non so s'io mi ho visto la più vaga storia, né la meglio spartita di questa: che cosa è ella?
G. Dirollo a Vostra Eccellenza; doppo lo avere trattato dello elemento dell'Aria, viene ora questo dell'Acqua; e, per seguir la storia dico che, cascando i genitali del padre Cielo in mare, ne nasce, per il suffragamento, agitamento della calidità loro ed umidità del mare, quella Venere, la qual'è, come l'Eccellenza Vostra vede, in su quella conca marina tenendo con tutt'a dua le mani quel velo, che gonfiato dal vento gli fa cerchio sopra la testa; attorno gli sta la pompa del mare, con tutti questi Dei e Dee marine, che la presentano: e quell'altra femmina, che surge su del mare con quelli dua cavalli e ‘l carro di rose, è l'Aurora.
P. Mi piace; ma ditemi, chi è quel vecchio che guida imbrigliati quelli dua cavalli marini col carro, ed ha la barba umida, tutto ignudo, e tiene il tridente in mano, sì stupefatto?
G. Quello è Nettuno, dio del mare, il quale sta ammirato ed immoto a veder surgere dell'onde quella Dea tanto bella; l'altra dirimpetto a Nettuno, dico quella femmina ignuda ritta, che regge que' mostri marini col freno, guidata da loro, è la gran Teti ammiratissima del nascere di Venere, ed è coperta con quel lembo ceruleo perché è madre del grand'Oceano. Quelli con le cimbe marittime, che suonano ed hanno il capo coperto d'erba, sono i tritoni; e quello, che gli presenta quella nicchia piena di perle e di coralli, è Proteo pastore del mare, parte cavallo e parte pesce. Glauco vedete che gli presenta un dalfino; così Palemone con gli occhi azzurri, dio marino, gli presenta coralli ed un gambero.
P. Ditemi chi è quella che volta a noi le spalle, ed è a cavallo in su quello ippocampo con quella acconciatura di perle e di coralli, che presenta quella nicchia piena di cose marine?
G. È Galatea ed il Pistro, vergine bellissima, gli è vicina, dal mezzo in giù mostro; e quella, che ella abbraccia, è Leucotea bianchissima ninfa; quelle che presentano porpore, e quelle chiocciole di madreperle, sono le Anfitritidi, e le Nereidi son quelle più lontane, che notando vengono a vedere tutti gli Dei e Dee marine presentare alla maggior Dea tutte le ricchezze del mare e contemplare nell'uscir fuori dell'onde, le bellezze di Venere.
P. Certamente credo che non si possa veder pittura più allegra e più vaga di questa nuova invenzione; che nave è quella che passa di lontano e par che guardi?
G. È la nave d'Argo, ed in sul lito sono le tre Grazie, che aspettano Venere, tutte tre coronate di rose vermiglie e incarnate, e bianche; l'una ha il plettro, l'altra la vesta purpurea, e la terza lo specchio: là nel mare lontano si vede il carro di Venere preparato da gli Amori, che, tirato da quattro colombe bianche, viene per levar Venere. P. Più si guarda, più cose restano a vedersi; oh come mi piacciano quelli Amorini, che saettano per l'aria questi Dei marini! Ma più mi piace quel bosco di mirto pieno di quelli fanciulli alati, che fanno a gara a côr fiori e far grillande, e le gettano a queste ninfe, e ne fioriscono il mare; ma ditemi, che tempio è quello ch'io veggo nel lontano del paese, e quelle vergini e populo che stanno a vedere, e che aspettano in sulla riva?
G. È il populo di Cipri, che aspetta la Dea alla riva; e quelle vergini son quelle che già solevano stare al lito per guadagnar la dote con la virginità loro; ed il tempio è quello di Pafo, ricchissimo e bellissimo, dedicato alla dea Venere.
P. In vero mi soddisfò interamente; resta solo che mi diciate, che figura grande è questa qua innanzi alla storia, tutta rabbaruffata, che non cava fuor dell'onde altro che la testa bagnata, piena d'alga marina e di muschio, siti d'erbe, con quel braccio disteso?
G. Signor mio, quello è lo Spavento del mare, il quale, corso al romore, ed in segno di quiete, cavando fuori un braccio comanda a' salsi orgogli che stieno tranquilli, mentre che questa nasce. S'è fatto sopra quelle due porte nelli ovati uno Adone cacciatore innamorato di Venere, la quale co' suoi Amori lo contempla ed ammaestra che vada in cacce d'animali. In quell'altro sono le matrone, che alla statua della dea Venere porgono voti e consagrano e offeriscono doni per le cagioni d'Amore. Tutto questo intessuto dell'elemento dell'Acqua, Signor Principe mio, è accaduto al duca signore nostro, il quale venuto in aspettamento dal cielo in questo mare del governo delle torbide onde, e fatte tranquille e quiete, per la difficultà di fermare gli animi di questi populi tanto volubili e vari per i venti delle passioni degli animi loro, i quali sono dalli interessi propri oppressi; che gli lascio, e più non ne ragiono, prima, perché non è mia professione, poi perché chi volesse per allegoria simigliare ogni cosa a Sua Eccellenza, saria un peso dalle spalle d'altra maggior figura di corpo che non è il mio; ma io non dico già che molte cose che io mi sono immaginate come pittore, io non le abbia applicate alle qualità e virtù sue, perché la intenzione mia pura è di non parere che di lontano io voglia tirare a' sensi suoi questa materia, massimamente ch'io conosco che le cose sforzate non gli piacciono, sapendo noi quanto le sue sieno vere e chiare; mi basta solamente mostrare a chi intende, parte della invenzion mia, e dove io ho gettato l'occhio, perché non cerco in queste storie di sopra volere accomodare tutti i sensi propri a queste, se di sotto ho fatto le sue come le stanno; e per Adone cacciatore, e Venere, che si godono e contemplono, è fatto per le volontà e amori di loro Eccellenze illustrissime; che mai è stato signore che abbia amato più la consorte sua, che questo, che ne abbia cacciato via le fiere umane piene di vizi, che questo principe; e molte altre etimologie ci sono, che per brevità si lassono.
P. Voi mi fate avere oggi un piacer grande, che mi par sentire e vedere queste cose sì simili e sì vere, che le tocco con mano; a chi volessi considerare ogni minuzia, ci bisogneria molto tempo; ma per ora seguitate (se non v'è a noia) a quest'altra facciata, dove è il cammino, che certo è molto bello; oh che mistio ben lustrato! Ogni cosa corrisponde; ditemi che storia è questa?
G. Questa è figurata per lo elemento del Fuoco; e per istare nella metafora, qui è anche Venere a sedere con quel fascio di strali, parte di piombo, e parte d'oro, come gli figurano i poeti; quel vecchio zoppo, che martella le saette in su l'ancudine, è Vulcano marito di Venere, e Cupido sta attorno tenendo in mano le saette per farle appuntate, ed intorno alla fucina sono quelli amori, che fanno roventi i ferri, altri le tempera, altri le aguzza, altri fanno le aste e le impennano, e altri amori, girando la ruota, le arruotano e fanno più belle.
P. Oh che pensieri, oh che immaginazioni! Le fanno venir voglia d'innamorarsi: deh, ditemi, chi sono quelli tre, che così spaventosi con i martelli fabricano a quella fucina?
G. Quelli sono i Ciclopi, che alla fucina infernale fabricano i fulmini a Giove, che uno è nominato Sterope, unoBronte, e l'altro Piragmone; e, poi che sono finiti, gli porgono a quelli altri amori alati che sono in aere, che volando gli portano in cielo a Giove. Sopra queste due altre porte in quelli ovati che corrispondono agli altri, in uno è il padre Dedalo, che fabrica lo scudo d'Achille, l'elmo e l'altre armadure; nell'altro è Vulcano, che con la rete cuopre Marte e Venere sua moglie, abbracciati insieme, e tutti gli Dei in testimonio; per Vulcano si può applicare che così come nelle fucine e fabbriche si fanno le saette d'Amore, e fulmini per Giove, così il duca, nostro signore, messo dal padre Cielo a far con Venere le saette d'Amore; che intesi quando io la feci, che anche nella fucina del petto del duca si fabricano gli strali del benificar le virtù, che lo fanno innamorare, ed altri innamorare delle virtù di lui, i fulmini de' Ciclopi per punire i tristi, come fa oggi Sua Eccellenza, nel petto del quale con giudizio punisce i rei e va premiando i buoni: uffizio veramente di gran principe. Il fabricar lo scudo e l'arme d'Achille mostra quanto a Sua Eccellenza piaccino l'arti eccellenti, nel fare ogni giorno a diversi artefici mettere in operazione macchine ed edifizi ingegnosi: e tenendo vivi con questi esercizi gli uomini eccellenti, viene a mantenere co' premj le buone arti ed i belli ingegni, onorando la gloria sua e di questo secolo.
P. I significati son begli; ci resta Vulcano, che piglia Venere e Marte alla rete fabricata da Dedalo.
G. Questa è fatta per tutti coloro che troppo si assicurano al mal fare e con agguati vivono di rapine e di furto, che, inaspettatamente dando nella rete di questo principe, restano presi nel laccio.
P. Questa è così propria, quanto nessuna che fino ad ora n'abbia sentita; ma oramai è tempo che ci rivoltiamo al quarto elemento, che avete dipinto in questa storia di qua.
G. Questo è quello della Terra, madre nostra, utile e benigna e grande, la quale per l'abbondanza sua figurano gli antichi la Sicilia; nella quale isola, dopo la castrazione di Cielo, cascò la falce di mano al vecchio Saturno in su la città, dove oggi è Trapani, e vogliano che detta isola pigliassi allora la forma d'essa falce di Saturno, come quella vedete che ho dipinta qual casca su dal cielo.
P. Mi piace, e scorgo nel paese il monte d'Etna, Lipari, Vulcano in mare, che ardono: ma questa femmina maggiore, qua innanzi, con quella mina, o misura grande piena di grano da misurar biade, e quelle spighe nella destra, e nella sinistra mano il corno d'Amaltea, coronata di biade, che cose volete che sieno?
G. Questa, Signor mio, è fatta per la madre Terra, abbondante e veramente regina di questo paese, la quale ci ha insegnato in questo luogo a cultivare se medesima, così come Saturno, il quale vedete nel mezzo della storia ignudo a sedere, quale ha d'intorno uomini e donne d'ogni sorte, che gli presentano tutte le primizie della terra, così di fiori, frutti, oli, meli e latte, quali, secondo le stagioni loro, ricolgono dalla terra, e così i villani gli danno [in] offerta gl'istrumenti, co' quali si lavorano i campi.
P. Mi pare che gli raccoglia molto benignamente; ma che serpe gli mostra loro con la sinistra, che con la bocca si morde la coda facendo di sé un cerchio tondo?
G. Questo è uno ieroglifo egizio preso dal Serpentario figliuolo di Saturno, che con il far cerchio, mostra esser la ritondità del cielo, e camminando dal principio suo viene a congiugnersi con la coda, che è la fine e principio dell'anno, riducendogli a memoria che sieno solleciti d'ogni tempo a lavorare la terra, perché la sollecitudine fu sempre madre della dovizia.
P. Tutto mi piace, ed adesso riconosco nel paese coloro che arano e zappano, chi fa legne, chi guarda gli armenti, chi mura, chi coltiva e chi pesca, e chi va al mulino a macinare il grano, che fanno molto bene. Ma io non intendo già quel che si rappresentino quelli Protei marini, pastori del mare, quali hanno rapito quelle donne, e che, notando con velocità nel mare, vengono a presentarle a Saturno.
G. Sono Protei, come Vostra Eccellenza dice, e gli tritoni, che hanno rapito le ninfe de' boschi, e per fare grassa la terra le vengono a presentare a Saturno. Questa femmina grande, che surge del mare ignuda fino a' fianchi con quel crino di capelli che gli vola davanti la faccia, e tiene con la sinistra quella gran vela, e con l'altra quella testuggine smisurata di mare, sapete che cosa ella è?
P. Io non la conosco, ma ditemelo.
G. È la fortuna di Sua Eccellenza, quale, per obbedire a Saturno, pianeta suo, gli presenta la vela e la testuggine, impresa di Sua Eccellenza, dimostrando che con la natura e tardità del cammino di questo animale, e la velocità che fa andare i legni nelle acque, la vela, nel mare delle difficultà, e l'essere Sua Eccellenza temperato sempre riuscire con buona fortuna in tutte le imprese del suo governo. E il porgerle a Saturno, cioè al padre del tempo, che seguendo questa temperanza sarà sempre buono il principio, il mezzo e il fine dell'anno: e i popoli così come a Saturno presentano le primizie della terra, verranno tutti i sudditi suoi, col cuore e con l'opere, d'ogni tempo a darli tributo dell'anime e delle sustanze loro ancora nelli suoi bisogni, e lui d'ogni stagione terrà abbondante il paese suo, e, mancandone, faranne venire i pastori del mare e i tritoni, a portar di peso le ninfe de' boschi, cioè con le commissioni delle voci, con le navi e galee cariche, levando da' luoghi abbondanti le mercanzie d'ogni sorte, e le biade, per tenere tutto il suo stato di Fiorenza e di Siena abbondantissimi, come anco mostrai qui sotto Saturno il capricorno, segno ed ascendente suo, con la benignità delle stelle, quali sono tanto fortunate in Sua Eccellenza, tenendo sotto una palla rossa dell'arme di casa vostra, che si fa per mostrare il corpo del mondo, che è la palla, tenuto, e retto, e governato da quelle sette stelle, le quali a suo luogo dichiareremo.
P. Ditemi il significato di questi dua ovati, sopra le due porte, che accompagnano gli altri.
G. Uno è Trittolemo, primo inventore di arare i campi, il quale, come Quella vede, ara; nell'altro è il sacrifizio della Dea Cibele, cioè Terra; vedetela, che l'è con quelle tante poppe per nutrire tutte le creature animate.
P. Ditemi il loro significato.
G. Per Trittolemo sono le fatiche degli uomini, seminando le ricolte, dinotano che di buon seme dell'opere virtuose, che nella terra semina, Sua Eccellenza ne ricoglie il frutto di quella fama severa e giustissima che ha Quella; oltre che con l'aratro del buon governo taglia e diradica tutte le piante maligne; di Cibele sono le provvisioni ed i donativi che Sua Eccellenza fa a tutti li suoi servidori, che egli ha e quanti per il suo dominio egli nutrisce e pasce giornalmente.
P. Io confesso che il venire qua asciuttamente, e non sapere altro che guardare le figure e le storie, ancora che dilettino, mi piacevano; ma ora, ch'io so il suo significato, mi satisfanno più infinitamente.
G. Ora voltiamoci a questa faccia, dove sono le finestre, e vedrò d'esser breve e fare fine a questa sala; dico così, che, poiché aviamo seguitato l'ordine de' quattro elementi, e fatto menzione delli sette pianeti, come nel cielo lassù il carro del Sole, e della Luna; di Giove nel padre Cielo, di Venere nello elemento dell'Acqua, di Saturno in quello della Terra, di Marte nell'esser preso da Vulcano sotto la rete, ci resta ora da ragionare di Mercurio.
P. Io lo veggio qui fra queste due finestre col caduceo in mano, e col cappello alato ed i piedi.
G. Questo, Signore, ci mancava, perché essendo egli sopra la eloquenza, ed in tutto messaggiere delli Dei celesti, non meno lo esercita il nostro duca, il quale è mercurialissimo, sì per propria virtù nel negoziare con gli uomini eloquenti, e quanto egli come Mercurio sappia tanto di quella professione nel conoscere le miniere e sofistici, e quanto egli si diletti sapere e far fare esperimenti agli ingegni sottili, e quanti uomini abbi intrattenuti; che non mi pareva che senza Mercurio si fosse potuto finire questa opera.
P. Gli è vero. Ma perché ci fate voi di qua Plutone, col cane Cerbero, il quale posa le braccia in sul bidente?
G. Le miniere, so che Quella sa che sono sotto la terra, delle quali Plutone è principe, e così le ricchezze ed i tesori, i quali i mercuriali non possono far senza esse, come sarebbe intervenuto a me, che se bene io sapeva fare queste stanze, e ancora delle più belle, non si potevano fare senza i danari, e le comodità, e le ricchezze del duca Cosimo principe di quelle, che per questa commodità godiamo oggi per questo caldo, questo piacevole ragionamento.
P. Tutto mi piace; ma io lassavo indreto queste finestre di vetro, le quali mi piacciono tanto, ed è un lavoro molto diligente e ben fatto, e credo pure che queste invenzioni di figure debbano denotare qualche cosa; se le sono niente, arè caro saperlo.
G. La invenzione è che queste sono imprese; in questa prima è posta la Invidia, la quale nutricandosi del Veleno con quella vipera, e per sua maligna natura odiando le palle, perché non si alzino, con rabbia le percuote in terra, e quelle, percosse, di sua natura balzano in alto; sono nell'arme di Vostra Eccellenza sei palle, che una ne ha sotto i piedi, ed una ne ha in mano e la getta in terra per conculcarla, n'è balzate quattro in aria per li quattro duchi di casa vostra, che ha la corona ducale, sopra l'altra per li tre cardinali con il cappello; sopra l'altra con la corona reale per la regina di Francia, e l'altra con il regno pontificale per li duoi regni papali con questo motto: PERCUSSA RESILIVNT.
P. Bella invenzione; intesi già dire essere stata invenzione di papa Leone X una simil cosa.
G. Io credo, che nel suo tempo furono tanti rari ingegni, che può esser facilmente, che oramai non credo si taccia più cosa che da altri non sia stata o immaginata o fatta. In quest'altra è Astrea, che con le bilance pari in mano aggiusta, col peso d'una palla rossa dell'arme di Vostra Eccellenza, tutti i peccati de' malfattori, in suppliche, lacci, reti, ed altre insidie de' tristi uomini, la quale, pesando la palla, lieva in alto quelle cose come vane e leggieri, e non a peso, e con la spada vendica e pareggia il male, con questo motto: AEQVO LEVIORES.
P. Ora contatemi quest'altra.
G. Questa è l'Unione e Concordia, dopo tanti travagli e guerre nella Toscana, le quali tolto il ramo dell'oliva di mano alla Pace, e con una catena d'oro ha legato duoi animali contrari di natura e di forze; questi sono la lupa uno ed il lione l'altro, i quali mangiando insieme un quarto di carne in compagnia, mostrano esser uniti.
P. Per quello sono e' figurati?
G. L'uno è per Fiorenza, e l'altra per Siena, che sotto il valore di questo sapientissimo principe vivono con tutta quiete. Miracolo grandissimo di Dio in vedere ciò in sì breve spazio di tempo, che lui solo abbia vinto quello che in centinaia d'anni non fu possibile mai alla repubblica fiorentina, che ancora che vediamo essere il vero, appena lo crediamo; ed il suo motto è questo: PASCENTUR SIMVL.
P. Io, Giorgio mio amatissimo, mi chiamo da voi soddisfatto, e talmente, che, poiché avete cominciato di dichiararmi i significati di queste storie con tanto mio piacere, arò caro, se non siete stracco, di ragionare con voi, e che passiamo a queste altre stanze, che questo è oggi per me un passatempo bello, utile e dilettevole. G. Poiché così vi piace, passiamo, che avendo preso fatica a studiarle e dipignerle, che è stata la maggiore, posso ora con molta sodisfazione di Quella e mia contarvi ogni cosa. Entri Vostra Eccellenza in questa stanza.
P. Ecco ch'io entro.