Proemio alle Vite del 1500 *Cinquecento*

PROEMIO DELLA TERZA PARTE DELLE VITE

Veramente grande augumento fecero alle arti, nella architettura, pittura e scultura, quelli eccellenti maestri che noi abbiamo descritti sin qui nella Seconda Parte di queste Vite, aggiugnendo alle cose de' primi regola, ordine, misura, disegno e maniera, se non in tutto perfettamente, tanto almanco vicino al vero che i terzi, di chi noi ragioneremo da qui avanti, poterono mediante quel lume sollevarsi e condursi a la somma perfezzione, dove abbiam le cose moderne di maggior pregio e più celebrate. Ma perché più chiaro ancor si conosca la qualità del miglioramento che ci hanno fatto i predetti artefici, non sarà certo fuori di proposito dichiarare in poche parole i cinque aggiunti che io nominai, e discorrer succintamente donde sia nato quel vero buono, che, superato il secolo antico, fa il moderno sì glorioso. Fu adunque la regola nella architettura il modo del misurare delle anticaglie, osservando le piante degli edificii antichi nelle opere moderne. L'ordine fu il dividere l'un genere da l'altro, sì che toccasse ad ogni corpo le membra sue, e non si cambiassero più tra loro il dorico, lo ionico, il corintio et il toscano; e la misura fu universale, sì nella architettura come nella scultura, fare i corpi delle figure retti, diritti, e con le membra organizzati parimente; et il simile nella pittura. Il disegno fu lo imitare il più bello della natura in tutte le figure, così scolpite come dipinte: la qual parte viene da lo avere la mano e l'ingegno che raporti tutto quello che vede l'occhio in sul piano, o disegni o in su fogli o tavola o altro piano giustissimo et apunto; e così di rilievo nella scultura. La maniera venne poi la più bella da l'avere messo in uso il frequente ritrarre le cose più belle; e da quel più bello, o mani o teste o corpi o gambe, agiugnerle insieme, e fare una figura di tutte quelle bellezze che più si poteva, e metterla in uso in ogni opera per tutte le figure, che per questo se dice ella essere bella maniera. Queste cose non l'aveva fatte Giotto né que' primi artefici, se bene eglino avevano scoperto i principii di tutte queste difficultà, e toccatele in superficie, come nel disegno, più vero che e' non era prima e più simile alla natura, e così l'unione de' colori et i componimenti delle figure nelle storie, e molte altre cose de le quali abastanza s'è ragionato. Ma se ben i secondi augumentarono grandemente a queste arti tutte le cose dette di sopra, elle non erano però tanto perfette che elle finissino di agiugnere a l'intero della perfezzione, mancandoci ancora nella regola una licenzia, che, non essendo di regola, fusse ordinata nella regola e potesse stare senza fare confusione o guastare l'ordine; il quale aveva di bisogno di una invenzione copiosa di tutte le cose e d'una certa bellezza continuata in ogni minima cosa, che mostrasse tutto quel[l']ordine con più ornamento. Nelle misure mancava uno retto giudizio, che senza che le figure fussino misurate, avessero in quelle grandezze ch'elle eran fatte una grazia che eccedesse la misura. Nel disegno non v'erano gli estremi del fine suo, perché, se bene e' facevano un braccio tondo et una gamba diritta, non era ricerca con muscoli con quella facilità graziosa e dolce che apparisse fra ‘l vedi e non vedi, come fanno la carne e le cose vive; ma elle erano crude e scorticate, che faceva difficultà agli occhi e durezza nella maniera, alla quale mancava una leg[g]iadria di fare svelte e graziose tutte le figure, e massime le femmine et i putti con le membra naturali come agli uomini, ma ricoperte di quelle grassezze e carnosità che non siano goffe come li naturali, ma artefiziate dal disegno e dal giudizio. Vi mancavano ancora la copia de' belli abiti, la varietà di tante bizzarrie, la vaghezza de' colori, la universalità ne' casamenti, e la lontananza e varietà ne' paesi. E avvegnaché molti di loro cominciassino, come Andrea Verrocchio, Antonio del Pollaiuolo e molti altri più moderni, a cercare di fare le loro figure più studiate e che ci apparisse dentro maggior disegno, con quella imitazione più simile e più apunto alle cose naturali, nondimeno e' non v'era il tutto, ancora che ci fussi una sicurtà più certa ch'eglino andavano inverso il buono, e ch'elle fussino però approvate secondo l'opere degli antichi (come si vide quando il Verrocchio rifece le gambe e le braccia di marmo al Marsia di casa Medici in Firenze), mancando loro pure una fine et una estrema perfezzione ne' piedi, ancora che il tutto delle membra sia accordato con l'antico et abbia una certa corrispondenzia giusta nelle misure; ché s'eglino avessino avuto quelle minuzie dei fini che sono la perfezzione et il fiore dell'arte, arebbono avuto ancora una gagliardezza risoluta nell'opere loro, e ne sarebbe conseguito la leggiadria et una pulitezza e somma grazia che non ebbono, ancora che vi sia lo stento della diligenzia, che son quelli che dànno gli stremi dell'arte nelle belle figure o di rilievo o dipinte. Quella fine e quel certo che, che ci mancava, non lo potevan mettere così presto in atto, avvengaché lo studio insecchisce la maniera, quando egli è preso per terminare i fini in quel modo. Bene lo trovaron poi dopo loro gli altri, nel veder cavar fuora di terra certe anticaglie citate da Plinio de le più famose: il Lacoonte, l'Ercole et il Torso grosso di Belvedere, così la Venere, la Cleopatra, lo Apollo, et infinite altre, le quali nella lor dolcezza e nelle lor asprezze, con termini carnosi e cavati da le maggior' bellezze del vivo, con certi atti che non in tutto si storcono ma si vanno in certe parti movendo, si mostrano con una graziosissima grazia, e furono cagione di levar via una certa maniera secca e cruda e tagliente, che per lo soverchio studio avevano lasciata in questa arte Pietro della Francesca, Lazaro Vasari, Alesso Baldovinetti, Andrea dal Castagno, Pesello, Ercole Ferrarese, Giovan Bellini, Cosimo Rosselli, l'Abate di San Clemente, Domenico del Ghirlandaio, Sandro Botticello, Andrea Mantegna, Filippo e Luca Signorello; i quali, per sforzarsi, cercavano fare l'impossibile dell'arte con le fatiche, e massime negli scórti e nelle vedute spiacevoli, che, sì come erano a loro dure a condurle, così erano aspre e difficili agli occhi di chi le guardava; et ancora che la maggior parte fussino ben disegnate e senza errori, vi mancava pure uno spirito di prontezza, che non ci si vede mai, et una dolcezza ne' colori unita, che la cominciò ad usare nelle cose sue il Francia Bolognese e Pietro Perugino; et i popoli nel vederla corsero come matti a questa bellezza nuova e più viva, parendo loro assolutamente che e' non si potesse già mai far meglio. Ma lo errore di costoro dimostrarono poi chiaramente le opere di Lionardo da Vinci, il quale dando principio a quella terza maniera che noi vogliamo chiamare la moderna, oltra la gagliardezza e bravezza del disegno, et oltra il contraffare sottilissimamente tutte le minuzie della natura così apunto come elle sono, con buona regola, migliore ordine, retta misura, disegno perfetto e grazia divina, abbondantissimo di copie e profondissimo di arte, dette veramente alle sue figure il moto et il fiato. Seguitò dopo lui, ancora che alquanto lontano, Giorgione da Castelfranco, il quale sfumò le sue pitture e dette una terribil movenzia a certe cose, come è una storia nella Scuola di San Marco a Venezia, dove è un tempo torbido che tuona, e trema il dipinto e le figure si muovono e si spiccano da la tavola per una certa oscurità di ombre bene intese. Né meno di costui dette alle sue pitture forza, rilievo, dolcezza e grazia ne' colori fra' Bartolomeo di San Marco: ma più di tutti il graziosissimo Raffaello da Urbino, il quale studiando le fatiche de' maestri vecchi e quelle de' moderni, prese da tutti il meglio, e fattone raccolta, arricchì l'arte della pittura di quella intera perfezzione che ebbero anticamente le figure di Apelle e di Zeusi, e più, se si potessi dire o mostrare l'opere di quelli a questo paragone. Laonde la natura restò vinta dai suoi colori; e l'invenzione era in lui sì facile e propria quanto può giudicare chi vede le storie sue, le quali sono simili alli scritti, mostrandoci in quelle i siti simili e gli edificii, così come nelle genti nostrali e strane le cere e gli abiti, secondo che egli ha voluto; oltra il dono della grazia delle teste, giovani, vecchi e femmine, riservando alle modeste la modestia, alle lascive la lascivia, et ai putti ora i vizii negli occhi et ora i giuochi nelle attitudini; e così i suoi panni, piegati né troppo semplici né intrigati, ma con una guisa che paion veri. Seguì in questa maniera, ma più dolce di colorito e non tanta gagliarda, Andrea del Sarto, il qual si può dire che fusse raro, perché l'opere sue son senza errori. Né si può esprimere le leggiadrissime vivacità vive che fece nelle opere sue Antonio da Correggio, sfilando i suoi capelli con un modo, non di quella maniera fine che facevano gli innanzi a lui, ch'era difficile, tagliente e secca, ma d'una piumosità morbidi, che si scorgevano le fila nella facilità del farli, che parevano d'oro e più belli che i vivi, i quali restano vinti dai suoi coloriti. Il simile fece Francesco Parmigiano suo creato, il quale in molte parti, di grazia e di ornamenti e di bella maniera, lo avanzò; come si vede in molte pitture sue, le quali ridano nel viso, e degli occhi veggono vivacissimamente, scorgendosi il batter de' polsi, come più piacque al suo pennello. Ma chi considererà l'opere delle facciate di Polidoro e di Maturino, vedrà le figure far que' gesti che l'impossibile non può fare, e stupirà come e' si possa non ragionare con la lingua, ch'è facile, ma esprimere col pennello le terribilissime invenzioni messe da loro in opera con tanta pratica e destrezza, rappresentando i fatti de' Romani come e' furono propriamente. E quanti ce ne sono stati che hanno dato vita alle loro figure coi colori, ne' morti (come il Rosso, fra' Sebastiano, Giulio Romano, Perin del Vaga)? perché de' vivi, che per se medesimo son notissimi, non accade qui ragionare. Ma quello che fra i morti e ‘ vivi porta la palma, e trascende e ricuopre tutti, è il divino Michelagnolo Buonarroti, il qual non solo tien il principato di una di queste arti, ma di tutte tre insieme. Costui supera e vince non solamente tutti costoro che hanno quasi che vinto già la natura, ma quelli stessi famosissimi antichi che sì lodatamente fuor d'ogni dubbio la superano, et unico giustamente si trionfa di quegli, di questi e di lei, non imaginandosi appena quella cosa alcuna sì strana e tanto difficile che egli con la virtù del divinissimo ingegno suo, mediante la industria, il disegno, l'arte, il giudizio e la grazia, di gran lunga non la trapassi: e non solo nella pittura e ne' colori, sotto il qual genere si comprendono tutte le forme e tutti i corpi retti e non retti, palpabili et impalpabili, visibili e non visibili, ma nella estrema rotonditade ancora de' corpi, e con la punta del suo scarpello. E de le fatiche di così bella e fruttifera pianta son distesi già tanti rami e sì onorati, che oltra lo aver pieno il mondo in sì disusata foggia de' più saporiti frutti che siano, hanno ancora dato l'ultimo termine a queste tre nobilissime arti con tanta e sì maravigliosa perfezzione, che ben si può dire e sicuramente le sue statue, in qualsivoglia parte di quelle, esser più belle assai che le antiche, conoscendosi, nel mettere a paragone teste, mani, braccia e piedi formati da l'uno e da l'altro, rimanere in quelle di costui un certo fondamento più saldo, una grazia più interamente graziosa et una molto più assoluta perfezzione, condotta con una certa difficultà, sì facile nella sua maniera che egli è impossibile mai veder meglio. Il che medesimamente per consequenzia si può credere le sue pitture; le quali, se per adventura ci fussero di quelle famosissime greche o romane da poterle a fronte a fronte paragonare, tanto resterebbono in maggior pregio e più onorate, quanto più appariscono le sue sculture superiori a tutte le antiche. Ma se tanto sono da noi ammirati que' famosissimi che, provocati con sì eccessivi premii e con tanta felicità, diedero vita alle opere loro, quanto doviamo noi maggiormente celebrare e mettere in cielo questi rarissimi ingegni, che non solo senza premii, ma in una povertà miserabile fanno frutti sì preziosi? Credasi et affermisi adunque che, se in questo nostro secolo fusse la giusta remunerazione, si farebbono senza dubbio cose più grandi e molto migliori che non fecero mai gli antichi. Ma lo avere a combattere più con la fame che con la fama tien sotterrati i miseri ingegni, né gli lascia (colpa e vergogna di chi sollevare gli potrebbe e non se ne cura) farsi conoscere. E tanto basti a questo proposito, essendo tempo di oramai tornare a le Vite, trattando distintamente di tutti quegli che hanno fatto opere celebrate in questa terza maniera; il principio della quale fu Lionardo da Vinci, dal quale appresso cominceremo.
Il fine del Proemio.

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