Biografie di artisti antichi. Lettera di Giovambattista Adriani a Giorgio Vasari

LETTERA DI MESSER GIOVAMBATISTA DI MESSER MARCELLO ADRIANI A MESSER GIORGIO VASARI

Nella quale brevemente si racconta i nomi e l'opere de' più eccellenti artefici antichi in pittura, in bronzo et in marmo, qui aggiunta acciò non ci si desideri cosa alcuna di quelle che appartenghino alla intera notizia e gloria di queste nobilissime arti.

Io sono stato in dubbio, messer Giorgio carissimo, se quello di che Voi et il molto reverendo don Vincenzo Borghini mi avete più volte ricerco si devea metter in opera o no, cioè il raccorre e brevemente raccontare coloro che nella pittura e nella scultura et in arti simiglianti negli antichi tempi furono celebrati - de' quali il numero è grandissimo - e a che tempo essi fecero fiorire l'arti loro, e delle opere di quelli le più onorate e le più famose: cosa che, s'io non m'inganno, ha in sé del piacevole assai, ma che più si converrebbe a coloro i quali in cotali arti fussero esercitati o come pratichi ne potessero più propriamente ragionare. Imperò chè egli è forza che nel dettare una così fatta cosa occorra bene spesso parlare di cosa che altri non sa così a pieno, avendo massimamente ciascuna arte cose e vocaboli speziali, i quali non si sanno e non s'intendano così apunto se non da coloro i quali sono in esse ammaestrati. Né solo questa dubitanza ma molte delle altre mi si facevano incontro, le quali tutte si sforzavano di levarmi da cotale impresa; alle quali ho messo incontro primieramente l'amore che io meritamente Vi porto, il quale mi costringe a far questo et ogni altra cosa che Vi sia in piacere, e dipoi quello di Voi stesso inverso di me, il quale basterebbe solo a vincere questa et ogn'altra difficultà - avisando che, amandomi Voi come Voi fate, non mi areste ricerco di cosa che mi fosse disdicevole -, tale che, confidato nella affezione e giudizio Vostro, mi sono miso a questa opera, la quale non sarà però né molto lunga né molto faticosa, dovendosi per lo più raccontare, e brevemente, cose dette da altri, che altramente non si poteva fare trattandosi di quello che in tutto è fuori della memoria de' vivi e che già tanti secoli sono è trappassato. Duolmi bene che dovendosi ciò, come io mi aviso, aggiugnere al Vostro così bello, così vario, così copioso e d'ogni parte compiuto libro, non sia tale che e' gli possa arrecare alcuna orrevolezza. Ma mi gioverà pure che, postogli a lato, mostrerà meglio la bellezza di lui, perciò che il Vostro è tale che, e per le cose che entro vi si trattono e per la leggiadria con la quale Voi l'avete scritto e per le virtù dell'animo Vostro le quali chiare vi si scorgono, è forza che egli sia sempre pregiato e Vi mostri a tutto il mondo intendente, gentile e cortese: virtù molto rade e che poche volte in un medesimo animo si accolgono e massimamente d'artefice, dove l'invidia più che altrove suole mettere a fondo le sue radici - della quale infermità il Vostro libro Vi mostra interamente sano. Nel quale Voi, non so se intendentemente più overo più cortesemente, avete onorate queste arti infra le manuali nobilissime e piacevolissime et insieme li maestri di quelle, tornando alla memoria degli uomini, con molta fatica e lungo studio e spesa di tempo, da quanto tempo in qua dopo il disfacimento di Europa e delle nobili arti e scienze elle cominciassero a rinascere, a crescere, a fiorire e finalmente siano venute al colmo della loro perfezzione, dove veracemente io credo che le siano arrivate: tale che (come delle altre eccellenze suole avvenire e come altra fiata di queste medesime avvenne) è più da temerne la scesa che da sperarne più alta la salita. Né Vi è bastato questa rada cortesia di mantenere in vita coloro i quali già molti anni erano morti e di cui l'opere erano già più che smarrite - et in brieve per non si ritrovare né riconoscersi per li maestri che le aveano fatte e con quelle cerco di procacciarsi nome -, ma con nuova e non usata cortesia diligentemente avete ricerco de' ritratti delle loro imagini, e quelle con la bella arte Vostra in fronte alle Vite et alle opere loro avete aggiunte, acciò che coloro che dopo noi verranno sappino non solo i costumi, le patrie, l'opere, le maniere e l'ingegno de' nobili artefici, ma quasi se li veggino innanzi agli occhi; cosa la quale avanza di gran lunga ogni cortesia la quale si sia usata inverso dei morti, cioè di coloro da cui non si può più sperare cosa alcuna. Il che è tanto degno di maggior lode, che non è quella che al presente Vi posso dare io, quanto ella è più rada et usata solamente (quanto io posso ritrarre dalle antiche memorie) da duoi nobilissimi e dottissimi cittadini romani, M. Varrone e Pomponio Attico; de' quali Varrone, in un libro che egli scrisse degli uomini chiari, oltre ai fatti loro pregiati e costumi laudevoli aggiunse ancora le imagini di forse 700 di loro, e Pomponio Attico similmente, come si trova scritto, di cotali ritratti di persone onorate ne messe insieme un volume - cotanto quelli animi gentili ebbero in pregio la memoria degli uomini grandi et illustri, e tanto s'ingegnarono con ogni lor potere e con ogni maniera di onore far pregiati, chiari et eterni i nomi e le imagini di coloro i quali per loro virtù avevano meritato di viver sempre. Voi adunque, spinto da un generoso e bello animo oltre al consueto degli artefici, avete fatto il simigliante inverso i Vostri chiari artefici, illustri maestri e nel Vostro onorato mestiero pregiati compagni, ponendoci innanzi agli occhi quasi vivi i volti loro nel Vostro così piacevole e ben disposto libro, insieme con le virtù e con l'opere più pregiate di quegli; che pure non Vi doveva parer poco, se dell'ingegno Vostro sì vivo e della mano sì nobile e sì pronta era ripiena della Vostra arte onorata in pochi anni una gran parte d'Italia e la nostra città in più luoghi adorna, et il palazzo de' nostri illustrissimi Prencipi e Signori fattone sì a tutto il mondo raguardevole che egli non più della virtù e della gloria e della ricchezza de' suoi Signori che dell'arte Vostra medesima ne sarà, sempre che le pitture saranno in pregio, tenuto maraviglioso; mostrando in quelle, oltre a mille altri leggiadri e gravi ornamenti i quali in quello per tutto si veggono, le giuste imprese, le perigliose guerre, le fiere battaglie e l'onorate vittorie avute già dal popolo fiorentino e novellamente dai nostri illustrissimi Prencipi, con le imagini istesse di quegli onorati capitani e franchi guerrieri e prudenti cittadini i quali in quelle valorosamente e saviamente adoperarono: cosa che non solo diletta gli occhi de' riguardanti, ma molto più alletta l'animo vago d'onore e di gloria ad opere somiglianti. Ma non è luogo al presente ragionar di Voi, il quale da Voi istesso con l'opere in vita Vi lodate abastanza e viepiù ne' secoli avenire ne sarete lodato et ammirato, i quali senza alcuna animosità, che bene spesso s'oppone al vero, sinceramente ne giudicheranno. Ma per venire a quello che Voi mi domandate, dico che impossibil cosa sarebbe volere veracemente raccontare chi fussero coloro i quali primieramente dettero principio a queste arti, non essendo la memoria loro, per la lunghezza del tempo e per la varietà delle lingue e per molti altri casi che seco porta il girar del cielo, alla notizia nostra trappassata; e medesimamente quale di loro fusse prima o più pregiata. Pure all'una cosa e a l'altra si può agevolmente sodisfare, parte con la memoria degli antichi scrittori e parte con le congetture che seco reca la ragione e l'essempio delle cose; perciò che e' si conosce chiaramente, per quanto ne scrive Erodoto - antichissimo istorico il quale cercò molto paese e molte cose vide e molte ne udì e molte ne lesse -, gli Egizzii essere stati antichissimi di chi si abbi memoria e della religione, qualunche fosse la loro, solenni osservatori; i quali li loro Iddii sotto varie figure di nuovi e diversi animali adoravano, e quelle in oro, in argento et in altro metallo et in pietre preziose e quasi in ogni materia che forma ricever potesse, rassembravano; delle quali imagini alcune insino alli nostri giorni si sono conservate, massimamente essendo stati, come ancora se ne vede segnali manifesti, quei popoli potentissimi e copiosi di uomini, et i loro re ricchissimi et oltre a modo desiderosi di prolungare la memoria loro per secoli infiniti, et oltre a questo di maraviglioso ingegno e d'industria singolare e scienza profonda così nelle divine cose come nelle umane; il che si conosce da questo chiaramente, imperò che quelli che fra li Greci furono dipoi tenuti savii e scienziati oltre agli altri uomini andarono in Egitto e da' savii e da' sacerdoti di quella nazione molte cose appararono e le loro scienze aggrandirono (come si dice aver fatto Pitagora, Democrito, Platone e molti altri), ch'e' non pareva in quel tempo che potesse essere alcuno interamente scienziato, se al sapere di casa non si aggiungeva della scienza forestiera, che allora si teneva che regnasse in Egitto. Appresso costoro mi adviso io che fosse in gran pregio l'arte del ben disegnare e del colorire e dello scolpire e del ritrarre in qualunche materia et ogni maniera di forme, perciò che della architettura non si debbe dubitare che essi non fussero gran maestri, vedendosi di loro arte ancora le piramidi et altri edificii stupendi che durano e che dureranno, come io mi penso, secoli infiniti; senzaché e' pare che dietro agli imperii grandi et alle ricchezze et alla tranquillità degli stati sempre seguitino le lettere e le scienze et arte cotali appresso, così nel comune come nel privato: e questo non si debbe stimare che sia senza alcuna ragione, imperò che, essendo l'animo dello uomo, per mio avviso, per sua natura desideroso sempre d'alcuna cosa né mai sazio, aviene che, conseguito stato, ricchezze, diletto, virtù et ogni altra cosa che fra noi molto s'apprezza, viapiù desidera vita come più di tutte cara e quanto far più si puote lunghissima, e non solo nel corpo suo proprio, ma molto più nella memoria; il che fanno i fatti eccellenti primieramente, e poi coloro i quali con la penna gli raccontano e gli celebrano; di che non piccola parte si debbe attribuire a' pittori, agli scultori, agli architettori et altri maestri, i quali hanno virtù con le arti loro di prolungare la figura, i fatti et i nomi degli uomini ritraendoli e scolpendoli. E perciò si vede chiaramente che quasi tutte quelle nazioni che hanno avuto imperio e sono state mansuete e, per consequente, facoltà di poter ciò fare, si sono ingegnate di fare la memoria delle cose loro con tali argomenti lunga quanto loro è stato possibile. A questa cagione ancora, e forse la primiera, si vuole aggiugnere la religione et il culto degli Dei, qualunque esso stato si sia, intorno al quale in buona parte coloro che di ritrarre in qualunque modo hanno saputo l'arte si sono esercitati. Questo, come poco innanzi dicemo, veggiamo noi aver fatto gli Egizzii, questo i Greci, questo i Latini, e li antichi Toscani e li moderni e quasi ogni altra nazione la quale per la religione e per la umanità sia stata celebrata; i quali, le imagini di quelli che essi sotto diversi colori adoravano, hanno prima semplicemente o nel legno intagliato o con rozza pittura adombrato o in qualunche altro modo ritratto; e come nelle altre cose degli uomini suole avvenire, a poco a poco andandosi innalzando, queste ancora non solamente a devozione e santità, ma a pompa et a magnificenza hanno recato; come anco si conosce aver fatto l'architettura, la quale, dalle umili e private case semplicemente e senza arte murate, a far templi e palazzi altissimi e teatri e logge con gran maestria e spesa si diede. Questi adunche pare che fussero i principii di cotali arti, le quali in tanta nobiltà e maraviglia degli uomini per ingegno dei loro maestri egregii salirono, che e' pare che non contenti dello imitar la natura con quella alcuna volta abbino voluto gareggiare. Ma di tutte queste, che molte sono e che tutte pare che venghino da un medesimo FONTE, qual sia più nobile non è nostro intendimento di voler cercare al presente, ma sì bene quali fussero quelli di chi sia rimasa memoria e che in esse ebbero alcuno nome e che primieramente le esercitarono. E però ch'e' ci pare che l'origine di tutte cotali arti sia il disegno semplice - il quale è parte di pittura o che da quella ha principio, facendosi ciò nel piano -, parleremo primieramente de' pittori e poi di coloro che di terra hanno formato e di quegli che in bronzo o in altra materia nobile, fondendola, hanno ritratto, et ultimamente di coloro i quali nel marmo o in altra sorte di pietra con lo scarpello levandone hanno scolpito, fra i quali verranno ancora coloro i quali del rilèvo più alto o più basso hanno alcuno nome avuto. Dicesi adunche, lasciando stare gli Egizzii dei quali non è certezza alcuna, in Grecia la pittura avere avuto suo principio; alcuni dicono in Sicione et alcuni in Corinto, ma tutti in questo convengono ciò essersi fatto prima semplicemente con una sola linea circondando l'ombra d'alcuno, e dipoi con alcuno colore con alquanto più di fatica; la qual maniera di dipignere sempre è stata, come semplicissima, in uso et ancora è, e questa dicono aver insegnato la prima volta altri Filocle di Egitto et altri Cleante da Corinto. I primi che in questa si esercitarono si truova essere stato Ardice da Corinto e Telefane Sicionio, li quali, non adoperando altro che un color solo, ombravano le lor figure dentro con alcune linee. E per ciò che, essendo l'arte loro ancor rozza e le figure d'un color solo, non bene si conosceva di cui elle fussero imagini, ebbero per costume di scrivervi a piè chi essi avevano voluto rassembrare. Il primo che trovasse i colori nel dipignere, come dicono aver fatto fede Arato, fu Cleofanto da Corinto; e questi non si sa così bene se ei fu quello stesso il quale disse Cornelio Nepote esser venuto con Demarato padre di Tarquinio Prisco, che fu re delli Romani, quando da Corinto sua patria partendosi venne in Italia per paura di Cipselo prencipe di quella città, opure un altro, comeché a questo tempo in Italia fusse l'arte del dipignere in buona riputazione, come si può congetturare agevolmente, perciò che in Ardea, antichissima città né molto lontana da Roma, oltre al tempo di Vespasiano imperadore si vedevano ancora in alcuno tempio nel muro coperto alcune pitture- le quali erano, molto innanzi che Roma fusse, state dipinte -, sì bene mantenute che elle parevano di poco innanzi colorite. In Lanuvio parimente ne' medesimi tempi, cioè innanzi a Roma, e forse del medesimo maestro, una Atalanta et una Elena ignude di bellissima forma ciascuna, le quali lunghissimo tempo furono conservate intere dalla qualità del muro dove erano state dipinte, avengaché un Ponzio uficiale di Gaio imperadore, struggendosi di voglia d'averle, si fosse sforzato di tôrle quindi et a casa sua portarnele, e lo arebbe fatto se la forma del muro l'avesse sofferto. Donde si può manifestamente conoscere in quei tempi, e forse molto più che in Grecia e molto prima, la pittura essere stata in pregio in Italia. Ma poiché le cose nostre sono in tutto perdute e ci bisogna andare mendicando le forestieri, seguiremo la incominciata istoria di raccontare gli altri di cotale arte maestri quali da prima si dichino essere stati; benché né i Greci ancora non hanno così bene distinto i tempi loro in questa parte, perciò che e' si dice essere stata molto in pregio una tavola dove era dipinta una battaglia de' Magneti con sì bella arte che Candaule re di Lidia la aveva comperata altro e tanto peso d'oro, il che venne a essere intorno alla età di Romolo primo fondatore di Roma e primo re de' Romani, che già era cotale arte in tanta stima. Onde siamo forzati confessare l'origine di lei essere molto più antica, e parimente coloro i quali un solo colore adoperarono, l'età de' quali non così bene si ritrova; e parimente Igione che per sopranome fu chiamato Monocromada da questo, perciò che con un solo colore dipinse, il quale affermano essere stato il primo nelle cui figure si conoscesse il mastio dalla femmina; e similmente Eumaro d'Atene, il quale s'ingegnò di ritrarre ogni figura, e quello che dopo lui venendo le cose da lui trovate molto meglio trattò, Cimone Cleoneo, il quale prima dipinse le figure in iscorcio et i volti altri in giù, altri in su et altri altrove guardanti, e le membra partitamente con i suoi nodi distinse, che primo mostrò le vene ne' corpi e ne' vestimenti le crespe. Paneo ancora, fratello di quel Fidia nobile statuario, fece di assai bella arte la battaglia degli Ateniesi con i Persi a Maratona, che già era a tale venuta l'arte che nell'opera di costui si viddero primieramente ritratti i capitani nelle loro figure stesse: Milciade ateniese, Callimaco e Cinegiro, e de' barbari Dario e Tissaferne. Drieto al quale alquanti vennero i quali questa arte fecero migliore, dei quali non si ha certa notizia; intra i quali fu Polignoto da Taso, il primo che dipinse le donne con vesti lucenti e di begli colori, et i capi di quelle con ornamenti varii e di nuove maniere adornò- e ciò fu intorno agli anni 330 dopo Roma edificata. Per costui fu la pittura molto inalzata. Egli primo nelle figure umane mostrò aprir la bocca, scoprire i denti, et i volti da quella antica rozzezza fece parere più arrendevoli e più vivi. Rimase di lui fra le altre una tavola che si vide in Roma assai tempo nella loggia di Pompeo, nella quale era una bella figura armata con lo scudo, la quale non bene si conosceva se scendeva o saliva. Egli medesimo a Delfo dipinse quel tempio nobilissimo, egli in Atene la loggia che dalla varietà delle dipinture che drento vi erano fu chiamata la Varia, e l'uno e l'altro di questi lavori fece in dono; la qual liberalità molto gli accrebbe la riputazione e la grazia appresso a tutti i popoli della Grecia, talmente che li Anfizzioni - che era un consiglio comune di gran parte della Grecia che a certi tempi per trattare delle bisogne publiche a Delfo si ragunava - gli stanziarono che dovunche egli andasse per la Grecia fosse graziosamente ricevuto e fattoli publicamente le spese. A questo tempo medesimo furono due altri pittori d'un medesimo nome, de' quali Micone il Minore si dice essere stato padre di Timarete, il quale esercito la medesima arte della pittura. A questo tempo stesso o poco più oltre furono Aglaofone, Cefisodoro, Frilo et Evenore padre di Parrasio, di cui si parlerà a suo luogo. E furono costoro assai chiari, ma non tanto però che essi meritino che per loro virtù o per loro opere si metta molto tempo, studiandoci massimamente d'andare alla eccellenza dell'arte, alla quale arrecò poi gran chiarezza Apollodoro ateniese intorno a l'anno 345 da Roma edificata, il quale primo cominciò a dar fuori figure bellissime et arrecò a quest'arte gloria grandissima; di cui molti secoli poi si vedeva in Asia a Pergamo una tavola entrovi un sacerdote adorante, et in un'altra uno Aiace percosso dalla saetta di Giove, di tanto eccessiva bellezza che si dice inanzi a questa non si esser veduta opera di questa arte la quale allettasse gli occhi de' riguardanti. Per la porta da costui primieramente aperta entrò Zeusi di Eraclea dodici o tredici anni poscia, il quale condusse il pennello ad altissima gloria e di cui Apollodoro, quello stesso poco innanzi da noi raccontato, scrisse in versi l'arte sua toltagli portarne seco Zeusi. Fece costui con questa arte ricchezza infinita, tale che, venendo egli alcuna volta ad Olimpia là dove ogni cinque anni concorreva quasi tutta la Grecia a vedere i giuochi e gli spettacoli publici, per pompa a lettere d'oro nel mantello portava scritto il nome suo, acciò da ciascuno potesse essere conosciuto. Stimò egli cotanto l'opere sue che, giudicando non si dover trovare pregio pari a quelle, si mise nell'animo non di venderle, ma di donarle; e così donò una Atalanta al comune di Gergento, Pane dio de' pastori ad Archelao re. Dipinse una Penelope nella quale, oltre alla forma bellissima, si conoscevano ancora la pudicizia, la pazienza et altri bei costumi che in onesta donna si ricercano. Dipinse un campione, di quelli che i Greci chiamano atleti, e di questa sua figura cotanto si satisfece che egli stesso vi scrisse sotto quel celebrato motto: "Troverassi chi lo invidi, sì, ma chi il rassembri, no". Videsi di lui un Giove nel suo trono sedente con grandissima maestà con tutti li Dei intorno, uno Ercole nella zana che con ciascuna delle mani strangolava un serpente, presente Amfitrione et Almena madre, nella quale si scorgeva la paura stessa. Parve nondimeno che questo artefice facesse i capi delle sue figure un poco grandetti. Fu con tutto ciò accurato molto, tanto che dovendo fare a nome de' Crotoniati una bella figura di femmina, dov'e' pareva che egli molto valesse, la quale si deveva consacrare al tempio di Giunone che egli aveva adornato di molte altre nobili dipinture, chiese di avere commodità di vedere alcune delle loro più belle e meglio formate donzelle (ché in quel tempo si teneva che Crotone, terra di Calavria, avesse la più bella gioventù dell'uno e dell'altro sesso che al mondo si trovasse), di che egli fu tantosto compiaciuto; delle quali egli elesse cinque le più belle, i nomi delle quali non furono poi taciuti da' poeti come di tutte le altre bellissime, essendo state giudicate cotali da chi ne poteva e sapeva meglio di tutti gli altri uomini giudicare; e delle più belle membra di ciascuna ne formò una figura bellissima, la quale Elena volle che fosse, togliendo da ciascuna quello che in lei giudicò perfettissimo. Dipinse inoltre di bianco solamente alcune altre figure molto celebrate. Alla medesima età et a lui nell'arte concorrenti furono Timante, Androcide, Eupompo e Parrasio, con cui (Parrasio dico) si dice Zeusi avere combattuto nell'arte in questo modo, che, mettendo fuori Zeusi uve dipinte con sì bell'arte che gli uccegli a quelle volavano, Parrasio messe innanzi un velo sì sottilmente in una tavola dipinto come se egli ne coprisse una dipintura, che credendolo Zeusi vero, non senza qualche tema d'esser vinto chiese che, levato quel velo, una volta si scoprisse la figura; et accorgendosi dello inganno non senza riso dello avversario, si rese per vinto confessando di buona coscienza la perdita sua, conciosiaché egli avesse ingannato gli uccegli e Parrasio sé, così buon maestro. Dicesi il medesimo Zeusi aver dipinto un fanciullo il quale portava uve, alle quali volando gli augelli seco stesso s'adirava, parendogli non aver dato a cotale figura intera perfezzione, dicendo: "Se il fanciullo così bene fusse ritratto come l'uve sono, gli augelli dovrebbono pur temerne". Mantennesi in Roma lungo tempo nella loggia di Filippo una Elena e nel tempio della Concordia un Marsia legato, di mano del medesimo Zeusi. Parrasio, come noi abbiamo detto, fiorì in questa medesima età e fu di Efeso città di Asia, il quale in molte cose accrebbe e nobilitò la pittura. Egli primo diede intera proporzione alle figure, egli primo con nuova sottigliezza e vivacità ritrasse i volti e dette una certa leggiadria ai capegli e grazia infinita e mai non più vista alle facce, et a giudizio d'ogni uomo aùllui si concesse la gloria del bene et interamente finire e nelli ultimi termini far perfette le sue figure, perciò che in cotale arte questo si tiene che sia la eccellenza. Dipignere bene i corpi et il mezzo delle cose è bene assai, ma dove molti sono stati lodati; terminare e finir bene e con certa maestria rinchiudere drento a se stessa una figura, questo è rado e pochi si sono trovati li quali in ciò sieno stati da commendare, perciò che l'ultimo d'una figura debbe chiudere se stesso talmente che ella spicchi dal luogo dove ella è dipinta, e prometta molto più di quello che nel vero ella ha e che si vede; e cotale onore li diedero Antigono e Senocrate, i quali di cotale arte e delle opere della pittura ampiamente trattarono, non pure lodando ciò in lui e molte altre cose, ma ancora celebrandonelo oltre a modo. Rimasero di lui e di suo stile in carte et in tavole alcune adombrate figure, con le quali non poco si avanzarono poscia molti di cotale arte. Egli, come poco fa dicemo, fu tale nel bene et interamente finire l'opere sue, che paragonato a se stesso, nel mezzo di loro apparisce molto minore. Dipinse con bellissima invenzione il genio e, come sarebbe a dire, sotto una figura stessa la natura del popolo ateniese quale ella era, dove in un subietto medesimo volle che apparisse il vario, l'iracondo, il placabile, il clemente, il misericordioso, il superbo, il pomposo, l'umile, il feroce, il timido e ‘l fugace, che tale era la condizione e natura di quel popolo. Fu molto lodato di lui un capitano di nave armato di corazza, et in una tavola che era a Rodi Meleagro, Ercole e Perseo, la quale abronzata tre volte dalla saetta e non iscolorita, accresceva la maraviglia. Dipinse ancora uno Archigallo, della quale figura fu tanto vago Tiberio imperadore che per poterla vagheggiare a suo diletto se la fece appiccare in camera. Videsi di lui ancora una balia di Creti col bambino in braccio, figura molto celebrata, e Flisco e Bacco con la Virtù appresso e due vezzosissimi fanciullini ne' quali si scorgeva chiara la semplicità della età e quella vita senza pensiero alcuno. Dipinse inoltre un sacerdote sacrificante con un fanciullo appresso, ministro del sacrificio con la grillanda e con l'incenso. Ebbero gran fama due figure di lui armate, l'una che in battaglia correndo pareva che sudasse, e l'altra che per stanchezza ponendo giù l'arme pareva che ansasse. Fu lodata anco di questo artefice medesimo una tavola dove era Enea, Castore e Polluce, e simigliantemente un'altra dove era Telefo, Achille, Agamennone et Ulisse. Valse ancora molto nel ben parlare, ma fu superbo oltre a misura lodando se stesso arrogantemente e l'arte sua, chiamandosi per sopranome or Grazioso et ora con cotali altri nomi dichiarante lui essere il primo e convenirsegli il pregio di quell'arte e d'averla condotta a somma perfezzione, e sopratutto d'essere disceso da Apollo; e che l'Ercole, il quale egli aveva dipinto a Lindo città di Rodi, era tal e quale egli diceva più volte essergli apparito in visione. Fu con tutto ciò vinto a Samo la seconda volta da Timante, il che male agevolmente sopportò. Dipinse ancora per suo diporto in alcune picciole tavolette congiungimenti amorosi molto lascivi. In Timante, il quale fu al medesimo tempo, si conobbe una molto benigna natura; di cui intra le altre ebbe gran nome - e che è posta da quegli che insegnono l'arte del ben dire per essempio di convenevolezza - una tavola dove è dipinto il sacrificio che si fece di Ifigenia figliuola di Agamennone la quale stava dinanzi allo altare per dover essere uccisa dal sacerdote, d'intorno a cui erano dipinti molti che a tal sacrificio intervenieno e tutti assai nel sembiante mesti, e fra gli altri Menelao zio della fanciulla alquanto più degli altri; né trovando nuovo modo di dolore che si convenisse a padre in così fiero spettacolo, avendo negli altri consumato tutta l'arte, con un lembo del mantello gli coperse il viso, quasi che esso non potesse patire di vedere sì orribile crudeltà nella persona della figliuola, ché così pareva che a padre si convenisse. Molte altre cose ancora rimasero di sua arte le quali lungo tempo fecero fede della eccellenzia dello ingegno e della mano di lui, come fu un Polifemo, in una picciola tavoletta, che dorme; del quale volendo che si conoscesse la lunghezza, dipinse appresso alcuni satiri che con la verga loro gli misuravano il dito grosso della mano. Et insomma in tutte l'opere di questo artefice sempre s'intendeva molto più di quello che nella pittura appariva e, comeché l'arte vi fusse grande, l'ingegno sempre vi si conosceva maggiore. Bellissima figura fu tenuta di questo medesimo, e nella qual e' pareva che apparisse tutto quello che può far l'arte, uno di quei Semidei che gli antichi chiamarono Eroi, la quale poi a Roma lungo tempo fu ornamento grande del tempio della Pace. Questa medesima età produsse Euxenida che fu discepolo d'Aristide, pittore chiaro, et Eupompo, il quale fu maestro di Panfilo da cui dipoi imparò Apelle. Durò assai di questo Eupompo una figura di gran nome rassembrante uno di quei campioni vincitori de' giuochi olimpici con la palma in mano. Fu egli di tanta autorità appresso i Greci, che, dividendosi prima la pittura in due maniere l'una chiamata asiatica e l'altra greca, egli partendo la greca in due, di tutte ne fece tre: asiatica, sicionia et attica. Da Panfilo fu la battaglia e la vittoria degli Ateniesi a Fliunte dipinta e, dal medesimo, Ulisse come è descritto da Omero in mare sopra una nave rozza a guisa di fodero. Fu di nazione macedonico, et il primo di cotale arte che fosse nelle lettere scienziato e principalmente nella arimetica e nella geometria, senza le quali scienze egli soleva dire non si potere nella pittura fare molto profitto. Insegnò aùpprezzo né volle meno da ciascuno discepolo in dieci anni di uno talento, il qual salario gli pagarono Melanzio et Apelle; e poté tanto l'esempio di questo artefice, che prima in Sicione e poi in tutta la Grecia fu stabilito che fra le prime cose che s'insegnavano nelle scuole a' fanciulli nobili fusse il disegnare che va inanzi al colorire, e che l'arte della pittura si accettasse nel primo grado delle arti liberali. E nel vero appresso i Greci sempre fu tenuta questa arte di molto onore e fu esercitata non solo da' nobili, ma da persone onorate ancora, con espressa proibizione che i servi non si ammettessero per discepoli di cotale arte. Laonde non si trova che né in pittura né in alcuno altro lavoro che dal disegno proceda sia stato alcuno nominato che fusse stato servo. Ma innanzi a questi ultimi, de' quali noi abbiamo parlato, forse XX anni, si trova essere stati di qualche nome Echione e Terimanto. Di Echione furono in pregio queste figure: Bacco, la Tragedia e la Comedia in forma di donne, Semiramis la quale di serva diveniva regina di Babilonia, una suocera che portava la faccellina innanzi a una nuora che ne andava a marito, nel volto della quale si scorgeva quella vergogna che a pulzella in cotale atto e tempo si richiede. Ma a tutti i di sopra detti e coloro che di sotto si diranno trappassò di gran lunga Apelle, che visse intorno alla XII e centesima olimpiade - che dalla fondazione di Roma batte intorno a CCCCXXI anno -, né solamente nella perfezzione dell'arte, ma ancora nel numero delle figure, perciò che egli solo molto meglio di ciascuno e molto più ne dipinse, e più arrecò a tale arte d'aiuto scrivendone ancora volumi i quali di quella insegnarono la perfezzione. Fu costui maraviglioso nel fare le sue opere graziose, et avengaché al suo tempo fussero maestri molto eccellenti - l'opere dei quali egli soleva molto commendare et ammirare -, nondimeno a tutti diceva mancare quella leggiadria la quale da' Greci e da noi è chiamata grazia, nell'altre cose molti essere da quanto lui, ma in questo non aver pari. Di questo altro si dava egli anche vanto, che riguardando i lavori di Protogene con maraviglia di fatica grande e di pensiero infinito e commendandoli oltre a modo, in tutti diceva averlo pareggiato e forse in alcuna parte essere da lui vinto, ma in questo senza dubbio essere da più, perciò che Protogene non sapeva levar mai la mano d'in sul lavoro. Il che, detto da cotale artefice, si vuole avere per ammaestramento che spesse fiate nuoce la soverchia diligenza. Fu costui non solamente nell'arte sua eccellentissimo maestro, ma d'animo ancora semplicissimo e molto sincero, come ne fa fede quello che di lui e di Protogene dicono essere avvenuto. Dimorava Protogene nell'isola di Rodi sua patria, dove alcuna volta venendo Apelle con desiderio grande di vedere l'opere di lui, che le udiva molto lodare et egli solamente per fama lo conosceva, dirittamente si fece menare alla bottega dove ei lavorava, e giunsevi apunto in tempo che egli era ito altrove; dove entrando Apelle, vidde che egli aveva messo su una gran tavola per dipignerla, et insieme una vecchia sola a guardia della bottega, la quale, domandandola Apelle del maestro, rispose lui essere ito fuore. Domandò ella lui chi fusse quegli che ne domandava. "Questi", rispose tostamente Apelle, e preso un pennello tirò una linea di colore, sopra quella tavola, di maravigliosa sottigliezza, et andò via. Torna Protogene, la vecchia gli conta il fatto, guarda egli, e considerata la sottigliezza di quella linea, s'aviso troppo bene ciò non essere opera d'altri che di Apelle, ché in altri non caderebbe opera tanto perfetta; e preso il pennello sopra quella istessa d'Apelle d'altro colore ne tirò un'altra più sottile, e disse alla vecchia: "Dirai a quel buono uomo, se ci torna, mostrandoli questa, che questi è quegli che ei va cercando". E così non molto poi avvenne che tornato Apelle et udito dalla vecchia il fatto, vergognando d'esser vinto, con un terzo colore partì quelle linee stesse per lungo il mezzo, non lasciando più luogo veruno ad alcuna sottigliezza; onde tornando Protogene e considerato la cosa e confessando d'esser vinto, corse al porto cercando d'Apelle e seco nel menò a casa. Questa tavola, senza altra dipintura vedervisi entro, fu tenuta degna per questo fatto solo d'esser lungo tempo mantenuta viva, e fu poi come cosa nobile portata a Roma e nel palazzo degli Imperadori veduta volentieri da ciascuno e sommamente ammirata, e più da coloro che ne potevano giudicare, tuttoché non vi si vedesse altro che queste linee tanto sottili che poi apena si potevano scorgere; e fra le altre opere nobilissime fu tenuta cara, e per quello istesso che entro altro non vi si vedeva, allettava gli occhi de' riguardanti. Ebbe questo artefice in costume di non lasciar mai passare un giorno solo che almeno non tirasse una linea et in qualche parte esercitasse l'arte sua, il che poi venne in proverbio. Usava egli similmente mettere l'opere sue finite in publico et appresso star nascoso ascoltando quello che altri ne dicesse, estimando il vulgo d'alcune cose essere buon conoscitore e poterne ben giudicare. Avvenne, come si dice, che un calzolaio accusò in una pianella d'una figura non so che difetto, e conoscendo il maestro che e' diceva il vero, la racconciò. Tornando poi l'altro giorno il medesimo calzolaio e vedendo il maestro averli creduto nella pianella, cominciò a voler dire non so che di una delle gambe; di che sdegnato Apelle et uscendo fuori disse proverbiandolo che a calzolaio non conveniva giudicar più su che la pianella; il qual detto fu anco accettato per proverbio. Fu inoltre molto piacevole et alla mano e per questo oltre a modo caro ad Alessandro Magno, talmente che quel re lo andava spesso a visitare a bottega, prendendo diletto di vederlo lavorare et insieme d'udirlo ragionare. Et ebbe tanto di grazia e di autorità appresso a questo re, benché stizzoso e bizzarro, che ragionando esso alcune volte della arte di lui meno che saviamente, con bel modo gli imponeva silenzio mostrandoli i fattorini che macinavano i colori ridersene. Ma quale Alessandro lo stimasse nell'arte si conobbe per questo, che egli proibì a ciascuno dipintore il ritrarlo fuori che ad Apelle. E quanto egli lo amasse et avesse caro si vide per questo altro, perciò che, avendoli imposto Alessandro che gli ritraesse nuda Cansace, una la più bella delle sue concubine la quale esso amava molto, et accorgendosi per segni manifesti che nel mirarla fiso Apelle s'era acceso della bellezza di lei, concedendoli Alessandro tutto il suo affetto gnene fece dono, senza aver riguardo anco a lei, che, essendo amica di re e di Alessandro re, li convenne divenire amica d'un pittore. Furono alcuni che stimarono che quella Venere Dionea tanto celebrata fusse il ritratto di questa bella femmina. Fu questo Apelle molto umano inverso li artefici de' suoi tempi et il primo che dètte riputazione alle opere di Protogene in Rodi, perciò che egli, come il più delle volte suole avvenire, tra i suoi cittadini non era stimato molto. E domandandogli Apelle alcuna volta quanto egli stimasse alcune sue figure, rispose non so che piccola cosa, onde egli dètte nome di voler per sé comperar quelle ch'egli avea lavorato e lavorerebbe per rivenderle per sue prezzo molto maggiore; il che fece aprire gli occhi a' Rodiani, né volle cederle loro, se non arrogevano al prezzo con non poco utile di quel pittore. È cosa incredibile quello che è scritto di lui, cioè che egli ritraeva sì bene e sì apunto le imagini altrui dal naturale, che uno di questi che nel guardare in viso altrui fiso sogliono indovinare quello che ad alcuno sii avvenuto nel passato tempo o debba avvenire nel futuro - i quali si chiamano fisiomanti - guardando alcun ritratto fatto da Apelle, conobbe per quello quanto quegli di cui era il ritratto dovesse vivere o fusse vivuto. Dipinse con un nuovo modo Antigono re che l'uno degl'occhi aveva meno, in maniera che il difetto della faccia non apparisse, perciò che egli lo dipinse col viso tanto vòlto quanto bastò a celare in lui quel mancamento, non parendo però difetto alcuno nella figura. Ebbero gran nome alcune imagini da lui fatte di persone che morivano; ma fra le molte sue e molto lodate opere qual fosse la più perfetta non si sa così bene. Agusto Cesare consagrò al tempio di Giulio suo padre quella Venere nobilissima ch'è per uscir del mare e da quell'atto stesso fu chiamata Anadiomene, la quale da' poeti greci fu mirabilmente celebrata et illustrata, alla parte di cui che s'era corrotta non si trovò chi ardisse por mano; il che fu grandissima gloria di cotal artefice. Egli medesimo cominciò a quelli di Còo un'altra Venere e ne fece il volto e la parte sovrana del petto, e si pensò, da quel che se ne vedeva, che egli arebbe e quella prima Dionea e se stesso in questa avanzato. Morte così bella opera interroppe né si trovò poi chi alla parte disegnata presumesse aggiugner colore. Dipinse ancora a quelli di Efeso nel tempio della lor Diana un Alessandro Magno con la saetta di Giove in mano, le dita della quale pareva che fussero di rilievo e la saetta che uscisse fuor della tavola, e ne fu pagato di moneta d'oro non a novero, ma a misura. Dipinse molte altre figure di gran nome, e Clito familiar di Alessandro in atto di apprestarsi a battaglia con il paggio suo che gli porgeva la celata. Non bisogna domandare quante volte né in quante maniere e' ritraesse Alessandro o Filippo suo padre, che furono infinite, e quanti altri re e personaggi grandi ei dipignesse. In Roma si vide di lui Castore e Polluce con la Vittoria, et Alessandro trionfante con l'imagine della Guerra con le mani legate drieto al carro; le quali due tavole Agusto consacrò al suo Foro nelle parti più onorate di quello, e Claudio poi, cancellandone il volto di Alessandro, vi fece riporre quello di Agusto. Dipinse uno Eroe ignudo, quasi in quest'opera volesse gareggiare con la natura. Dipinse ancora a pruova con certi altri pittori un cavallo, dove, temendo del giudizio degli uomini et insospettito del favore de' giudici inverso i suoi avversarii, chiese che se ne stesse al giudizio de' cavagli stessi; et essendo menati i cavalli d'attorno a' ritratti di ciascuno, ringhiarono a quel d'Apelle solamente- il qual giudizio fu stimato verissimo. Ritrasse Antigono in corazza con il cavallo drieto et in altre maniere molte; e di tutte le sue opere, quelli che di così fatte opere s'intesero, giudicarono l'ottima essere uno Antigono a cavallo. Fu bella anco di lui una Diana secondo che la dipinse in versi Omero, e pare che il dipintore in questo vincesse il poeta. Dipinse inoltre con nuovo modo e bella invenzione la Calunnia, prendendone questa occasione. Era egli in Alessandria in corte di Tolomeo re e per la virtù sua in molto favore. Ebbevi dell'arte stessa chi l'invidiava e, cercando di farlo mal capitare, l'accusò di congiura contro a Tolommeo di cosa nella quale non solo non aveva colpa veruna Apelle, ma né anco era da credere che un tal pensiero gli fusse mai caduto nell'animo. Fu nondimeno vicino al perderne la persona, credendo ciò il re scioccamente, e perciò, ripensando egli seco stesso al pericolo il quale aveva corso, volle mostrare con l'arte sua che e come pericolosa cosa fosse la calunnia. E così dipinse un re a sedere con orecchie lunghissime e che porgeva innanzi la mano, da ciascuno de' lati del quale era una figura, il Sospetto e l'Ignoranza. Dalla parte dinanzi veniva una femmina molto bella e bene adobbata con sembiante fiero et adirato, e con essa la sinistra teneva una facellina accesa e con la destra strascinava per i capegli un doloroso giovane, il quale pareva che con gli occhi e con le mani levate al cielo gridasse misericordia e chiamasse li Dei per testimonio della vita sua di niuna colpa macchiata. Guidava costei una figura pallida nel volto e molto sozza, la quale pareva che pure allora da lunga infermità si sollevasse: questa si giudicò che fusse l'Invidia. Drieto alla Calunnia, come sue serventi e di sua compagnia seguivano due altre figure, secondo ch'e' si crede, che rassembravano l'Inganno e l'Insidia. Dopo queste era la Penitenza atteggiata di dolore et involta in panni bruni la quale si batteva a palme e pareva che, dietro guardandosi, mostrasse la Verità in forma di donna modestissima e molto contegnosa. Questa tavola fu molto lodata e per la virtù del maestro e per la leggiadria dell'arte e per la invenzione della cosa, la quale può molto giovare a coloro li quali sono proposti ad udire le accuse degli uomini. Furono del medesimo artefice molte altre opere celebrate dagli scrittori, le quali si lasciano andare per brevità, essendosene raccontate forse più che non bisognava. Trovò nell'arte molte cose e molto utili, le quali giovarono molto a quegli che dipoi le appararono. Questo non si trovò giamai dopo lui chi lo sapesse adoperare, e questo fu un color bruno, o vernice che si debba chiamare, il quale egli sottilmente distendeva sopra l'opre già finite; il quale con la sua riverberazione destava la chiarezza in alcuni de' colori e gli difendeva dalla polvere, e non appariva se non da chi ben presso il mirava; e ciò faceva con isquisita ragione, acciò che la chiarezza d'alcuni accesi colori meno offendessero la vista di chi da lontano, come per vetro, le riguardasse, temperando ciò col più e col meno, secondo giudicava convenirsi. Al medesimo tempo fu Aristide tebano, il quale, come si dice, fu il primo che dipignesse l'animo e le passioni di quello. Fu alquanto più rozzo nel colorire. Ebbe gran nome una tavola di costui dove era ritratto, fra la strage d'una terra presa per forza, una madre, la quale moriva di ferite et appresso aveva il figliuolo che carpone si traeva alla poppa, e nella madre pareva temenza che ‘l figliuolo non bevesse con il latte il sangue di lei già morto. Questa tavola, estimandola bellissima, fece portare in Macedonia a Pella sua patria Alessandro Magno. Dipinse ancora la battaglia d'Alessandro con i Persi mettendo in una stessa tavola cento figure, avendo prima pattuito con Mnasone prencipe degli Elatresi cento mine per ciascuna. Di questo medesimo si potrebbono raccontare altre figure molto chiare- le quali et a Roma et altrove furono molto in pregio assai tempo, e fra l'altre uno infermo lodato infinitamente -, perciò che ei valse tanto in questa arte che si dice il re Attalo aver comperato una delle sue tavole cento talenti. Visse al medesimo tempo e fiorì Protogene suddito de' Rodiani, di cui alquanto di sopra si disse, povero molto nel principio del suo mestiere e di cui si dice che egli aveva da prima esercitato la pittura in cose basse e quasi aveva lavorato a opera dipignendo le navi; ma fu diligente molto e nel dipignere tardo e fastidioso, né così bene in esso si sodisfaceva. Il vanto delle sue opere porta lo Ialiso, il quale insino al tempo di Vespasiano imperadore si guardava ancora a Roma nel tempio della Pace. Dicono che nel tempo che egli faceva cotale opera non mangiò altro che lupini dolci, sodisfacendo a un tempo medesimo con essi alla fame et alla sete per mantenere l'animo et i sensi più saldi e non vinti da alcuno diletto. Quattro volte mise colore sopra colore a questa opera, riparo contro alla vecchiezza e schermo contro al tempo, acciò consumandosi l'uno succedesse l'altro di mano in mano. Vedevasi in questa tavola stessa un cane di maravigliosa bellezza fatto da l'arte et insieme dal caso in cotal modo. Voleva egli ritrarre intorno alla bocca del cane quella schiuma la quale fanno i cani faticati et ansanti, né poteva in alcun modo entro sodisfarvisi: ora scambiava pennello, ora con la spugna scancellava i colori, ora insieme li mescolava, che arebbe pur voluto che ella uscisse della bocca dell'animale e non che la paresse di fuora appiccata; né si contentava in modo veruno, tanto che, avendovi faticato intorno molto né riuscendogli meglio l'ultima volta che la prima, con istizza trasse la spugna che egli aveva in mano piena di quei colori nel luogo stesso dove egli dipigneva. Maravigliosa cosa fu a vedere: quello che non aveva potuto fare con tanto studio e fatica l'arte, lo fece il caso in un tratto solo, perciò che quelli colori vennero appiccati intorno alla bocca del cane di maniera che ella parve proprio schiuma che di bocca gli uscisse. Questo stesso dicono essere avvenuto a Nealce pittore nel fare medesimamente la schiuma alla bocca d'un cavallo ansante, o avendolo apparato da Protogene o essendoli avvenuto il caso medesimo. Questa figura di Protogene fu quella che difese Rodi da Demetrio re il quale fieramente con grande esercito la combatteva, perciò che potendo agevolmente prendere la terra dalla parte dove si guardava questa tavola, che era luogo men forte, dubitando il re che la non venisse arsa nella furia de' soldati, volse l'impeto dell'oste altrove, et intanto gli trappassò l'occasione di vincere la terra. Stavasi in questo tempo Protogene in una sua villetta quasi sotto le mura della città, cioè dentro alle forze di Demetrio e nel suo campo, né per combattere che si facesse né per pericolo che e' portasse lasciò mai di lavorare. E chiamato una fiata dal re e domandato in su che egli si fidasse, che così gli pareva star sicuro fuor delle mura, rispose perciò che egli sapeva molto bene che Demetrio aveva guerra con i Rodiani e non con le arti. Fece Demetrio, piacendogli la risposta di questo artefice, guardare ch'e' non fusse da alcuno noiato o offeso. E perché egli non si avesse a scioperare, spesso andava a visitarlo e, tralasciata la cura delle armi e dell'oste, molte volte stava a vederlo dipignere fra i romori del campo et il percuotere delle mura. E quinci si disse poi che quella dipintura che egli allora aveva fra mano fu lavorata sotto il coltello. E questo fu quel Satiro di maravigliosa bellezza, il quale, perciò che egli appoggiandosi a una colonna si riposava, ebbe nome "il Satiro riposantesi"; il quale, quasi nullo altro pensiero lo toccasse, mirava fiso una sampogna che egli teneva in mano. Sopra a quella colonna aveva anco quel maestro dipinta una quaglia tanto pronta e tanto bella che non era alcuno che senza maraviglia la riguardasse, alla quale le dimestiche tutte cantavano invitandola a combattere. Molte altre opere di questo artefice si lasciono indrieto per andare agli altri che ebbero pregio di cotale arte. Fra i quali fu al medesimo tempo Asclepiodoro il quale nella proporzione valse un mondo, e però da Apelle era in questo maravigliosamente lodato. Ebbe da Mnasone prencipe degli Elatensi, per dodici Dei dipintili, trecento mine per ciascuno. Fra questi merita d'esser raccontato Nicomaco figliuolo o discepolo di Aristodemo, il quale dipinse Proserpina rapita da Plutone, la qual tavola era in Roma nel Campidoglio sopra la cappella della Gioventù. È nel medesimo luogo un'altra pur di sua mano, dove si vedeva una Vittoria la quale in alto ne portava un carro insieme con i cavagli. Dipinse anco Apollo e Diana e Rea madre degli Dei sedente sopra un leone. Medesimamente alcune giovenche con alquanti satiri appresso in atto di volere involandole trafugar via, et una Scilla che era a Roma nel tempio della Pace. Niuno di lui in questa arte fu più presto di mano, e si dice che, avendo tolto a dipignere un sepolcro che faceva fare a Teleste poeta Aristrato prencipe de' Sicionii in termine di non molto tempo, et essendo venuto tardi a l'opera e crucciandosene e minacciandolo Aristrato, egli in pochissimi giorni lo dètte compìto con prestezza e destrezza maravigliosa. Discepoli suoi furono Aristide fratello suo et Aristocle figliuolo, e Filoxeno d'Eretria di cui si dice essere stata una tavola fatta per Cassandro re, entrovi ritratta la battaglia d'Alessandro con i Persi; la qual fu tale che non merita d'essere lasciata indietro per alcun'altra. Fece molte altre cose ancora, imitando la prestezza del maestro e trovando nuove vie e più brevi di dipignere. A questi si aggiunghino Nicofane, gentile e pulito artefice, e Perseo discepolo d'Apelle, il quale molto fu da meno del maestro. Furono al medesimo tempo alcuni altri, che, partendosi da quella maniera grande di questi detti di sopra, esercitarono l'ingegno e l'arte in cose molto più basse, ma che furono tenute in pregio assai né meno stimate delle altre. Tra i quali fu Pireo che dipigneva e ritraeva botteghe di barbieri, di calzolai, taverne, asini, lavoratori e così fatte cose, onde egli trasse anco il sopranome, che si chiamava il "dipintore delle cose basse"; le quali nondimeno, per essere lavorate con bella arte, non erano stimate meno che le magnifiche e le onorate. Altri fu che dipinse molto bene le scene delle comedie, e da questo ebbe nome, et altri altre diverse cose, variando assai dalli gravi e celebrati pittori non senza grande utile loro e diletto altrui. Fu anco poi all'età d'Augusto un Ludio, il primo che cominciasse a dipignere per le mura con piacevolissimo aspetto ville, logge, giardini, spalliere fronzute, selve, boschetti, vivai, laghi, riviere, liti e piacevoli imagini di viandanti, di naviganti, di vetturali e d'altre simili cose in bella prospettiva, altri che pescavano, cacciavano, vendemmiavano, femmine che correvano, e fra queste molte piacevolezze e cose da ridere mescolate. Ma e' pare che non sieno stati celebrati di questi cotali alcuni tanto quanto quelli antichi, i quali in tavole solamente dipinsero, e per ciò è in grandissima riverenzia l'antichità, perciò che quei primi artefici non adoperavano l'arte loro se non in cose che si potessero tramutare, e fuggire le guerre e gl'incendii e l'altre rovine, et agli antichi tempi in Grecia né in publico né in privato non si truova mura dipinte da nobili artefici: Protogene visse in una sua casetta con poco d'orto senza ornamento alcuno di sua arte, Apelle niuno muro dipinse giamai. Tutta l'arte di questi solenni maestri si dava alli communi et il pittor buono era cosa publica riputato. Ebbe alcuno nome poco inanzi alla età d'Augusto uno Arellio, il quale fu tanto dissoluto nello amore delle femmine che mai non fu senza, e perciò dipignendo Dee sempre vi si riconosceva drento alcuna delle da lui amate e le meretrici stesse. Tra questi detti di sopra non si vuol lasciar indietro Pausia Sicionio, discepolo di quel Panfilo che fu anco maestro d'Apelle, il quale pare che fusse il primo che cominciò a dipignere per le case i palchi e le volte, il che innanti non s'era usato. Dipigneva costui per lo più tavolette picciole e massimamente fanciulli, il che i suoi avversarii dicevano farsi da lui perciò che quel modo di lavorare era molto lungo, onde egli per acquistare nome di sollecito e presto dipintore, quando voglia o bisogno gliene venisse, fece in un giorno solo una tavola, la quale da questo fu chiamata "il lavoro d'un solo giorno", entrovi un fanciul dipinto molto bello. Fu innamorato costui in sua giovanezza d'una fanciulletta di sua terra che faceva grillande di fiori, e recò nell'arte una infinità di fiori di mille maniere, quasi facendo con lei cui egli amava a gara; et in ultimo dipinse lei con una grillanda di fiori in mano la quale ella tesseva, e questa tavola fu stimata di grandissimo prezzo, e da colei che v'era entro dipinta ebbe nome la Grillandatessente; il ritratto della quale di mano d'un altro buon maestro comperò Lucullo in Atene duoi talenti. Fece questo artefice medesimo alcune altre opere molto magnifiche, come fu un sacrificio di buoi - del quale se ne adornò in Roma la loggia di Pompeo Magno -, all'eccellenza della quale opera et all'invenzione si sono provati d'arrivare molti, ma niuno vi aggiunse giamai. Egli primieramente volendo mostrare con bella arte la grandezza d'un bue, lo dipinse non per lo lungo, ma in iscorcio et in tal maniera che la lunghezza vi appariva giustissima; e poi, conciosiaché tutti coloro che vogliono far parere in piano alcuna cosa di rilievo adoperino color chiaro e bruno mescolandoli insieme con certa ragione e proporzione, egli lo dipinse tutto di color bruno, e del medesimo fece apparir l'ombre del corpo: grande arte certamente nel piano far parere le cose di rilievo, e nel rotto intere. Visse costui in Sicione, che lungo tempo fu questa terra quasi la casa della pittura et onde tutte le nobili tavole, che molte ve ne ebbe per debito del comune pegnorate, furono poi portate a Roma da Scauro edile per adornare nella sua magnifica festa il Foro Romano. Dopo questo Pausia, Eufranore da Ismo avanzò tutti gli altri di sua età - e visse intorno agli anni della olimpiade 124 che batte intorno a l'anno di Roma 430 -, avengaché egli lavorasse anco in marmo, in metallo et in argento colossi et altre figure, ché fu molto agevole ad imprendere qualunche si fusse di queste arti, ma bene le esercitava con molta fatica; et in tutte fu ugualmente lodato. Ebbe vanto d'essere il primo che alle imagini degli eroi desse tale maestà quale a quegli si conviene, e che nelle sue figure usasse ottimamente le proporzioni, comeché nel fare i corpi alle sue figure paresse un poco sottile e ne' capi e nelle mani maggior del dovere. L'opere di lui più lodate sono una battaglia di cavalieri, dodici Dei, un Teseo, sopra il quale soleva dire il suo essere pasciuto di carne e quel di Parrasio di rose. Vedevasi del medesimo a Efeso una tavola molto nobile dove era Ulisse, il quale fingendosi stolto metteva a giogo un bue et un cavallo, e Palamede che nascondeva la spada in un fascio di legne. Al medesimo tempo fu Ciclia, una tavola di cui contenente gli Argonauti comperò Ortensio oratore, credo, quarantaquattro talenti, et a questa sola a Tuscolo sua villa fabricò una cappelletta. Di Eufranore fu discepolo Antidoto, di cui si diceva essere in Atene uno con lo scudo in atto di combattere, uno che giocava alla lotta, uno che sonava il flauto, lodati eccessivamente. Fu costui per sé chiaro assai, ma molto più per essere stato suo discepolo Nicia Ateniese, quegli che così bene dipinse le femmine, et il chiaro e lo scuro nelle sue opere così bene rassembrò di maniera che le opere di lui tutte parevano nel piano rilevate, nel che egli si sforzò e valse molto. L'opere di costui molto chiare furono una Nemea la quale a Roma da Sillano fu portata d'Asia, medesimamente un Bacco il quale era nel tempio della Concordia, uno Iacinto il quale Cesare Agusto, piacendogli oltremodo, portò seco a Roma d'Alessandria poi che esso l'ebbe presa e perciò Tiberio Cesare nel tempio di lui lo consacrò a Diana. A Efeso dipinse il sepolcro molto celebrato di Megalisia sacerdotessa di Diana; in Atene l'inferno d'Omero, che nella greca lingua si chiama Necia, il quale egli dipinse con tanta attenzione d'animo e con tanto affetto che bene spesso domandava i suoi famigliari se egli quella mattina aveva desinato o no; la qual pittura, potendola vendere alcuni dicono a Attalo re et altri a Tolommeo - sessanta talenti, volle più tosto farne dono alla patria sua. Dipinse inoltre figure molto maggiori del naturale, ciò furono Calipso, Io, Andromeda, Alessandro che a Roma si vedeva nella loggia di Pompeo, et un'altra Calipso a sedere. Fu nel ritrarre le bestie maraviglioso, et i cani principalmente. Questi è quel Nicia di cui soleva dire Prassitele, domandato qual delle sue figure di marmo egli avesse per migliore: quelle a cui Nicia aveva posto l'ultima mano - tanto dava egli a quella ultima politura con la quale si finiscono le statue. Fu giudicato pare a questo Nicia, e forse maggiore, uno Atenione Maronite discepolo di Glaucone da Corinto, tuttoché nel colorire fusse alquanto più austero, ma tale nondimeno che quella severità dilettava e che nell'arte di lui si mostrava molto sapere. Dipinse nel tempio di Cerere Eleusina nella attica Filarco et in Atene quel gran numero di femmine che in certi sacrifizii andavano a processione con canestri in capo. Diedegli gran nome un cavallo dipinto con uno che lo menava, e medesimamente Achille, il quale, sotto abito feminile nascoso, era trovato da Ulisse: e se egli non fusse morto molto giovane, non aveva pare alcuno. Fu anco quasi a questa età medesima in Atene Metrodoro filosofo insiememente e pittore, e grande nell'una e nell'altra professione di maniera che, poi che Paolo Emilio ebbe vinto e preso Perse re di Macedonia, chiedendo agli Ateniesi che gli procacciassero un filosofo che insegnasse a' figliuoli et uno pittore che gli adornasse il trionfo, gli Ateniesi di comun parere li mandarono Metrodoro solo, giudicandolo sufficiente a l'una cosa et a l'altra - il che approvò Paolo medesimo. Fu anco poi al tempo di Giulio Cesare dittatore uno Timomaco di Bisanzio il quale dipinse uno Aiace et una Medea, le quali tavole furono vendute ottanta talenti. Di questo medesimo fu molto lodato uno Oreste et una Efigenia, e Lecito maestro di esercitare i giovani nelle palestre, et ancora alcuni Ateniesi in mantello, altri in atto di aringare et altri a sedere; e, comeché in tutte queste opere sii lodato molto, pare nondimeno che l'arte lo favorisse molto più nel Gorgone. Di quel Pausia detto di sopra fu figliuolo e discepolo Aristolao, pittore molto severo, del quale furono opere Epaminonda, Pericle, Medea, la Virtù, Teseo et il ritratto della plebe di Atene et un sacrificio di buoi. Ebbe ancora a chi piacque Menocare discepolo di quello stesso Pausia, la virtù e diligenza del quale intendevano solamente coloro che erano dell'arte. Fu rozzo nel colorire, ma abondante molto. Tra le opere di cui sono celebrate queste: Esculapio con le figliuole, Igia, Egle e Pane, e quella figura neghittosa che chiamarono Ocno, che è un povero uomo che tesse una fune di stramba et uno asino drieto che la si mangia, non accorgendosene egli. E questi che noi insino a qui abbiamo raccontati furono di cotale arte tenuti i principali. Aggiugnerannosi alcuni altri che li secondarono appresso, non già per ordine di tempo, non si potendo rinvenire l'età loro così apunto; come Aristoclide il quale ornò il tempio del delfico Apollo, et Antifilo di cui è molto lodato un fanciullo che soffia nel fuoco tale che tutta una stanza se ne alluma, medesimamente una bottega di lana dove si veggono molte femmine in diverse maniere sollecitar ciascuna il suo lavoro, uno Tolommeo in caccia et un Satiro bellissimo con pelle di pantera indosso. Aristofane ancora è in buon nome per uno Anchelao ferito dal cignale con Astipale dolente oltramodo, et inoltre per una tavola entrovi Priamo, la Semplice Credenza, l'Inganno, Ulisse e Deifebo. Androbio ancora dipinse una Scilla, mostro marino, che tagliava l'ancore del navilio de' Persi; Artemone una Danae in mare portata da' venti et alcuni corsali i quali con istupore la rimiravano, la regina Stratonica, uno Ercole et una Deianira. Ma oltre a modo furono di lui chiare quelle che erano in Roma nelle logge di Ottavia: ciò furono uno Ercole nel monte Eta che, nella pira ardendo e lasciando in terra l'umano, era ricevuto in cielo nel divino di comun parere degli Dei, e la storia di Nettuno e d'Ercole intorno a Laomedonte. Alcidamo anco dipinse Diosippo che ne' giuochi olimpici alla lotta insieme et alle pugna aveva vinto, come era il proverbio, senza polvere. Uno Cresiloco, il quale fu discepolo d'Apelle, ritrasse Giove, e nel vero con poca reverenzia, in atto di voler partorire Bacco, lagnantesi a guisa di femmina fra le mani delle levatrici con molte delle Dee intorno, le quali dolenti e lagrimanti ministravano al parto. Uno Cleside, parendogli aver ricevuto ingiuria da Stratonica regina non essendo stato da lei accettato come pareva se li convenisse, dipinse il Diletto in forma di femmina insieme con un pescatore che si diceva essere amato dalla regina, e lasciò questa tavola in Efeso in publico, e, noleggiata una nave, con gran prestezza favorito da' venti fuggì via; la regina non volle che ella fosse quindi levata, comeché questo artefice l'avesse molto bene rassembrata in quella figura et il pescatore altresì ritratto al naturale. Nicearco dipinse Venere e Cupido fra le Grazie, et uno Ercole mesto in atto di pentirsi della pazzia. Nealce dipinse una battaglia navale nel Nilo fra i Persi e gli Egizzii, e perciò che le acque del Nilo per la grandezza di quel fiume rassembrano il mare, acciò che la cosa fusse riconosciuta, con bel trovato e grazia maravigliosa dipinse alla riva uno asinello che beeva e poco più oltre un gran cocodrillo in aguato per prenderlo. Filisco dipinse una bottega d'un dipintore con tutti i suoi ordigni et un fanciullo che soffiava nel fuoco. Teodoro un che si soffiava il naso; il medesimo dipinse Oreste che uccideva la madre et Egisto adultero, et in più tavole la guerra Troiana, la quale era in Roma nella loggia di Filippo, et una Cassandra nel tempio della Concordia. Leonzio dipinse Epicuro filosofo pensoso e Demetrio re. Taurisco uno di coloro che scagliavano in aria il disco, una Clitennestra, uno Polinice il quale si apprestava per tornare nello stato, et un Capaneo. Non si deve lasciare indietro uno Erigono macinatore di colori nella bottega di Nealce, il quale salse in tanta eccellenza di quest'arte che non solo egli fu di gran pregio, ma di lui ancora rimase discepolo quel Pausia di cui di sopra abbiamo detto che fu molto chiaro nel dipignere. Bella cosa è ancora, e degna d'essere raccontata, che molte opere ultime e non finite di cotali maestri furono più stimate e più tenute care e con maggior piacere e maraviglia riguardate che le perfettissime e l'intere, quale fu l'Iride di Aristide, i Gemelli di Nicomaco, la Medea di Timomaco e la Venere di Apelle, di cui di sopra dicemo. Queste tavole furono in grandissimo pregio e sommamente dilettarono, vedendosi in loro, per i disegni rimasi, i pensieri dello artefice; e quello che di loro mancava con un certo piacevol dispiacere più si aveva caro che il perfetto di molte belle e da' buon' maestri opere compiutamente fornite. E questi voglio che insino a qui, fra li quasi infiniti che in cotale arte fiorirono, mi basti avere raccontati, li quali per lo più o furono Greci o delle parti alla Grecia vicine. Ebbero ancora di cotale arte pregio alcune donne, le quali di loro ingegno e maestria abbellirono l'arte del ben dipignere; infra le quali Timarete, figliuola di Micone pittore, dipinse una Diana la quale in Efeso fu fra le molte e molto nobili et antiche tavole celebrata, Irena figliuola e discepola di Cratino dipinse una fanciulla nel tempio di Cerere in Attica, Alcistene uno saltatore, Aristarte, figliuola e discepola di Nearco, uno Esculapio. Marzia di Marco Varrone nella sua giovanezza adoperò il pennello e ritrasse figure, massimamente di femmine e la sua istessa dallo specchio; e, secondo si dice, niuna mano menò mai più veloce pennello e trapassò di gran lunga Sopilo e Dionisio pittori della sua età, i quali di loro arte molti luoghi empierono et adornarono. Dipinse anco una Olimpiade della quale non rimase altra memoria se non ch'ella fu maestra di Antobulo. Fu in qualche pregio anco appresso i Romani cotale arte, poscia che i Fabii onorati cittadini non sdegnarono aver sopranome il Dipintore. Tra i quali, il primo che così fu per sopranome chiamato dipinse il tempio della Salute l'anno DL dalla fondazione di Roma, la quale dipintura durò oltre all'età di molti imperadori et insino che quel tempio fu abbrusciato. Fu ancora in qualche nome Pacuvio poeta, dalla cui mano fu adorno il tempio di Ercole nella piazza del Mercato de' buoi. Costui, come si diceva, fu figliuolo d'una sorella di Ennio poeta, e fu chiara in lui cotale arte molto più per essere stata accompagnata dalla poesia. Dopo costoro non trovo io in Roma da persone nobili cotale arte essere stata esercitata, se già non ci piacesse mettere in questo numero Turpilio cavalier romano, il quale a Verona dipinse molte cose le quali molto tempo durarono. Lavorava costui con la sinistra mano, il che di niuno altro si sa essere avvenuto, di cui opera furono molto lodate alcune picciole tavolette. Aterio Labeone ancora, il quale era stato pretore et aveva tenuto il governo della provincia di Nerbona, dipinse. Ma questo studio negli ultimi tempi appresso i Romani era venuto in dispregio e riputato vile. Non voglio però lasciar di dire quello che di cotale arte giudicassero i primi maggior' cittadini di Roma. Perciò che a Q. Pedio, nipote di quel Pedio che era stato consolo et aveva trionfato e che da Giulio Cesare nel testamento era stato lasciato in parte erede con Agusto, essendo nato mutolo, fu giudicato da Messala (quel grande oratore della cui famiglia era l'avola di quel fanciullo mutolo) che si dovesse insegnare a dipignere - il che fu confermato da Agusto; il quale saliva di cotale arte in gran nome, se in breve non avesse finito i giorni suoi. Pare che l'opere di pittura cominciassero in Roma ad essere in pregio al tempo di Valerio Massimo, quando Messala il primo pose nella curia di Ostilio, dove si strigneva il Senato, una battaglia dipinta nella quale egli aveva in Cicilia vinto i Cartaginesi e Ierone re l'anno dalla fondazione di Roma 490. Fece questo medesimo poi L. Scipione, il quale consacrò nel Campidoglio una tavola dove era dipinta la vittoria che egli aveva avuto in Asia. E' si dice che il fratello Scipione Africano l'ebbe molto a male, conciofussecosaché in quella battaglia medesima il figliuol di lui fusse rimaso prigione. Giovò molto a l'essere fatto consolo a Ostilio Mancino il mettere in publico una simil tavola dove era dipinto il sito e l'assedio di Cartagine, che se lo arrecò a grande ingiuria il secondo Africano - il quale consolo l'aveva soggiogata -, perciò che Mancino stava presente mostrando al popolo, che desiderava di intenderle, cosa per cosa, e questa publica cortesia, come noi dicemo, ad ottenere il sommo magistrato li fece gran favore. Fu dipoi molti anni l'ornamento della scena di Appio Pulcro tenuto maraviglioso, il quale si dice che fu di sì bella prospettiva che le cornacchie, credendolo vero, al tetto dipinto volavano per sopra posarvisi. Ma le dipinture forestieri, per quanto io ritraggo, allora cominciarono ad essere care e tenute maravigliose quando L. Mummio, il quale per aver vinta l'Acaia, parte della Grecia, ebbe sopranome l'Acaico, consagrò al tempio di Cerere una tavola di Aristide; perciò che nel vendere la preda avendo tenuto poco conto di molte cose nobili et udendo dire che Attalo re l'aveva incantata un gran numero di denari, maravigliandosi del pregio et estimando per cagione d'esso che in quella tavola dovesse essere alcuna virtù forse a lui nascosa, volle che la vendita si stornasse, dolendosene e lamentandosene molto quel re. E questa tavola delle forestieri si crede che fusse la prima che si recasse in publico. Ma Cesare dittatore dipoi diede loro grandissima riputazione, avendo oltre a molte altre consagrato nel tempio di Venere, origine di sua famiglia, uno Aiace et una Medea, figure bellissime. Dopo lui Marco Agrippa, più tosto rozzo di simil' leggiadrie che altrimenti, comperò da quelli di Cizico di Asia due tavole, Aiace e Venere, e le mise in publico; et egli stesso con lungo e bel sermone s'ingegnò di persuadere, acciò che ciascuno ne potesse prendere diletto e che più se ne adornasse la città, che tutte cotali opere si dovessero recare a comune, il che era molto meglio che, quasi in perpetuo esilio, per i contadi e nelle ville de' privati lasciarle invecchiare e perdersi. Oltre a queste poi Cesare Agusto nella più bella et ornata parte del suo Foro pose due tavole bellissime: l'imagine della Guerra legata al carro del trionfante Alessandro, di mano di Apelle, et i Gemelli e la Vittoria. Dopo costoro, recandosi la cosa ad onore e magnificenza, furono molti i quali nei loro magnifichi templi et ampie logge et altri superbi edificii publici infinite ne consacrarono. Et andò tanto oltre la cosa et a tanto onore se la recarono, potendo ciò che volevano, i prencipi romani et i possenti cittadini, che in brieve tutta la Grecia e l'Asia et altre parti del mondo ne furono spogliate, e Roma non solo in publico, ma in privato ancora se ne rivestì e se ne adornò, durando questa sfrenata voglia molto e molte etadi e molti imperadori se ne abbellirono. E come questo avvenne nelle cose dipinte, così e molto più nelle statue di bronzo e di marmo, delle quali a Roma ne fu portato d'altronde e ne fu fatto sì gran numero ch'e' si teneva per certo che vi fusse più statue che uomini; delle arti delle quali e de' maestri più nobili di esse è tempo omai che, come abbiamo fatto de' pittori e delle pitture, così anco alcune cose ne diciamo, quanto però pare che al nostro proponimento si convenga. E però che egli pare che il ritrarre di terra sia comune a molte arti, non si potendo così bene divisare nella mente dello artefice né così ben disegnare le figure le quali si deono formare, diremo che questa arte sia madre di tutte quelle che in tutto o in parte in qualunche modo rilèvano; massimamente che noi troviamo che queste figure di terra in quei primi secoli furono in molto onore, et a Roma massimamente quando i cittadini vi erano rozzi et il comune povero, dove ebbero molte imagini di quelli Dei che essi adoravano di terracotta, e ne' sacrificii appresso di loro furono in uso i vasi di terra. E molto più si crede che piacesse alli Dei la semplicità e povertà di quei secoli che l'oro e l'argento e la pompa di coloro li quali poi vennero. Il primo che si dice aver ritratto di terra fu Dibutade Sicionio che faceva le pentole in Corinto, e ciò per opera d'una sua figliuola, la quale, essendo innamorata d'un giovane che da lei si deveva partire, si dice che a lume di lucerna con alcune linee aveva dipinta l'ombra della faccia di colui cui ella amava, drento alla quale poi il padre, essendoli piaciuto il fatto et il disegno della figliuola, di terra ne ritrasse l'imagine rilevandola alquanto dal muro; e questa figura poi asciutta, con altri suoi lavori mise nella fornace. E dicono che la fu consecrata al tempio delle Ninfe e che ella durò poi insino al tempo che Mummio consolo romano disfece Corinto. Altri dicono che in Samo isola fu primieramente trovata questa arte da uno Ideoco Reto et uno Teodoro molto innanzi a questo detto di sopra, et inoltre che Demarato padre di Tarquinio Prisco, fuggendosi da Corinto sua patria, aveva portato seco in Italia arte cotale conducendo in sua compagnia Eucirapo et Eutigrammo maestri di far terra, e che da costoro cotale arte si sparse poi per l'Italia et in Toscana fiorì molto e molto tempo. Il primo poi che ritraesse le imagini degli uomini col gesso stemperato e del cavo poi facesse le figure di cera riformandole meglio, si dice essere stato Lisistrato Sicionio fratello di Lisippo. E questi fu il primo che ritraesse dal vivo, essendosi sforzati innanzi a lui gli altri maestri di far le statue loro più belle che essi potessero. E fu questo modo di formare di terra tanto comune che niuno, per buon maestro che ei fusse, si mise a fare statue di bronzo, fondendolo, o di marmo o di altra nobile materia, levandone, che prima non ne facesse di terra i modelli. Onde si può credere che questa arte, come più semplice e molto utile, fusse molto prima che quella la quale cominciò in bronzo a ritrarre. Furono in questa maniera di figure di terracotta molto lodati Dimofilo e Gorgaso i quali parimente furono dipintori, et a Roma dell'una e dell'altra loro arte adornarono il tempio di Cerere, lasciandovi versi scritti significanti che la destra parte del tempio era opera di Dimofilo e la sinistra di Gorgaso. E Marco Varrone scrive che, innanzi a costoro, tutte opere cotali che ne' templi a Roma si vedevano erano state fatte da' Toscani e che, quando si rifece il tempio di Cerere, molte di quelle imagini greche erano state del muro da alcuni levate, i quali, rinchiudendole drento a tavolette d'asse, le portarono via. Calcostene fece anco in Atene molte imagini di terra, e da la sua bottega quel luogo - che in Atene fu poi cotanto celebrato e dove furono poste tante statue - e da cotale arte fu chiamato Ceramico. Il medesimo Marco Varrone lasciò scritto che a suo tempo in Roma fu un buon maestro di cotale arte, il quale egli molto bene conosceva et era chiamato Possonio, il quale oltre a molte opere egregie ritrasse di terra alcuni pesci sì begli e sì somiglianti che non gli aresti saputo discernere da' veri e dai vivi. Loda il medesimo Varrone molto uno amico di Lucullo, i modegli del quale si solevano vendere più cari che alcun'altra opera di qualunche artefice, e che di mano di costui fu quella bella Venere che si chiamò Genitrice, la quale innanzi che fusse interamente compiuta, avendone fretta Cesare, fu dedicata e consacrata nel Foro. Di mano di questo medesimo un modello di gesso d'un vaso grande da vino, che voleva far lavorare Ottavio cavalier romano, si vendé un talento. Loda molto Varrone il detto di Prassitele, il quale disse che questa arte di far di terra era madre di ogni altra che in marmo o in bronzo facci figure di rilievo o in quale altra si vogli materia, e che quel nobile maestro non si mise mai a fare opera alcuna cotale che prima di terra non ne facesse il modello. Dice il medesimo autore che questa arte fu molto onorata in Italia e spezialmente in Toscana. Onde Tarquinio Prisco re de' Romani chiamò un Turiano maestro molto celebrato a cui egli dètte a fare quel Giove di terracotta che si deveva adorare e consacrare nel Campidoglio, e similmente i quattro cavalli aggiogati i quali si vedevano sopra il tempio; e si credeva ancora che del medesimo maestro fusse opera quello Ercole che lungo tempo si vidde a Roma e, dalla materia di che egli era, fu chiamato "l'Ercole di terracotta". Ma perciò che questa arte, comeché da per sé la sia molto nobile et origine delle più onorate, tuttavia - però che la materia in che ella lavora è vile e l'opere d'essa possono agevolmente ricever danno e guastarsi e per lo più a fine si fa di quelle che si fondano di bronzo e si lavorano di marmo, e però che coloro che in essa si esercitarono e vi ebber nome sono anco in queste altre chiari -, lasceremo di ragionare più di lei e verremo a dire di coloro che di bronzo ritraendo furono in maggior pregio, ché volere ragionare di tutti sarebbe cosa senza fine. Furono appresso i Greci, i quali queste arti molto più che alcun'altra nazione e molto più nobilmente l'esercitarono, in pregio alcune maniere di metallo l'una dall'altra differenti, secondo la lega di quello. E quinci avenne che alcune figure d'esso si chiamarono corintie, altre delìace et altre eginetiche: non che il metallo di questa o di quella sorte in questo o in quel luogo per natura si facesse, ma per arte, mescolando il rame chi con oro, chi con argento e chi con istagno, e chi più e chi meno, le quali misture gli davano poi proprio colore e più e men pregio et inoltre il proprio nome. Ma fu in maggiore stima il metallo di Corinto o fusse in vasellamento o fusse in figure, le quali furono di tal pregio e di sì rara et eccessiva bellezza che molti grandi uomini quando andavano attorno le portavano per tutto seco; e si trova scritto che Alessandro Magno, quando era in campo, reggeva il suo padiglione con istatue di metallo di Corinto, le quali poi furono portate a Roma. Il primo che fusse chiaro in questa sorte di lavoro si dice essere stato quel Fidia ateniese cotanto celebrato, il quale, oltre a lo aver fatto nel tempio Olimpico quel Giove dello avorio sì grande e sì venerando, fece anco molte statue di bronzo; et avengaché avanti a lui quest'arte fusse stata molto in pregio et in Grecia et in Toscana et altrove, nondimeno si giudicò che egli di cotanto avanzasse ciascuno che in tale arte avesse lavorato, che tutti gli altri ne divenissero oscuri e ne perdessero il nome. Fiorì questo nobile artefice, secondo il conto de Greci, nella olimpiade ottantreesima - che batte al conto de' Romani intorno a l'anno trecentesimo dopo la fondazione di Roma -, e durò l'arte in buona riputazione dopo Fidia forse centocinquanta anni o poco più seguendo sempre molti discepoli i primi maestri, i quali in questo spazio furono quasiché senza numero. E queste due o tre etadi produssero il fiore di questa arte, benché alcuna volta poi essendo caduta, risorgesse, ma non mai con tanta nobiltà né con tanto favore; l'eccellenzia della quale mi sforzerò porre in queste carte, secondo che io trovo da altri esserne stato scritto. E prima si dice che furono fatte sette Amazzone, le quali si consecrarono in quel tanto celebrato tempio di Diana Efesia, a concorrenza da nobilissimi artefici, benché non tutte in un medesimo tempo; la bellezza e la perfezzione delle quali non si potendo così bene da ciascuno estimare, essendo ciascuna d'esse degna molto di essere commendata, giudicarono quella dover essere la migliore e la più bella che i più degli artefici, che alcuna ne avessero fatta, commendassero più dopo la sua propria. E così toccò il primo vanto a quella di Policleto, il secondo a quella di Fidia, il terzo a quella di Cresilla, e così di mano in mano secondo questo ordine l'altre ebbero la propria loda; e questo giudizio fu riputato verissimo et a questo poi stette ciascuno, avendole per tali. Fidia, oltre a quel Giove d'avorio che noi dicemo - la quale opera fu di tanto eccessiva bellezza che niuno si trovò che con ella ardisse di gareggiare - et oltre a una Minerva pur d'avorio che si guardava in Atene nel tempio di quella Dea et oltre a quella Amaz[z]one, fece anco di bronzo una Minerva di bellissima forma la quale dalla bellezza fu la Bella chiamata, et un'altra ancora la quale da Paolo Emilio fu al tempio della Fortuna consacrata, e due altre figure greche con il mantello le quali Q. Catulo pose nel medesimo tempio. Fece di più una figura di statura di colosso, et egli medesimo cominciò e mostrò, come si dice, a lavorare con lo scarpello di basso rilèvo. Venne dopo Fidia Policleto da Sicione, della cui mano fu quel morbido e delicato giovane di bronzo con la benda intorno al capo e che da quella ha il nome, il quale fu stimato e comperato cento talenti; e del medesimo anco fu quel giovinetto fiero e di corpo robusto, il quale dalla asta che ei teneva in mano, come suona la greca favella, fu Doriforo nominato. Fece ancor egli quella nobil figura la quale fu chiamata "il Regolo della arte", dalla quale gli artefici, come da legge giustissima, solevano prendere le misure delle membra e delle fattezze che essi intendevano di fare, estimando quella in tutte le parti sue perfettissima. Fece ancora uno che si stropicciava et uno ignudo che andava sopra un piè solo, e duoi fanciulletti nudi che giocavano a' dadi i quali da questo ebbero il nome, i quali poi lungo tempo si viddero a Roma nel palazzo di Tito imperadore, della quale opera non si vide mai la più compiuta. Fece medesimamente un Mercurio che si mostrava in Lisimachia et uno Ercole che era in Roma con Anteo insieme, il quale egli, in aria sostenendolo e strignendolo, uccideva; et oltre a queste molte altre, le quali, come opere di ottimo maestro, furono per tutto estimate perfettissime, onde si tiene per fermo che egli desse ultimo compimento a questa arte. Fu proprio di questo nobile artefice temperare e con tale arte sospendere le sue figure che elle sopra un piè solo tutte si reggessero, o almeno ch'e' paresse. Quasi alla medesima età fu anco celebrato infinitamente Mirone per quella bella giovenca che egli formò di bronzo, la quale fu in versi lodati molto commendata. Fece anco un cane di maravigliosa bellezza, et uno giovane che scagliava in aria il disco, et un satiro il quale pareva che stupisse al suono della sampogna, et una Minerva, et alcuni vincitori de' giuochi delfici, i quali per aver vinto a due o a tutti, pentatli o pancratisti si solevano chiamare. Fece anco quel bello Ercole che era in Roma dal Circo Massimo in casa Pompeo Magno. Fece i sepolcri del cicala e del grillo, come ne' suoi versi lasciò scritto Erina poetessa. Fece quello Apollo, il quale, avendolo involato Antonio triunviro a quelli di Efeso, fu loro da Agusto renduto, essendoli ciò in sogno stato ricordato. Fu tenuto che costui per la varietà delle maniere delle figure e per il maggior numero che egli ne fece e per le proporzioni di tutte le sue opere, [fusse] più diligente e più accorto di quei di prima; ma par bene che nel fare i corpi ponesse maggiore studio che nel ritrarre l'animo e nel dare spirito alle figure, e che ne' capegli e nelle barbe non fusse più lodato che si fusse stata l'antica rozzezza degli altri. Fu vinto da Pitagora italiano da Reggio in una figura fatta da lui e posta nel tempio di Apollo a Delfo, la quale rassembrava uno di quei campioni che alla lotta et alle pugna insiememente combattevano e che si chiamavano pancratisti. Vinselo anche Leonzio, il quale a Delfo a concorrenza pose alcune figure di giucatori olimpici. Iolpo similmente il vinse in una bella figura d'un fanciullo che teneva un libro e d'un altro che portava frutte, le quali figure ad Olimpia poi si vedevano, dove le più nobili e le più raguardevoli di tutta la Grecia si consacravano. Di questo medesimo artefice era a Siracusa un zoppo, il quale, dolendosi nello andare, pareva che a chi il mirava parimente porgesse dolore. Fece ancora uno Apollo il quale con l'arco uccideva il serpente. Questi il primo molto più artificiosamente e con maggior sottigliezza ritrasse ne' corpi le vene et i nervi et i capegli, e ne fu molto commendato. Fu un altro Pitagora da Samo, il quale primieramente si esercitò nella pittura e poi si diede a ritrarre nel bronzo, e di volto e di statura si dice che era molto simigliante a quel detto poco fa che fu da Reggio, e nipote di sorella e parimente discepolo; di mano di cui a Roma si viddero alcune imagini di Fortuna nel tempio della istessa Iddea molto belle, mezze ignude, e perciò commendate e molto volentieri vedute. Dopo costoro fiorì Lisippo, il quale lavorò un gran numero di figure e più molto che alcuno altro; il che si confermò alla morte sua, perciò che del pregio di ciascuna soleva serbarsi una moneta d'oro e quella in sicuro luogo tener guardata, e si dice che gli eredi suoi ne trovarono secentodieci, et a tal numero si tiene che arrivassero le figure da lui fatte e lavorate; la qual cosa apena par che si possa credere, ma nel vero che egli in questo ogn'altro artefice vincesse non si può dubitare. E fra le opere lodate di lui sommamente piacque quella figura la quale pose Agrippa allo entrare delle sue stufe, della quale invaghì cotanto Tiberio imperadore che, benché in molte cose solesse vincere il suo appetito e massimamente nel principio del suo imperio, in questo nondimeno non si potette tenere che, mettendovene un'altra simile, non facesse quella quindi levare et in camera sua portarla; la quale fu con tanta instanza da tutto il popolo romano nel teatro e con tanti gridi richiesta e che ella quivi si riponesse donde ella era stata levata, che Tiberio, benché molto l'avesse cara, ne volle fare il popolo romano contento ritornandola al suo luogo. Era questa imagine d'uno che si stropicciava, figura che troppo bene conveniva al luogo dove Agrippa l'aveva destinata. Fu molto celebrato questo artefice in una figura d'una femmina cantatrice ebbra e in alcuni cani e cacciatori maravigliosamente ritratti, ma molto più per un carro del Sole con quattro cavagli che egli fece a richiesta de' Rodiani. Ritrasse questo nobile artefice Alessandro Magno in molte maniere, cominciandosi da puerizia e d'età in età seguitando; una delle quali statue piacendo oltre a modo a Nerone, la fece tutta coprire d'oro, la quale poi essendone stata spogliata, fu tenuta molto più cara vedendovisi entro le ferite e le fessure dove era stato l'oro commesso. Ritrasse il medesimo anche Efestione, molto intrinseco d'Alessandro, la qual figura alcuni crederono che fusse di mano di Policleto, ma s'ingannarono, perciò che Policleto fu forse cento anni inanzi ad Alessandro. Il medesimo fece quella caccia di Alessandro la quale poi fu consacrata a Delfo nel tempio di Apollo. Fece inoltre in Atene una schiera di Satiri. Ritrasse con arte meravigliosa, rassembrandoli vivi, Alessandro Magno e tutti li amici suoi, le quale figure Metello, poi che ebbe vinta la Macedonia, fece traportare a Roma. Fece ancora carri con quattro cavagli in molte maniere. E si tiene per certo che egli arrecasse a questa arte molta perfezzione: e nei capegli, i quali ritrasse molto meglio che non avevano fatto i più antichi, e nelle teste, le quali egli fece molto minori di loro. Fece anco i corpi più assettati e più sottili di maniera che la grandezza nelle statue n'appariva più lunga, nelle quali egli osservò sempre maravigliosa proporzione partendosi dalla grossezza degli antichi; e soleva dire che innanzi a lui i maestri di cotale arte avevano fatto le figure secondo che elle erano, et egli secondo che le parevano. Fu proprio di questo artefice in tutte quante le opere sue osservare ogni sottigliezza con grandissima diligenza e grazia. Rimasero di lui alcuni figliuoli, chiari in questa arte medesima, e sopra li altri Euticrate al quale più piacque la fermezza del padre che la leggiadria, e s'ingegnò più di piacere nel grave e nel severo che nel dolce e nel piacevole dilettare, dove il padre massimamente fu celebrato. Di costui fu in gran nome l'Ercole che era a Delfo, et Alessandro cacciatore, e la battaglia de' Tespiensi, et un ritratto di Trofonio al suo oracolo. Ebbe per discepolo Tisicrate, anch'esso da Sicione, e s'aprese molto alla maniera di Lisippo, talmente che alcune figure apena si riconoscevano se le erano dell'uno o dell'altro maestro, come fu un vecchio tebano, Demetrio re, Peuceste - quello che campò in battaglia e difese Alessandro Magno. E furono questi cotali cotanto stimati et in tanto pregio tenuti che chi ha scritto di cotali cose gli loda eccessivamente; come anco un Telefane Foceo, il quale per altro non fu apena conosciuto, perciò che in Tessaglia, là dove egli era quasi sempre vivuto, l'opere sue erano state sepolte; nondimeno, per giudizio di alcuni scrittori, fu posto a paro di Policleto e di M[i]rone e di Pitagora. E molto lodata di lui una Larissa, uno Apollo et un campione vincitore a tutti i cinque giuochi. Alcuni dissero che egli non è stato in bocca de' Greci però che egli si diede a lavorare in tutto per Dario e per Xerse, re barbari, e che nei loro regni finì la vita. Prassitele ancora, avvengaché nel lavorare in marmo, come poco poi diremo, fusse tenuto maggior maestro e per ciò vi abbi avuto drento gran nome, nondimeno lavorò anche in bronzo molto eccessivamente, come ne fece fede la rapina di Proserpina fatta da lui, e l'Ebrietà, et uno Bacco et un Satiro insieme di sì maravigliosa bellezza che si chiamò il Celebrato, et alcune altre figure le quali erano a Roma nel tempio della Felicità, et una bella Venere la quale al tempo di Claudio imperadore, ardendo il tempio, si guastò, la quale era a nulla altra seconda. Fece molte altre figure lodate, et Armodio et Aristigitone che in Atene uccisero il tiranno - le quali figure avendosele Xerse di Grecia portate nel regno suo, Alessandro, poi che ebbe vinto la Persia, le rimandò graziosamente agli Ateniesi -, et inoltre uno Apollo giovinetto che con l'arco teso stava per trarre a una lucertola la quale li veniva incontro, e da quello atto ebbe nome la figura che si chiamò "Lucertola-uccidente". Vidonsi di lui parimente due bellissime figure, l'una rassembrante una onesta mogliera che piangeva e l'altra una femmina di mondo che rideva (e' si crede che questa fusse quella Frine famosissima meretrice), e nel volto di quella onesta donna pareva l'amore che ella portava al marito et in quello della disonesta femmina l'ingordo prezzo che ella chiedeva agli amanti. Pare che anco fusse ritratta la cortesia di questo artefice in quel carro de' quattro cavagli che fece Calamide cotanto celebrato, perciò che questo artefice in formar cavagli non trovò mai pare, ma nel fare le figure umane non fu tanto felice. Egli adunque a l'opera di Calamide la quale era imperfetta diede il compimento, aggiugnendovi il guidator de' cavagli di arte maravigliosa. Fu anco molto chiaro in questa arte uno Ificle, il quale, oltre ad altre figure, fece a nome degli Ateniesi una bella liona con questa occasione. Era in Atene una femmina chiamata Liona molto familiare di Aristogitone e di Armodio per conto di amore, i quali in Atene uccidendo il tiranno vollono tornare il popolo nella sua libertà. Costei, essendo consapevole della congiura, fu presa, e con crudelissimi tormenti insino a morte lacerata non confessò mai cosa alcuna di cotal congiura; laonde volendo poi li Ateniesi pur fare onore a questa femmina, per non far ciò a una meretrice imposono a questo artefice che ritraesse una liona, et acciò che in questa figura si riconoscesse il fatto et il valor di lei, vollono che esso la facesse senza lingua. Briaxi fece uno Apolline, uno Seleuco re, et un Batto che adorava, et una Iunone, i quali si videro a Roma nel tempio della Concordia. Cresila ritrasse uno ferito a morte, nella qual figura si conosceva quanto ancora restasse di vita, e quel Pericle ateniese il quale per sopranome fu chiamato il Celeste. Cefisodoro fece nel porto degli Ateniesi una Minerva maravigliosa et uno altare nel tempio di Giove nel medesimo porto. Canaco fece uno Apollo che si chiamò Filesio, et un cervio con tanta arte sopra i piedi sospeso che sotto, or da una or da un'altra parte, si poteva tirare un sottilissimo filo. Fece medesimamente alcuni fanciulli a cavallo, come se al palio a tutta briglia corressero. Uno Cherea ritrasse Alessandro Magno e Filippo suo padre, e Clesila uno armato di asta et una Amazzone ferita. Un Demetrio ritrasse Lisimaca la quale era stata sacerdotessa di Minerva ben 64 anni, et una Minerva che si chiamò Musica, però che i draghi i quali erano ritratti nello scudo di quella Dea erano talmente fatti che, quando erano percossi, al suono della cetera rispondeano; il medesimo un Sarmone a cavallo, il quale aveva scritto dell'arte del cavalcare. Un Dedalo fra questi fu molto celebrato, il quale fece duoi fanciulletti i quali l'un l'altro nel bagno stropicciavano. Di Eufranore fu un Paride, il quale fu molto lodato, ché in un subietto medesimo si riconosceva il giudice delle Dee, l'amante di Elena e l'ucciditore d'Achille. Del medesimo era a Roma una Minerva di sotto al Campidoglio che si chiamava Catuleiana però che ve la aveva consagrata Luttazio Catulo, et una figura della Buona Ventura la quale con l'una delle mani teneva una tazza e con l'altra spighe di grano e di papaveri. Il medesimo fece una Latona che di poco pareva che fusse uscita di parto, e si vedeva a Roma nel tempio della Concordia, la quale teneva in braccio i suoi figliolini Apollo e Diana. Fece inoltre due figure in forma di colosso, l'una era la Virtute e l'altra Clito di maravigliosa bellezza, et inoltre una donna che adorava et al sacrificio ministrava, e Filippo et Alessandro sopra carri di cavagli in guisa di trionfanti. Butieo discepolo di Mirone fece un fanciullo che soffiava nel fuoco, sì bello che sarebbe stato degno del maestro, e gli Argonauti, et una aquila, la quale, avendo rapito Ganimede, nel portava in aria sì destramente che ella con gli artigli non gli noceva in parte alcuna. Ritrasse anco Autolico, quel bel giovane vincitore alla lotta a nome di cui Zenofonte scrisse il libro del suo Simposio, e quel Giove tonante che fra le statue di Campidoglio fu tenuto maraviglioso, uno Apollo medesimamente con la diadema. I' ò trapassato qui molti, de' quali, essendosi perdute l'opere, i nomi apena si ritruovano; pure ne aggiugneremo alcuni degli infiniti, fra i quali fu uno Nicerato di cui mano a Roma nel tempio della Concordia si vedeva Esculapio et Igia sua figliuola; di Firomaco una quadriga la quale era guidata da Alcibiade ritratto. Policle fece uno Ermafrodito di singolar bellezza e leggiadria. Stipace da Cipri fece un ministro di Pericle il quale sopra lo altare accendeva il fuoco per arrostirne il sagrificio. Sillanione ritrasse uno Apollodoro anch'egli della arte, ma così fastidioso e così apunto che, non si contentando mai di sua arte (e v'era pur drento eccellente), bene spesso rompeva e guastava le figure sue belle e finite, onde trasse il sopranome che si chiamò Apollodoro il Bizzarro; e lo ritrasse tanto bene che tu aresti detto che non fusse imagine di uomo, ma la bizzarria ritratta al naturale. Fece anco uno Achille molto celebrato, et un maestro di esercitare i giovani alla lotta et altri giuochi anticamente cotanto celebrati et aggraditi. Fece medesimamente una Amazzone la quale dalla bellezza delle gambe fu detta la Bellegambe, e per questa sua eccellenzia Nerone, dovunche egli andava, se la faceva portar dietro. Costui medesimo fece di sottil lavoro un fanciulletto molto poi tenuto caro da quel Bruto il quale morì nella battaglia di Tessaglia, e ne acquistò nome che poi sempre si chiamò "l'Amore di Bruto". Teodoro, quegli che a Samo fece un laberinto, ritrasse anco se medesimo di bronzo, figura a cui non mancava altro che il somigliare, nel resto per ogni tempo celebratissima e di finissimo lavoro, la quale nella man destra teneva una lima e con tre dita della sinistra reggeva un carro con quattro cavagli di opera sì minuta che una mosca sola similmente di bronzo con l'ale sue copriva il carro, la guida et i cavagli; e questa statua si vide lungo tempo a Preneste. Fu ancora eccellente in questa arte uno Xenocrate, discepolo chi dice di Tisicrate e chi di Euticrate, il quale vinse l'uno di eccellenza di arte e l'altro di numero di figure, e della arte sua scrisse volumi. Molti furono ancora che in tavole di bronzo di rilèvo scolpirono le battaglie di Eumene e di Attalo re di Pergamo contro a' Franciosi i quali passarono in Asia. Tra costoro furono Firomaco, Stratonico et Antigono, il quale scrisse anco della arte sua. Boeto, benché fusse maggior maestro nel lavoro di scarpello in argento, nondimeno di sua arte si vide di bronzo un fanciullo che strangolava una oca. E la maggiore e la miglior parte di cotali opere furono a Roma da Vespasiano imperadore consagrate al tempio della Pace, e molto maggior numero dalla forza di Nerone tolte di molti luoghi dove elle erano tenute care, et in quel suo gran palazzo che egli si fabricò in Roma portate et in varii luoghi per ornamento di quello disposte. Furono, oltre ai molti raccontati di sopra, altri infiniti i quali ebbero qualche nome di questa arte, li quali raccontare al presente credo che sarebbe opera perduta, bastando al nostro proponimento aver fatto memoria di coloro che ebbero nell'arte maggior pregio. Furono oltre a questi alcuni altri chiari per ritrarre con iscarpello in rame, argento et oro calici et altro vasellamento da sacrificii e da credenze, come un Lesbocle, un Prodoro, un Pitodico e Polignoto, che furono anco pittori molto chiari, e Stratonico Scinno, il quale dissono che fu discepolo di Crizia. Fu questa arte di far di bronzo anticamente molto in uso in Italia e lo mostrava quello Ercole il quale dicono essere stato da Evandro consagrato a Roma nella piazza del Mercato de' buoi, il quale si chiamava l'Ercole trionfale però che, quando alcuno cittadino romano entrava in Roma trionfando, si adornava anco l'Er[cole] di abito trionfale. Medesimamente lo dimostrava quel Iano che fu consagrato da Numa Pompilio, il tempio del quale o aperto o chiuso dava segno di guerra o di pace, le dita del quale erano talmente figurate che elle significavano trecentosessantacinque, mostrando che era Dio dello anno e della età. Mostravalo ancora molte altre statue pur di bronzo di maniera toscana sparse per tutta quanta l'Italia. E pare che sia cosa degna di maraviglia che, essendo questa arte tanto antica in Italia, i Romani di quel tempo amassero più gli Iddei che essi adoravano ritratti di terra o di legno intagliati che di bronzo, avendone l'arte, perciò che insino al tempo nel quale fu da' Romani vinta l'Asia cotali imagini di Dei ancora si adoravano. Ma poi quella semplicità e povertà romana, così nelle publiche come nelle private cose, divenne ricca e pomposa e si mutò in tutto il costume, e fu cosa da non lo creder agevolmente in quanto poco di tempo ella crebbe, che al tempo che M. Scauro fu edile e che egli fece per le feste publiche lo apparato della piazza (che era ufizio di quel magistrato) si videro, in uno teatro solo fatto per quella festa et in una scena, tremila statue di bronzo provedutevi et accattatevi, come allora era usanza di fare, di più luoghi. Mummio, quel che vinse la Grecia, ne empié Roma, molte ve ne portò Lucullo et in poco tempo ne fu spogliata l'Asia e la Grecia in gran parte; e con tutto ciò fu chi lasciò scritto che a Rodi in questo tempo n'erano ancora tre migliaia, né minor numero in Atene né minore ad Olimpia e molto maggiore a Delfo - delle quali le più nobili e li maestri d'esse noi di sopra abbiamo in qualche parte raccontato. Né solo le imagini degli Dei e le figure degli uomini rassembrarono, ma ancora d'altri animali, infra i quali nel Campidoglio nel tempio più secreto di Giunone si vedeva un cane ferito che si leccava la piaga, di sì eccessiva simiglianza che apena pare che si possa credere; la bellezza della qual figura quanto i Romani stimassero si può giudicare dal luogo dove essi la guardavano, e molto più che coloro ai quali si aspettava la guardia del tempio con ciò che drento vi era, non si stimando somma alcuna di denari pari alla perdita di quella figura se ella fusse stata involata, la devevano guardare a pena della testa. Né bastò alli nobili artefici imitare e rassembrare le cose secondo che elle sono da natura, ma fecero ancora statue altissime e bellissime molto sopra il naturale, come fu l'Apollo in Campidoglio alto trenta braccia, la qual figura Lucullo fece portare a Roma delle terre d'oltre il mar Maggiore, e qual fu quella di Giove nel Campo Marzio la quale Claudio Agusto vi consagrò che, dalla vicinanza del teatro di Pompeo, fu chiamato il Giove Pompeiano; e quale ne fu anco una in Taranto fattavi da Lisippo alta ben trenta braccia, la quale con la grandezza sua da Fabio Massimo si difese allora quando la seconda volta prese quella città, non si potendo quindi se non con gran fatica levare, ché, come ne portò l'Ercole che era in Campidoglio, così anco ne arebbe seco quella a Roma portata. Ma tutte l'altre maraviglie di così fatte cose avanzò di gran lunga quel colosso che a' Rodiani in onor del Sole, in cui guardia era quella isola, fece Carete da Lindo discepolo di Lisippo, il quale dicono che era alto 70 braccia; la qual mole, dopo 56 anni che ella era stata piantata, fu da un grandissimo tremuoto abattuta et in terra distesa e tutta rotta; la quale si mirava poi con infinito stupore de' riguardanti, ché il dito maggiore del piede apena che un ben giusto uomo avesse potuto abracciare, e le altre dita a proporzione della figura fatte erano maggiori che le statue comunali. Vedevansi per le membra vote caverne grandissime e sassi entrovi di smisurato peso, con li quali quello artefice aveva opera così grande contrapesata e ferma. Dicesi che ben 12 anni faticò intorno a questa opera e che 300 talenti entro vi si spesero, i quali si trassero dello apparecchio dello oste che vi aveva lasciato Demetrio re quando lungo tempo vi tenne l'assedio. Né solo questa figura sì grande era in Rodi, ma cento ancora maggiori delle comunali di maravigliosa bellezza, di ciascuna delle quali ogni città e luogo si sarebbe potuto onorare et abellire. Né fu solamente proprio de' Greci il far colossi, ma se ne vide alcuno anco in Italia, come fu quello che si vedeva nel monte Palatino alla libreria di Agusto d'opera e di maniera toscana, dal capo al piè di cinquanta cubiti, maraviglioso non si sa se più per l'opere o per la temperatura e lega del metallo, ché l'una cosa e l'altra aveva molto rara. Spurio Carvilio fece fare anco anticamente un Giove delle celate e pettorali e stinieri et altre armadure di rame d'i Sanniti, quando combattendo con essi scongiuratisi a morte li vinse, e lo consagrò al Campidoglio; la qual figura era tanto alta che di molti luoghi di Roma si poteva vedere, e si dice che della limatura di questa statua fece anco ritrarre l'imagine sua, la quale era posta a piè di quella grande. Davano anco nel medesimo Campidoglio maraviglia due teste grandissime, l'una fatta da quel Carete medesimo di cui sopra dicemo e l'altra da un Decio a pruova, nella quale Decio rimase tanto da meno che l'opera sua, posta al paragone di quell'altra, pareva opera di artefice meno che ragionevole. Ma di tutte cotali statue fu molto maggiore una che al tempo di Nerone fece in Francia Zenodoto, la quale era alta 400 piedi, in forma di Mercurio, intorno alla quale egli aveva faticato dieci anni; ma però che egli era per questo in gran nome, mandò a chiamarlo a Roma Nerone e per lui si mise a fare una imagine in forma di colosso 120 piedi alta (la quale, morto Nerone, fu dedicata al Sole, non consentendo i Romani che di lui, per le sue sceleratezze, rimanesse memoria tanto onorata), nel qual tempo si conobbe che l'arte del ben legare e ben temperare il metallo era perduta, essendo disposto Nerone a non perdonare a somma alcuna di denari, purché quella statua avesse d'ogni parte la sua perfezzione: nella quale quanto fu maggiore il magistero, tanto più a rispetto degli antichi vi parve il difetto nel metallo. Ora lo avere degli infiniti che ritrassero in bronzo i più nobili insino a qui raccontato, vogliamo che al presente ci baste; passeremo a quelli i quali in marmo scolpirono, e di questi anche sceglieremo le cime, secondo che noi abbiamo trovato scritto nelle memorie degli antichi, seguendo l'ordine incominciato. Dicesi adunque che i primi maestri di questa arte di cui ci sia memoria furono Dipeno e Scilo, i quali nacquero nella isola di Creti al tempo che i Persi regnarono, che secondo il conto degli anni de' Greci viene a essere intorno alla olimpiade cinquantesima, cioè dopo alla fondazione di Roma anni 137. Costoro se ne andarono in Sicione, la quale fu gran tempo madre e nutrice di tutte quante queste arti nobili e dove esse più che altrove si esercitarono; e perciò che essi erano tenuti buon' maestri, fu dato loro dal comune di quella città a fare di marmo alcune figure dei loro Dei; ma innanzi che essi le avessero compiute, per ingiurie che loro pareva ricevere da quel comune, quindi si partirono, onde a quella città sopravenne una gran fame et una gran carestia. Laonde domandando quel popolo agli Dei misericordia, fu loro dallo oracolo d'Apollo risposto che la troverrebbero ogni volta che quegli artefici fussero fatti tornare a finire le incominciate figure; la qual cosa i Sicionii con molto spendio e preghiere finalmente ottennero, e furono queste imagini: Apollo, Diana, Ercole e Minerva. Non molto dopo costoro in Chio, isola dello Arcipelago, furono medesimamente altri nobili artefici di ritrarre in marmo, uno chiamato Mala et un suo figliuolo Micciade et un nipote Antermo, i quali fiorirono al tempo di Ipponatte poeta che si sa chiaro essere stato nella olimpiade sessantesima; e se si andasse cercando l'avolo e ‘l bisavolo di costoro, si troverrebbe certo questa arte avere avuto origine con le olimpiade stesse. Fu quello Ipponatte poeta molto brutto uomo e molto contrafatto nel viso, onde questi artefici, per beffarlo, con l'arte loro lo ritrassero e per far ridere il popolo lo misero in publico; di che egli sdegnandosi, che stizzosissimo era, con i suoi versi, i quali erano molto velenosi, gli trafisse nel vivo et in maniera gli abominò ch'e' si disse che alcuni di loro per dolore della ricevuta ingiuria se stessi impiccarono. Il che non fu vero, perciò che poi per l'isole vicine fecero molte figure, et in Delo massimamente, sotto le quali scolpirono versi che dicevano che Delo fra l'isole della Grecia era in buon nome non solo per la ecc[e]llenza del vino, ma ancora per le opere dei figliuoli di Antermo scultori. Mostravano i Lasii una Diana fatta di mano di costoro, et in Chio isola si diceva esserne un'altra posta in luogo molto rilevato di un tempio, la faccia della quale a coloro che entravano nel tempio pareva severa et adirata, et a coloro che ne uscivano placata e piacevole. A Roma erano di mano di questi artefici nel tempio di Apollo Palatino alcune figure postevi e consagratevi da Agusto in luogo più alto e più raguardevole. Vedevonsene ancora in Delo molte altre et in Lebedo, e delle opere del padre loro Ambracia, Argo e Cleone, città nobili, furono molto adorne. Lavorarono solamente in marmo bianco che si cavava nelle isole di Paro, il quale, come anco scrisse Varrone, però che delle cave a lume di lucerna si traeva, fu chiamato marmo di lucerna. Ma furono poi trovati altri marmi molto più bianchi, ma forse non così fini, come è anco quel di Carrara. Avenne in quelle cave, come si dice, cosa che apena par da credere, che, fendendosi con essi i conî un masso di questo marmo, si scoperse nel mezzo una imagine d'una testa di Sileno. Come ella vi fusse entro non si sa così bene e si crede che ciò a caso avenisse. Dicono che quel Fidia di cui di sopra abbiamo detto che sì bene aveva lavorato in metallo e fatto d'avorio alcune nobilissime statue, fu anco buon maestro di ritrarre in marmo e che di sua mano fu quella bella Venere che si vedeva a Roma nella loggia di Ottavia; e che egli fu maestro di Alcmane ateniese, in questa arte molto pregiato, delle opere di cui molte gli Ateniesi ne' loro tempî consacrarono e, fra le altre, quella bellissima Venere la quale per essere stata posta fuor delle mura fu chiamata la Fuor-di-città, alla quale si diceva che Fidia aveva dato la perfezzione e, come è in proverbio, avervi posto l'ultima mano. Fu discepolo del medesimo Fidia anco Agoraclito da Paro, a lui per il fiore della età molto caro, onde molti credettero che Fidia a questo giovane donasse molte delle sue opere. Lavorarono questi duoi discepoli di Fidia a pruova ciascuno una Venere, e fu giudicato vincitore l'ateniese non già per la bellezza della opera, ma perciò che i cittadini ateniesi che ne devevano esser giudici più favorarono l'artefice lor cittadino che il forestiero; di che sdegnato Agoracrito vendé quella sua figura con patto che mai la non si dovesse portare in Atene, e la chiamò lo Sdegno; la quale fu poi posta pur nella terra Attica in un borgo che si chiamava Rannunte, la qual figura Marco Varrone usava dire che gli pareva che di bellezza avanzasse ogn'altra. Erano ancora di mano di questo medesimo Agoracrito nel tempio della Madre degli Dei, pure in Atene, alcune altre opere molto eccellenti. Ma che quel Fidia maestro di questi due fusse di tutti gli artefici cotali eccellentissimo, niuno fu, che io creda, che ne dubitasse giamai, né solo per quelle nobilissime figure grande di Giove d'avorio né per quella Minerva d'Atene pur d'avorio e d'oro, di 26 cubiti d'altezza, ma non meno per le picciole e per le minime, delle quali in quella Minerva n'era un numero infinito, le quali non si debbono lasciare che le non si contino. Dicono adunche che nello scudo della Dea e nella parte che rilèva era scolpita la battaglia che già anticamente fecero gli Ateniesi con le Amazzone, e nel cavo di drento i Giganti che combattevano con li Dei, e nelle pianelle il conflitto de' Centauri e de' Lapiti, e ciò con tanta maestria e sottigliezza che non vi rimaneva parte alcuna che non fusse maravigliosamente lavorata. Nella base erano ritratti XII Dei ch'e' pareva che conoscessero la vittoria, di bellezza eccessiva. Similmente faceva maraviglia il drago ritratto nello scudo e sotto l'asta una sfinge di bronzo. Abbiamo voluto aggiugnere anco questo di quel nobile artefice non mai abastanza lodato, acciò si sappi l'eccellenza di lui non solo nelle grandi opere, ma nelle minori ancora e nelle minime et in ogni sorta di rilèvo essere stata singolare. Fu dipoi Prassitele, il quale nelle figure di marmo, comeché egli fusse anco eccellente nel metallo, fu maggiore di se stesso. Molte delle sue opere in Atene si vedevano nel Ceramico. Ma fra le molte eccellenti, e non solo di Prassitele ma di qualunche altro maestro singolare in tutto il mondo, è più chiara e più famosa quella Venere la qual sol per vedere e non per altra cagione alcuna molti di lontano paese navigavano a Gnido. Fece questo artefice due figure di Venere l'una ignuda e l'altra vestita, e le vendé un medesimo pregio; la ignuda comperarono quei di Gnido, la quale fu tenuta di gran lunga migliore e la quale Nicomede re volle da loro comperare offerendo di pagare tutto il debito che aveva il lor comune, che era grandissimo; i quali elessero innanzi di privarsi d'ogni altra sustanza e rimaner mendichi che di spogliarsi di così bello ornamento: e fecero saviamente, perciò che quanto aveva di buono quel luogo, che per altro non era in pregio, lo aveva da questa bella statua. La cappelletta dove ella si teneva chiusa si apriva d'ogn'intorno, talmente che la bellezza della Dea, la quale non aveva parte alcuna che non movesse a maraviglia, si poteva per tutto vedere. Dicesi che fu chi, innamorandosene, si nascose nel tempio e che l'abbracciò, e che del fatto ne rimase la macchia la quale poi lungo spazio si parve. Erano in Gnido parimente alcune altre imagini pur di marmo d'altri nobili artefici, come un Bacco di Briaxi et un altro di Scopa et una Minerva, le quali aggiugnevano infinita lode a quella bella Venere, perciò che queste altre, avvengaché di buoni maestri, non erano in quel luogo tenute di pregio alcuno. Fu del medesimo artefice quel bel Cupido il quale Tullio rimproverò a Verre nelle sue accusazioni, e quell'altro per il quale era solamente tenuta chiara la città di Tespia in Grecia, il quale fu poi a Roma grande ornamento della scuola di Ottavia. Di mano del medesimo si vedeva un altro Cupido in Pario, colonia della Propontide, al quale fu fatto la medesima ingiuria che a quella Venere da Gnido, perciò che uno Alchida rodiano se ne innamorò e dello amore vi lasciò il segnale. A Roma erano molte delle opere di questo Prassitele: una Flora, uno Triptolemo et una Cerere nel giardino di Servilio, e nel Campidoglio una figura della Buona Ventura et alcune Baccanti, et al sepolcro di Pollione uno Sileno, uno Apollo e Nettunno. Rimase di lui un figliuolo chiamato Cefisodoro, erede del patrimonio e dell'arte insieme, del quale è lodato a maraviglia a Pergamo di Asia una figura, le dita della quale parevano più veracemente a carne che a marmo impresse. Di costui mano erano anco in Roma una Latona al tempio d'Apollo Palatino, una Venere al sepolcro di Asinio Pollione, e drento alla loggia di Ottavia al tempio di Giunone uno Esculapio et una Diana. Scopa ancora al medesimo tempo fu di chiarissimo nome e con i detti di sopra contese del primo onore. Fece egli una Venere et un Cupido et un Fetonte, i quali con gran divozione e cirimonie erano a Samotracia adorati, e lo Apollo detto il Palatino dal luogo dove egli fu consacrato, et una Vesta che sedeva nel giardino di Servilio e due ministre della Dea apressoli, alle quali due altre simiglianti pur del medesimo maestro si vedevano fra le cose di Pollione; di cui ancora erano molto tenute in pregio nel tempio di Gneo Domizio nel Circo Flamminio un Nettunno, una Tetide con Achille e le sue ninfe a sedere sopra i delfini et altri mostri marini e tritoni e Forco et un coro d'altre ninfe, tutte opere di sua mano; le quali sole, quando non avesse mai fatto altro in sua vita, sarieno bastate ad onorarlo. Fuor di queste molte altre se ne vedevano in Roma le quali si sapeva certo che erano opere di questo artefice, e ciò era un Marte a sedere, un colosso del medesimo al tempio di Bruto Callaico dal Circo, che si vedeva da chi andava inverso la porta Labicana, e nel medesimo luogo una Venere tutta ignuda che si tiene che avanzi di bellezza quella famosa da Gnido di Prassitele. Ma in Roma, per il numero grande che da ogni parte ve n'era stato portato, apena che le si riconoscessero, ché, oltre alle narrate, ve ne aveva molte altre bellissime. I nomi degli artefici che le avevano fatte s'erano in tutto perduti, sì come advenne di quella Venere che Vespasiano imperadore consagrò al tempio della Pace, la quale per la sua bellezza era degna d'essere di qualunche de' più nominati artefici opera. Il simigliante advenne nel tempio di Apollo di una Niobe con i figliuoli la quale dallo arco di Apollo era ferita e pareva che ne morisse, la quale non bene si sapeva se l'era opera di Prassitele opure di Scopa. Similmente si dubitava di uno Iano, il quale aveva condotto di Egitto Agusto e nel suo tempio l'aveva consagrato. La medesima dubitanza rimaneva di quel Cupido che aveva in mano l'arme di Giove che si vedeva nella curia di Ottavia, il quale si teneva per certo che fusse imagine nella più fiorita età d'Alcibiade ateniese, il quale fu di sì rara bellezza che tutti gl'altri giovani della sua età trapassò. Parimente non si sa di cui fussero mano i quattro Satiri che erano nella scuola di Ottavia, de' quali uno mostrava a Venere Bacco bambino et un altro Libera pure bambina, il terzo voleva racchetarlo, che piangeva, il quarto con una tazza gli porgeva da bere: le due ninfe, le quali con un velo pareva che lo volessero coprire. Nel medesimo dubbio si rimasero Olimpo, Pane, Chirone et Achille, non se ne sapendo il maestro vero. Ebbe Scopa al suo tempo molti concorrenti: Briaxi, Timoteo e Leocare, de' quali insieme ci convien ragionare, perciò che insieme lavorarono di scarpello a quel famoso sepolcro di Mausolo re di Caria il quale fu tenuto una delle sette maraviglie del mondo, fattoli dopo la morte d'esso da Artemisia sua moglie, il quale si dice essere morto l'anno secondo della centesima olimpiade, cioè l'anno 329 dalla fondazione di Roma. La forma di questo sipolcro si dice essere stata cotale: dalla parte di tramontana e di mezzogiorno si allargava per ciascuno lato piedi 63, da levante e ponente fu alquanto più stretto; l'altezza sua era cubiti et intorno intorno era retto da 16 colonne. La parte da levante lavoro Scopa, quella da tramontana Briaxi, a mezzodì Timoteo, da occidente Leocare; et innanzi che l'opera fusse compiuta morì Artemisia, e nondimeno quei maestri condussero il lavoro a fine, il quale da ogni parte fu bellissimo, né si seppe così bene chi di loro fosse più da essere commendato, essendo stata l'opera di ciascuno perfettissima. A questi quattro si aggiunse un quinto maestro, il quale sopra il sepolcro fece una piramide di pari altezza di quello e sopra vi pose un carro con quattro cavagli d'opera singularissima. Serbavasi in Roma di mano di quel Timoteo una Diana nel tempio di Apollo Palatino, alla qual figura, che venne senza, rifece la testa Evandro Aulanio. Fu ancora di gran maraviglia uno Ercole di Menestrato, et una Ecate nel tempio di Diana di Efeso di marmo talmente rilucente che i sacerdoti del tempio solevano avvertire chi vi entrava che non mirassero troppo fiso quella imagine, però che dal troppo splendore la vista resterebbe abbagliata. Furono anco nello antiporto di Atene poste le tre Grazie le quali non si dèveno ad alcuna delle altre figure posporre, le quali si dice che furono opere di un Socrate, non quel pittore ma un altro, benché alcuno voglia ch'e' sia il medesimo che il dipintore. Di quel Mirone ancora, il qual nel far di metallo fu cotanto celebrato, si vedeva a Smirna una vecchia ebbra, di marmo, fra le altre buone figure molto celebrata. Asinio Pollione, come nelle altre cose fu molto sollecito et isquisito, così anco si ingegnò che le cose da lui fatte a lunga memoria fussero singolari e ragguardevoli, e le adornò di molte figure d'ottimi artefici, ragunandole da ciascuna parte; le quali chi volesse ad una ad una raccontare arebbe troppo che scrivere. Ma infra le molto lodate vi si vedevano alcuni Centauri i quali via se ne portavano ninfe, e le Muse e Bacco e Giove e l'Oceano e Zete et Amfione, e molte altre opere di eccellentissimi maestri. Medesimamente nella loggia di Ottavia, sorella di Agusto, era uno Apollo di mano di Flisco rodiano, et una Latona et una Diana e le nove Muse et un altro Apollo ignudo, l'uno de' quali - quello che sonava la lira - si credeva essere opera di Timarchide. Dentro alla loggia di Ottavia nel tempio di Iunone era la Iunone stessa di mano di Dionisio e di Policle; un'altra Venere che era nel medesimo luogo, di Filisco; l'altre figure che vi si vedevano erano opera di Prassitele e molte altre nobili statue di ottimi maestri. Fu, per il luogo dove ella era posta, stimata molto bella opera un carro con quattro cavagli et Apollo e Diana sopravi, d'una pietra sola, i quali Augusto in onore di Ottavio padre suo aveva consagrato nel colle Palatino sopra l'arco in un tempio adorno di molte colonne: e questo si diceva essere stato lavoro di Lisia. Nel giardino di Servilio furono molto lodati uno Apollo di quel Calamide chiaro maestro, et un Callistene - quel che scrisse la storia di Alessandro Magno - di mano di Amfistrato. Di molti altri, che si conosceva per l'opere che erano stati nobili maestri, è smarrito il nome per il gran numero delle opere e degli artefici - che infinite et infiniti furono -, come anco mancò poco che non si perderono coloro sì buoni maestri li quali formarono quel Laocoonte di marmo il quale fu a Roma nel palazzo di Tito imperadore: opera da aguagliarla a qualsivoglia celebrata di pittura o di scoltura o d'altro, dove d'un medesimo marmo sono ritratti il padre e duoi figliuoli con duoi serpenti, i quali gli legono et in molti modi gli stringono, come prima gli aveva dipinti Vergilio poeta; i quali oggi in Roma si veggono anco saldi in Belvedere et il ritratto d'essi in Firenze nel cortile della casa de' Medici; il qual lavoro insieme fecero Agesandro, Polidoro et Atenodoro rodiani, degni per questo lavoro solo d'essere, a paro degli altri celebrati, lodati. Furono i palazzi degli imperadori romani di figure molto buone adornati di Cratero, Pitodoro, Polidette, Ermolao e d'un altro Pitodoro e d'Artemone, molto buoni maestri; et il Panteo di Agrippa, oggi chiamato la Ritonda, fornirono di molte belle figure Diogene ateniese e Carsatide. Sopra le colonne del qual tempio et in luogo molto alto nel frontespizio, fra le molte erano celebrate molte opere di costoro, ma per l'altezza dove elle furono poste la bontà e bellezza d'esse non si poteva così bene discernere. In questo tempio era uno Ercole al quale i Cartaginesi anticamente sacrificavano umane vittime. Innanzi che si entrasse nel tempio si vedevano da buoni maestri scolpiti tutti quegli che furono della schiatta di Agrippa. Fu grandemente celebrato da Varrone uno Archesilao, del quale lasciò scritto che aveva veduta una liona con alcuni Amori intorno i quali con essa scherzavano, de' quali alcuni la tenevano legata, altri con un corno li volevano dar bere et altri la calzavano, e tutti di un marmo medesimo. Non si vuole lasciare indietro uno Sauro et uno Batraco, artefici così chiamati i quali fecero i templi compresi nella loggia di Ottavia, e furono di Grecia e spartani e, come si diceva, molto ricchi; e vi spesero assai del loro con intenzione di mettervi il lor nome, il quale aviso venendo lor fallito, con nuovo modo lo significarono, scolpendo ne' capitegli delle colonne ranocchi e lucertole, ché questo viene a dire Batraco e quel Sauro. Oltre a questi nominati di sopra, furono alcuni che studiarono in fare nella arte cose piccolissime, infra i quali Mirmecide, uno scultore così chiamato, fece un carro con quattro cavagli e con la guida d'essi sì piccioli che una mosca con l'ale gli arebbe potuto coprire; e Callicrate, da cui le gambe delle scolpite formiche e l'altre membra apena che si potessero vedere. Potrebbesi, oltre a questi detti, ancora aggiugnere molti altri i quali ebbero alcuno nome, ma, però ch'e' ci pare averne raccolti tanti che bastino, finiremo in questi, massimamente essendo stato nostro intendimento raccontare i più onorati e famosi e l'opere d'essi più perfette. E questi, come di sopra de' pittori si disse, furono per lo più Greci, ché, avengaché i Toscani a' tempi molto antichi fussero di qualche nome in queste arti e di loro maestria si vedessero molte statue, nondimeno a giudizio di ciascuno i Greci ne ebbero il vanto per la bontà e virtù delle loro figure e per il numero grande d'esse e degli artefici, i quali studiosamente si sforzarono non solamente per il premio che essi ne traevano, che era grandissimo (contendendo infra di loro i comuni e le città con molta ambizione di avere apresso di loro le più belle e le migliori opere che tali arti potessero fare), ma molto più per gloria di tal nome; per cagione della quale essi talmente faticarono, che, dopo una infinità di secoli e dopo molte rovine della Grecia, ancora ne dura il nome, avengaché l'opere d'essi o sieno in tutto perdute o più non si riconoschino. Perciò che le pitture, come cosa fatta in materia la quale agevolmente o da sé si corrompe o d'altronde riceve ogni ingiuria, sono in tutto disfatte, e le statue di bronzo o da chi non conosce la bontà d'esse o da chi non le stima hanno mutato forma, et i marmi oltre ad essere, per le rovine che avvengano - mutandosi per il girar del cielo ogni cosa -, la maggior parte rotti e sepolti, sono anche, ad arbitrio di chi più può, stati sovente qua e là traportati et i nomi degli artefici che erano in essi perdutisi e mutatisi, come advenne ad infiniti i quali la potenza romana d'altronde in lungo tempo portò a Roma; onde, partendosi poi Gostantino imperadore e traportando l'imperio in Grecia, molte delle più belle statue seguendo l'imperio e lasciando Italia, in Grecia là donde elle erano venute se ne tornarono. E Gostantino stesso e li altri imperadori poscia delle isole e delle cittadi della Grecia scelsero le migliori e, come si truova scritto, il seggio imperiale ne adornarono; dove poi al tempo di Zenone imperadore, per un grandissimo incendio il quale disfece la più bella e la miglior parte di Gostantinopoli, molte ne furono guaste, infra le quali fu quella bella Venere da Gnido di Prassitele di cui di sopra facemo menzione, e quel maraviglioso Giove Olimpico fatto per mano di Fidia, e molte altre nobili di marmo e di bronzo. E fra li altri danni ve ne fu uno grandissimo, che vi abruciò una libreria nella quale si dice che eran ragunati 120 migliaia di volumi, e questo fu intorno agli anni della salute 466; e poi un'altra fiata, forse 70 anni dopo, della medesima città arse un'altra parte più nobile, dove medesimamente s'era ridotto il fiore di così nobili arti. E così, a Roma da' barbari et in Gostantinopoli dal fuoco, fu spento il più bello splendore che avessero cotali arti, laonde in quelle che sono rimase e che si veggiono in Roma et altrove riconoscervi il maestro credo che sia cosa malagevolissima, essendo stato in arbitrio di ciascuno porvi il nome di questo o di quello, avvenga ché per la bellezza d'alcune scampate e per la virtù loro si possa estimare che elle sieno state opere d'alcuni de' sopra da noi nominati. L'origine di far le statue si conosce appresso i Greci primieramente esser nata dalla religione, ché le prime imagini che di bronzo o di marmo si facessero furono fatte a simiglianza degli Dei, e quali li uomini gli adoravano e secondo che pensavano che essi fossero. Dagli Dei si scese agli uomini da li quali i comuni e le province estimavano aver ricevuto alcuno benifizio straordinario; e si dice che in Atene, la quale fu città civilissima et umanissima, il primo onore di questa sorte fu dato ad Armodio et Aristogitone, i quali avevano voluto, con l'uccidere il tiranno, liberare la patria dalla servitù. Ma ciò potette esser vero in Atene, perciò che molto prima a coloro i quali ne' giuochi sacri di Grecia e massimamente negli olimpici erano publicamente banditi vincitori, in quel luogo si facevano le statue. Questa sorte di onore, del quale i Greci furono liberalissimi, trapassò a Roma - e forse, come io mi credo, ve la recarono i Toscani lor vicini e parte di loro accettati nel numero de' cittadini -, perciò che si vedevano a Roma anticamente le statue dei primi re romani nel Campidoglio, et a quello Azzio Navio, il quale per conservazione degli augurii tagliò col rasoio la pietra, vi fu posto anche la statua. Ebbevela anco quel Ermodoro, savio da Efeso, il quale a quei diece cittadini romani che compilavano le leggi le greche leggi interpretava, e quello Orazio Coclite il quale solo sopra il ponte aveva l'impeto de' Toscani sostenuto. Vedevansene inoltre molte altre antiche poste dal popolo o dal senato ai lor cittadini e massimamente a coloro i quali, essendo imbasciadori del loro comune, erano stati da' nimici uccisi Era anco molto antica in Roma la statua di Pitagora e d'Alcibiade; l'uno riputato sapientissimo e l'altro fortissimo. Né solo fu fatto questo onore di statue agli uomini da' Romani, ma ancora ad alcuna donna, però che a Caia Suffecia vergine vestale fu diliberato che si facesse una statua, perciò che, come in alcuna cronaca de' Romani era scritto, ella al popolo romano aveva fatto dono del campo vicino al fiume. Questo medesimo onore fu fatto a Coclia, e forse maggiore perciò che costei fu ritratta a cavallo, che s'era fuggita del campo del re Porsena, il quale era venuto con l'oste contro a' Romani. Molti oltre a questi se ne potrebbero contare, i quali per alcuno benefizio raro fatto al comune loro meritarono la statua. E molto prima a Roma fu questo onore di statue di bronzo o di marmo dato agli uomini che in cotal materia li Dei si ritraessero, contentandosi quegli antichi di avere le imagini dei loro Dei rozze di legno intagliato e di terracotta; e la prima imagine di bronzo che agli Dei in Roma si facesse, si dice essere stata di Cerere, la quale si trasse dello avere di quello Spurio Melio che nella carestia, col vendere a minor pregio il suo grano, s'ingegnava di allettare il popolo e di procacciarsi la signoria della patria, e che per questo conto fu ucciso. Avevano le greche statue e le romane differenza infra di loro assai chiara, ché le greche per lo più erano, secondo l'usanza delle palestre, ignude, dove i giovani alla lotta et ad altri giuochi ignudi si esercitavano, ché in quelli ponevano il sommo onore; le romane si facevano vestite o d'armadura o di toga, abito spezialmente romano, il quale onore, come noi dicemo poco fa, dava primieramente il comune; poi, cominciando l'ambizione a crescere, fu dato anco da' privati e da' comuni forestieri a questo et a quel cittadino o per benefizio ricevuto o per averlo amico, e massimamente lo facevano gli umili e bassi amici inverso i più potenti e maggiori; et andò tanto oltre la cosa, che in brieve spazio le piazze, i templi e le logge ne furono tutte ripiene. E non solo fiorirono queste arti nel tempo che i Greci in mare et in terra molto poterono appresso a quella nazione, ma poi, molti secoli dopo che ebbero perduto l'imperio, al tempo degli imperadori romani alcune volte risorsero, ché in Roma si vede ancora l'arco di Settimio ornato di molte belle figure e molte altre opere egregie, delle quali non si sanno i maestri, essendosene perduta la memoria. Ma non estimo già che queste cotali sieno da aguagliare a quelle che, nei tempi che i Greci cotanto ci studiarono, furono fatte; apresso i quali furono inoltre alcuni i quali ebbero gran nome nel lavorare in argento di scarpello, l'opere dei quali e per la materia, la quale agevolmente muta forma e che l'uso in poco spazio logora, non si condussero molto oltre; e nondimeno ne sono chiari alcuni artefici, de' nomi de' quali brievemente faremo menzione per finire una volta quello che Voi avete voluto che io facci. Nella quale arte fra i primi fu molto celebrato Mentore, il quale lavorava di sottilissimo lavoro vasi d'argento e tazze da bere et ogni altra sorte di vasellamento che si adoperava ne' sacrificii, et erano tenuti questi lavori, e ne' templi e nelle case de' nobili uomini, molto cari. Dopo costui nella medesima arte ebbero gran nome uno Acragante, uno Boeto et un altro chiamato Mys, dei quali nella isola di Rodi si vedevano per i templi in vasi sacri molto belle opere, e di quel Boeto spezialmente Centauri e Bacche fatti con lo scarpello in idrie et in altri vasi molto begli, e di quello ultimo un Cupido et uno Sileno di maravigliosa bellezza. Dopo costoro fu molto chiaro il nome d'uno Antipatro, il quale sopra una tazza fece un Satiro gravato dal sonno, tanto proprio che ben si poteva dire che più presto ve lo avesse su posto che ve lo avesse con lo scarpello scolpito. Furono anco di qualche nome uno Taurisco da Cizico, uno Aristone, uno Onico et uno Ecateo et alcuni altri, e poi, a' tempi più oltre di Pompeo il Grande, un Prassitele et un Ledo da Efeso, il quale ritraeva di minutissimo lavoro uomini armati e battaglie molto bene. Fu anco in gran nome un Zopiro, il quale aveva in due tazze ritratto il giudizio di Oreste nello Ariopago. Fu anco chiaro un Pitea, il quale aveva commesso in un vaso due figurette l'una di Ulisse e l'altra di Diomede quando in Troia insieme furarono la statua di Pallade. Ma questi lavori erano di tanta sottigliezza che in breve il bello d'essi se ne consumava, et erano poi in pregio più per il nome degli artefici che li avevano fatti che per virtù o per eccellenza che si scorgesse nelle figure, delle quali poi apena se ne potesse ritrarre l'esemplo. Ma questa e l'altre arti nobili delle quali noi abbiamo di sopra, più che non pensavamo di dover fare, ragionato, l'età presente e due o tre altre di sopra hanno talmente tornato in luce che io non credo ch'e' ci bisogni desiderare l'antiche per prenderne diletto et admirarle, però che sono stati tali i maestri di queste arti, e per lo più i toscani e spezialmente i nostri fiorentini, che hanno mostro l'ingegno e l'industria loro essere di poco vinta da quegli antichi cotanto celebrati in arti cotali. Li quali da Voi, Messer Giorgio, sono nelle lor Vite in modo e sì sottilmente descritti e lodati che io non trapasserò più oltre con lo scrivere, godendo infinitamente che, oltre agli altri beni di Toscana, che sono infiniti - li quali la virtù e la buona mente del duca Cosimo de' Medici nostro Signore ci fa parere molto migliori -, abbiamo anco l'ornamento di così nobili arti, delle quali non solo la Toscana, ma tutta l'Europa se ne abbellisce, vedendosi quasi in ogni parte l'opere de' toscani artefici e de' loro discepoli risplendere; e ciò debbiamo sperare molto più nel tempo avenire, poiché non solo i nobili maestri per l'opere loro pregiare, ma anco per le penne de' nobili scrittori si veggiono commendare, e molto più per il favore et aiuto che continovamente lor dànno i nostri illustrissimi Prencipi e Signori, valendosi, con grande utile et onore d'essi artefici, dell'opere loro in adornare et abbellire la patria, et in publico ancora la loro Accademia favorendo e sollevando, e ciò massimamente per opera Vostra; di che tutti, se grati e buoni uomini vogliono essere, Ve ne debbono onorare et infinitamente ringraziare. Che Dio Vi guardi. Di casa, alli VIII di settembre 1567. Vostro GIOVAMBATISTA ADRIANI.

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