GIOVANNI CIMABUE
Erano per l'infinito diluvio dei mali che avevano cacciato al disotto et affogata la misera Italia non solamente rovinate quelle che chiamar si potevano fabriche, ma - quel che importava assai più - spentone affatto tutto ‘l numero degli artefici, quando, come Dio volse, nacque nella città di Fiorenza l'anno MCCXL, per dare i primi lumi all'arte della pittura, Giovanni cognominato Cimabue, della famiglia de' Cimabuoi in quel tempo nobile, il quale crescendo, fu conosciuto non solamente dal padre ma da infiniti lo acume dello ingegno suo. Dicesi che, consigliato da molti, il padre deliberò farlo esercitare nelle lettere e lo mandò a Santa Maria Novella a un maestro suo parente, il quale allora insegnava la gramatica ai novizii di quel convento. Per il che Cimabue, che si sentiva non avere l'animo aplicato a ciò, in cambio dello studio tutto il giorno andava dipignendo in sui libri o altri fogli, uomini, cavalli, casamenti e diverse fantasie, spinto dalla natura ch'e' le pareva ricever danno a non essere esercitata. Avvenne che in que' giorni erano venuti di Grecia certi pittori in Fiorenza, chiamati da chi governava quella città non per altro che per introdurvi l'arte della pittura, la quale in Toscana era stata smarrita molto tempo. Laonde, avendo questi maestri prese molte opere per quella città, cominciorono in fra l'altre la capella de' Gondi allato a la principale in Santa Maria Novella, della quale oggi dal tempo la volta e le facciate son molto spente e consumate. Per il che Cimabue, cominciato a dar principio a questa arte che gli piaceva, si fuggiva spesso da la scuola e tutto il giorno stava a vedere lavorare que' maestri; per il che fu giudicato dal padre e da que' Greci che, se egli attendessi alla pittura, senza alcun dubbio egli verrebbe perfetto in quella professione. Fu aconcio con non sua piccola satisfazione alla arte della pittura con que' maestri, e di continuo esercitandosi in poco tempo la natura lo aiutò talmente ch'e' passò di gran lunga di disegno e di colorito e' maestri che gl'insegnavano; nel che, inanimito per le lode che egli si sentiva dare, messosi a maggior studio, avanzò la maniera ordinaria che egli aveva visto in coloro, i quali, non si curando passar più innanzi, avevon fatto quelle opere nel modo che elle si veggono oggi. Et ancora che egli imitassi i Greci, lavorò assai opere nella patria sua, onorando quella con le fatiche che vi fece, et acquistò a se stesso nome et utile certo grandissimo. Ebbe costui per compagno et amico Gaddo Gaddi, il quale attese alla pittura con Andrea Taffi domestico suo, e levò da la pittura gran parte della maniera greca nelle figure dipinte da lui; come ne fanno fede in Fiorenza le prime opere che egli lavorò, come il dossale dello altare di Santa Cecilia, et in Santa Croce una tavola dentrovi una Nostra Donna, che gli fu fatta dipignere da un guardiano di quel convento amicissimo suo, la quale fu appoggiata in un pilastro a man destra intorno al coro. La quale opera fu cagione che, avendolo servito benissimo, e' lo condusse in Pisa in San Francesco lor convento e quivi fece un San Francesco scalzo, il quale fu tenuto da que' popoli cosa rarissima, conoscendosi nella maniera sua un certo che di nuovo e di miglior[e], per l'aria delle teste e per le pieghe de' panni, che [più] non avevon fatto qui infino allora que' maestri greci nelle lor pitture, sparse già per tutta Italia. Così, dunque, prese pratica con questi frati i quali lo condussono in Ascesi, dove nella chiesa di San Francesco lasciò una opera da lui cominciata e da altri pittori dopo la morte sua finita benissimo. Costui lavorò nel castello di Empoli nella Pieve et in Santo Spirito di Fiorenza nel chiostro, dove è dipinta alla greca da altri maestri tutta la banda di verso la chiesa et ove sono medesimamente lavorati di sua mano tre archetti fra quegli, dentrovi storie della vita di Cristo. Fece poi nella chiesa di Santa Maria Novella una tavola dentrovi una Nostra Donna, la quale è posta in alto fra la cappella de' Rucellai e de' Bardi da Vernia, con alcuni Angeli intorno ad essa, nei quali, ancora che egli avesse la vecchia maniera greca, tuttavolta si vede che e' tenne il modo e il lineamento della moderna. Fu quest'opera di tanta maraviglia ne' populi di quel tempo, per non essersi veduto infino allora meglio, che di casa sua con le trombe perfino in chiesa fu portata con solennissima processione, et egli premio straordinario ne ricevette. E dicesi che mentre Cimabue ditta tavola dipigneva in certi orti vicin a Porta S. Piero, non per altro che per avervi buon lume e buon aere e per fuggire la frequenzia degli uomini, passò per la città di Fiorenza il re Carlo Vecchio di Angiò figliolo di Lodovico, il quale andava al possesso della Sicilia chiamatovi da Urbano pontefice, nimico capital di Manfredi; e che fra le molte accoglienze fattegli dagli uomini di quella città, e' lo condussero a vedere la tavola di Cimabue, la quale, perciò ch'ancora non era stata veduta da alcuno, mostrandosi al re, sùbito vi concorsero tutti gli uomini e tutte le donne di Fiorenza con grandissima festa e con la maggior calca del mondo. Laonde per l'allegrezza che n'ebbero, i vicini chiamarono quel luogo Borgo Allegri, il quale, col tempo messo fra le mura della città, sempr'ha tenuto quel nome. Or aveva la natura dotato Cimabue di bello e dèstro ingegno, di maniera che fu messo per architetto, in compagnia di Arnolfo tedesco allora nell'architettura eccellente, della fabrica di Santa Maria del Fiore in Fiorenza. E tanto sotto di lui migliorò la pittura, che nel suo tempo eccellente e mirabile fu chiamata quell'arte, la quale infino a quell'età era stata sepolta. Visse Cimabue anni sessanta, e lasciò molti discepoli di quell'arte, e fra gli altri Giotto, di perfettissimo ingegno. Morì nel MCCC et in Santa Maria del Fiore di Fiorenza gli fu dato sepoltura, et uno de' Nini gli fece questo epitafio; CREDIDIT UT CIMABOS PICTURAE CASTRA TENERE. SIC TENUIT VIVENS. NUNC TENET ASTRA POLI. Le case sue erano nella via del Cocomero, nelle quali dopo lui, secondo si dice, abitò Giotto suo discepolo. Dicono che la morte di costui dolse molto ad Arnolfo, il quale con altri inanzi fondò la chiesa di Santa Maria del Fiore di Fiorenza. La quale fu una pianta bellissima di quella maniera e gira in circuito braccia DCCLXXXII e due terzi, e la lunghezza di quella è braccia CCLX, che fu di pietre forti squadrate di dentro tutta lavorata, e di fuori di marmi bianchi e neri e rossi incrostata et adorna; la quale costa insino al presente due millioni d'oro e più di 700000 fiorini, né in cristianità si truova fabrica moderna più ornata di quella, sendovi molte statue e nella facciata e nel campanile fabricate da eccellenti maestri. Arnolfo dunque, rimasto solo, voltò le tre tribune sotto la cupola oltra quel che s'è detto di sopra, a onor e memoria del quale e della edificazione del tempio oggi ancor si veggono fra il campanile e la chiesa, sul canto, gli infrascritti versi di marmo in lettere tonde intagliate: ANNIS MILLENIS CENTUM BIS OCTO NOGENIS VENIT LEGATUS ROMA BONITATE DOTATUS QUI LAPIDEM FIXIT FUNDO SIMUL ET BENEDIXIT. PRESULE FRANCISCO GESTANTE PONTIFICATUM ISTUD AB ARNULFO TEMPLUM FUIT AEDIFICATUM. HOC OPUS INSIGNE DECORANS FLORENTIA DIGNE REGINAE CAELI CONSTRUXIT MENTE FIDELI. QUAM TU VIRGO PIA SEMPER DEFENDE MARIA. Or s'alla gloria di Cimabue non avesse contrastato la grandezza di Giotto suo discepolo, sarebbe la fama sua stata maggiore, come ne fa fede Dante Alighieri nella Comedia sua, alludendo nello XI canto del Purgatorio a la stessa inscrizzione della sepoltura e dicendo: Credette Cimabue nella pittura tener lo campo, et ora ha Giotto il grido, sì che la fama di colui oscura. Cimabue dunque fra tante tenebre fu prima luce della pittura, e non solo nel lineamento delle figure ma nel colorito di quelle ancora, mostrando per la novità di tale esercizio sé chiaro e celebratissimo. Costui destò l'animo ai compatrioti suoi di seguirlo in sì difficile e bella scienza, di che lode infinita merita egli per la impossibilità e per la grossezza del secolo in che nacque, e molto più che s'egli ritrovata l'avesse. E ciò fu cagione che Giotto suo creato, mosso dalla ambizione della fama et aiutato dal cielo e dalla natura, andò tanto alto col pensiero ch'aperse la porta della verità a coloro che ànno ridotto tal mestiero a lo stupore et a la maraviglia che veggiamo nel secol nostro. I[l] qual avezzo ogni dì a vedere le maraviglie e i miracoli e le impossibilità degli artefici in questa arte, è condotto oggimai a tale che di cosa fatta dagli uomini, benché più divina che umana sia, punto non istupisce, e buon per coloro che lodevolmente s'affaticano, se in cambio d'esser lodati et ammirati non ne riportassero biasimo et il più delle volte vergogna.