Apparato delle nozze di Francesco dei Medici e Giovanna d'Austria

DESCRIZIONE DELLA PORTA AL PRATO

Diremo adunque, con quella maggior distinzione e brevità che dall'ampiezza della materia ne sarà concesso, che intenzione in tutti questi ornamenti fu di rappresentare con tante pitture e scolture, quasi che vive fussero, tutte quelle cirimonie et affetti e pompe che per il ricevimento e per le nozze di Principessa sì grande pareva che convenevoli esser dovessero, poeticamente et ingegnosamente formandone un corpo in tal guisa proporzionato, che con giudizio e grazia i disegnati effetti operasse. E però primieramente alla Porta che al Prato si chiama, onde Sua Altezza nella città introdursi doveva, con mole veramente eroica e che ben dimostrava l'antica Roma nell'amata sua figliuola Fiorenza risurgere, d'architettura ionica si fabbricò un grandissimo et ornatissimo e molto maestrevolmente composto antiporto, che eccedendo di buono spazio l'altezza delle mura, che ivi eminentissime sono, non pure agl'entranti nella città, ma lontano ancora alquante miglia dava di sé meravigliosa e superbissima vista. Et era questo dedicato a Fiorenza, la quale in mez[z]o a quasi due sue amate compagne, la Fedeltà e l'Affezione (quale ella sempre verso i suoi Signori si è dimostra), sotto forma d'una giovane e bellissima e ridente e tutta fiorita donna, nel principale e più degno luogo e più alla Porta vicino era stata dicevolmente collocata, quasi che ricevere et introdurre et accompagnare la novella sua Signora volesse, avendo, per dimostrazione de' figliuoli suoi che per arte militare fra l'altre illustre renduta l'hanno, quasi ministro e compagno seco menato Marte, lor duce e maestro et in un certo modo primo di lei padre, poi che sotto i suoi auspicii, e da uomini marziali e che da Marte eran discesi, fu fatta la sua prima fondazione; la cui statua da man destra, nella parte più a lei lontana, con la spada in mano, quasi in servizio di questa sua novella signora adoperar la volesse, tutto minaccioso si scorgeva; avendo in una molto bella e molto gran tela, che di chiaro e scuro sotto a' piedi dipinta gli stava, molto a bianchissimo marmo - sì come tutte l'altre opere che in questi ornamenti furono simigliante, ancor egli quasi condotto seco ad accompagnar la sua Fiorenza parte di quegl'uomini della invittissima Legion Marzia, tanto al primo et al secondo Cesare accetta, primi di lei fondatori, e parte di quelli che, di lei poi nati, avevano la sua disciplina gloriosamente seguitato. E di questi molti del suo tempio (benché oggi per la religion cristiana a San Giovanni dedicato sia) si vedevano tutti lieti uscire, avendo nelle più lontane parti collocato quelli che sol per valor di corpo pareva che nome avuto avessero; nella parte di mezzo gl'altri poi che col consiglio e con l'industria, come commessarii o proveditori (alla veneziana chiamandogli), erano stati famosi; e nella parte dinanzi e più agl'occhi vicina, come di tutti più degni, ne' più degni luoghi avendo i capitani degl'eserciti posti e quegli che col valor del corpo e dell'animo insieme avevano chiaro grido e fama immortale acquistatosi: fra ‘ quali il primo et il più degno forse si scorgeva, come molt'altri a cavallo, il glorioso signor Giovanni de' Medici dal natural ritratto, padre degnissimo del gran Cosimo, che noi onoriamo per ottimo e valorosissimo Duca, maestro singolare dell'italiana militar disciplina; e con lui Filippo Spano, terror della turchesca barbarie, e messer Farinata degl'Uberti, magnanimo conservatore della sua patria Fiorenza. Eravi ancora messer Buonaguisa della Pressa, quegli che, capo della fortissima gioventù fiorentina, meritando a Damiata la prima e gloriosa corona murale, s'acquistò tanto nome; e l'ammiraglio Federigo Folchi, cavalier di Rodi, che co' duoi figliuoli ed otto nipoti suoi fece contro a' Saracini tante prodezze. Eravi messer Nanni Strozzi, messer Manno Donati, e Meo Altoviti e Bernardo Ubaldini, detto della Carda, padre di Federigo duca d'Urbino, capitano eccellentissimo de' tempi nostri. Eravi ancora il gran contestabile messer Niccola Acciaiuoli, quegli che si può dire che conservasse alla regina Giovanna et al re Luigi suoi signori il travagliato Regno di Napoli, e che ivi et in Sicilia s'adoperò sempre con tanta fedeltà e valore. Eravi un altro Giovanni de' Medici e Giovanni Bisdomini, illustri molto nelle guerre co' Visconti, e lo sfortunato ma valoroso Francesco Ferrucci; e de' più antichi v'era messer Forese Adimari, messer Corso Donati, messer Veri de' Cerchi, messer Bindaccio da Ricasoli e messer Luca da Panzano. Fra i commessarii poi, non meno pur da natural ritratti, vi si scorgeva Gino Capponi, con Neri suo figliuolo e con Piero suo pronepote, quegli che, tanto animosamente stracciando gl'insolenti capitoli di Carlo Ottavo re di Francia, fece con suo immortale onore (come ben disse quell'arguto poeta) nobilmente sentire la voce d'un Cappon fra tanti Galli. Eravi Bernardetto de' Medici, Luca di Maso degl'Albizi, Tommaso di messer Guido, detti oggi del Palagio, Piero Vettori, nelle guerre con gl'Aragonesi notissimo, et il tanto e meritamente celebrato Antonio Giacomini, con messer Antonio Ridolfi e con molt'altri, di questo e degl'altri ordini, che lungo sarebbe, et i quali tutti pareva che lietissimi si mostrassero d'avere a tanta altez[z]a la lor patria condotta, augurandole per la venuta della novella Signora accrescimento, felicità e grandezza; il che ottimamente dichiaravano i quattro versi che nell'architrave di sopra si vedevano scritti:

HANC PEPERERE SUO PATRIAM QUI SANGUINE NOBIS
ASPICE MAGNANIMOS HEROAS: NUNC ET OVANTES
ET LAETI INCEDANT, FELICEM TERQUE QUATERQUE
CERTATIMQUE VOCENT, TALI SUB PRINCIPE, FLORAM.

Né minore allegrez[z]a si scorgeva nella statua bellissima d'una delle nove Muse, che dirimpetto e per componimento di quella di Marte posta era; e non minore nelle figure degl'uomini scienziati che nella tela sotto i suoi piedi dipinta, della medesima grandezza e per componimento similmente dell'oppostale de' marziali, si vedeva: per la quale si volse mostrare che, sì come gl'uomini militari, così i letterati, di cui ell'ebbe sempre gran copia e di non punto minor grido (poi che, per concessione di ciascuno, le lettere ivi a risurgere incominciarono), erono da Fiorenza sotto la Musa lor guidatrice stati ancora essi condotti ad onorare e ricevere la nobile Sposa; la qual Musa con donnesco, onesto e gentil abito, e con un libro nella destra et un flauto nella sinistra mano, pareva che con un certo affetto amorevole volesse invitare i riguardanti ad applicar gl'animi alla vera virtù. E sotto la costei tela (pur sempre, come tutte l'altre, di chiaro e scuro), si vedeva dipinto un grande e ricco tempio di Minerva, la cui statua, coronata di bianca oliva e con lo scudo (come è costume) del Gorgone, fuor d'esso posta era; innanzi al quale e dai lati, entro ad un ricinto di balaustri, fatto quasi per passeggiare, si vedeva una grande schiera di gravissimi uomini, i quali, benché tutti lieti e festanti, ritenevano nondimeno nella sembianza un certo che di venerabile. Erano questi, ancor essi al natural ritratti, nella teologia, e per santità il chiarissimo frate Antonino arcivescovo di Fiorenza, a cui un Angeletto serbava la vescovil mitria; e con lui si vedeva il prima frate, e poi cardinale, Giovanni Domenici, e con loro don Ambrogio generale di Camaldoli, e messer Ruberto de' Bardi, maestro Luigi Marsili, maestro Lionardo Dati et altri molti. Sì come da altra parte, e questi erano i filosofi, si vedeva il platonico messer Marsilio Ficino, messer Francesco Cattani da Diacceto, messer Francesco Verini il vecchio e messer Donato Acciaiuoli; e per le leggi vi era, col grande Accursio, Francesco suo figliuolo, messer Lorenzo Ridolfi, messer Dino Rossoni di Mugello e messer Forese da Rabatta. Avevanvi i medici anch'essi i lor ritratti, fra ‘ quali maestro Taddeo, Dino e Tommaso del Garbo, con maestro Torrigian Valori e maestro Niccolò Falcucci, avevano i luoghi primi. Non restarono i matematici sì che anch'essi dipinti non vi fussero; e di questi, oltre all'antico Guido Bonatto, vi si vedeva maestro Paolo del Poz[z]o et il molto acuto et ingegnoso e nobile Leonbatista Alberti, e con essi Antonio Manetti e Lorenzo della Golpaia, quello per man di cui abbiamo quel primo meraviglioso oriuolo de' pianeti, che oggi, con tanto stupor di quella età, si vede nella guardaroba di questo eccellentissimo Duca. Eravi ancora nelle navigazioni il peritissimo e fortunatissimo Amerigo Vespucci, poi che sì gran parte del mondo, per essere stata da lui ritrovata, ritiene per lui il nome d'Ameriga. Di varia poi e molto gentil dottrina vi era messer Agnolo Poliziano, a cui quanto la latina e la toscana favella da lui cominciate a risurgere debbino, credo che al mondo sia assai bastevolmente noto. Eran con lui Pietro Crinito, Giannozzo Manetti, Francesco Pucci, Bartolommeo Fonzio, Alessandro de' Paz[z]i e messer Marcello Vergilio Adriani, padre dell'ingegnosissimo e dottissimo messer Giovan Batista, detto oggi il Marcellino, che vive e che con tanto onore legge publicamente in questo fiorentino Studio, e che novellamente, di commessione di Lor Eccellenze illustrissime, scrive le Fiorentine Istorie; e vi era messer Cristofano Landini, messer Coluccio Salutati e ser Brunetto Latini, il maestro di Dante. Né vi mancarono alcuni poeti che latinamente avevano scritto, come Claudiano, e fra ‘ più moderni Carlo Marsuppini e Zanobi Strada. Degl'istorici poi si vedeva messer Francesco Guicciardini, Niccolò Machiavelli, messer Lionardo Bruni, messer Poggio, Matteo Palmieri, e di quei primi Giovanni e Matteo Villani e l'antichissimo Ricordano Malespini. Avevano tutti o la maggior parte di questi, a soddisfazione de' riguardanti, quasi che a caso posti vi fussero, nelle carte o nelle coperte de' libri che in man tenevano, ciascuno il suo nome o dell'opere sue più famose notato; et i quali tutti, sì come i militari, per dimostrare quel che ivi a fare venuti fussero, i quattro versi, che come a quelli nell'architrave dipinti erano, chiaramente lo facevano manifesto, dicendo:

ARTIBUS EGREGIIS LATIAE GRAIAEQUE MINERVAE
FLORENTES SEMPER QUIS NON MIRETUR HETRUSCOS?
SED MAGIS HOC ILLOS AEVO FLORERE NECESSE EST
ET COSMO GENITORE ET COSMI PROLE FAVENTE.

A canto poi alla statua di Marte et alquanto più a quella di Fiorenza vicina (e qui è da notare come con arte singolare e giudizio fusse ogni minima cosa distribuita), perciò che volendo con Fiorenza accompagnare, quasi diremo, sei deità, della potenzia delle quali ella poteva molto ben gloriarsi, le due fino ad ora di Marte e della Musa descritte, perché altre città potevano per avventura non men di lei attribuirsele come manco sue proprie, le ha anche meno dell'altre vicine a lei collocate, essendosi all'ampio ricetto, e quasi andito che le quattro che seguiranno alla porta facevano, servito di queste due narrate come per ali o per testate, che, al suo principio poste, l'una verso il castello era rivolta e l'altra verso l'Arno; ma quest'altre due, che principio del ricetto facevano, perciò che con poche altre cittadi gli saranno comuni, andò anche alquanto più approssimandogliele: sì come le due ultime, perché sono al tutto a lei propriissime e con nessuna altra l'accomuna, o per meglio dire, che nessun'altra può con lei in esse agguagliarsi (e sia detto con pace di qualche altra nazion toscana, la quale, quando arà un Dante, un Petrarca et un Boccacccio da proporre, potrà per avventura venire in disputa), gliele messe prossimissime e più che tutte l'altre vicine. Or ritornando, dico che a canto alla statua di Marte, non men dell'altre bella e ragguardevole, era stata posta una Cerere, la dea della coltivazione e de' campi: la qual cosa, quanto utile e di quanto onor degna sia per una ben ordinata città, ne fu da Roma anticamente insegnato, che aveva nelle tribù rusticane descritta tutta la sua nobiltà, come testimonia oltre a molt'altri Catone, chiamandola il nerbo di quella potentissima Rep[ublica], e come non meno afferma Plinio, quando dice i campi essere stati lavorati per le mani degli imperadori, e potersi credere che la terra si rallegrasse d'essere arata col vomere laureato e da trionfante bifolco. Era questa (come è costume) coronata di spighe di varie sorti, avendo nella destra mano una falce e nella sinistra un maz[z]o delle spighe medesime. Or quanto in questa parte gloriare Fiorenza si possa, chiariscasi, chi in dubbio ne stesse, mirando il suo ornatissimo e coltivatissimo contado, dal quale (lasciamo stare la innumerabile quantità de' superbissimi et agiatissimi palazzi che per esso sparsi si veggano), nondimanco egl'è tale che Fiorenza, quantunque fra le più belle città di che si abbia notizia ottenga per avventura la palma, resta da lui di gran lunga vinta e superata: talché meritamente può attribuirsele il titolo di giardino dell'Europa, oltre alla fertilità, la quale, benché per lo più montuoso e non molto largo sia, nulla di meno la diligenzia che vi si usa è tale, che non pur largamente pasce il suo grandissimo popolo e l'infinita moltitudine de' forestieri che vi concorrono, ma bene spesso cortesemente ne soviene i vicini et i lontani paesi. Sotto la tela ritornando, che nel medesimo modo e della medesima grandezza sotto la di costei statua medesimamente si vedeva, aveva l'eccellente pittore figurato un bellissimo paesetto ornato d'infiniti e diversi alberi, nella parte più lontana di cui si vedeva un antico e molto adorno tempietto a Cerere dedicato, in cui, perciò che aperto e su colonnati sospeso era, si vedevano molti che religiosamente sagrificavano. In altra banda poi Ninfe cacciatrici per alquanta più soletaria parte si vedevano stare intorno ad una chiarissima et ombrosa fontana, mirando quasi con meraviglia et offerendo alla novella Sposa di que' piaceri e diletti che nel loro essercizio si pigliano, e de' quali per avventura la Toscana non è a verun'altra parte d'Italia inferiore; et in altra con molti contadini, di diversi animali salvatichi e dimestichi carichi, si vedevano anche molte villanelle belle e giovani, in mille graziose benché rusticane guise adorne, venire anch'esse (tessendo fiorite ghirlande e diversi pomi portando) a vedere et onorar la lor Signora; et i versi, che come nell'altre sopra questa erano, con gran gloria della Toscana, da Vergilio cavati, dicevano:

HANC OLIM VETERES VITAM COLUERE SABINI,
HANC REMUS ET FRATER: SIC FORTIS HETRURIA CREVIT.
SCILICET ET RERUM FACTA EST PULCHERRIMA FLORA,
URBS ANTIQUA, POTENS ARMIS ATQUE UBERE GLEBAE.

Vedevasi poi dirimpetto alla statua della descritta Cerere quella dell'Industria, e non parlo di quell'industria semplicemente che circa la mercanzia si vede da molti in molti luoghi usare, ma d'una certa particolare eccellenza et ingegnosa vertù che hanno i fiorentini uomini alle cose ove metter si vogliono; per lo che molti, e quel giudizioso poeta massimamente ben pare che a ragione il titolo d'Industri gl'attribuisse. Di quanto giovamento sia stata questa cotale industria a Fiorenza, e quanto conto da lei ne sia sempre stato fatto, si vede dall'averne formato il suo corpo e dall'aver voluto che non potesse esser fatto di lei cittadino chi sotto il titolo di qualche arte non fusse ridotto, conoscendo per lei a grandezza e potenza non piccola esser pervenuta. Ora, questa fu figurata una femmina d'abito tutto disciolto e snello, tenente uno scettro, nella cui cima era una mano con un occhio nel mezzo della palma e con due alette ove con lo scettro si congiugneva, a simiglianza in un certo modo del caduceo di Mercurio; e nella tela, che come l'altre sotto le stava, si vedeva un grandissimo et ornatissimo portico o foro, molto simigliante al luogo ove i nostri mercatanti a trattare i lor negozii si riducono, chiamato il Mercato Nuovo: il che faceva anche più chiaro il putto che in una delle facciate si vedeva batter l'ore, in una banda del quale - essendo maestrevolmente stati accomodati i lor particolari Dii da una parte, cioè la statua della Fortuna a sedere sur una ruota, e dall'altra un Mercurio col caduceo e con una borsa in mano - si vedevano ridotti molti de' più nobili artefici, cioè quelli che, con maggiore eccellenza che forse in altro luogo, in Fiorenza la lor arte essercitano; e di questi, con le lor merci in mano, quasi che all'entrante Principessa offerir le volessero, altri si vedevano con drappi d'oro, altri di seta, altri con finissimi panni et altri con ricami bellissimi e meravigliosi, tutti lieti mostrarsi, sì come in altra parte altri si vedevano poi con diversi abiti passeggiando negoziare, et altri di minor grado con varii e bellissimi intagli di legname e di tarsie, et altri con palloni, con maschere e con sonagli et altre cose fanciullesche, nella medesima guisa mostrare il medesimo giubilo e contento. Il che, et il giovamento delle quali, e l'utile e la gloria che a Fiorenza ne sia venuto, lo dichiaravano i quattro versi che, come agl'altri, di sopra posti erano, dicendo:

QUAS ARTES PARIAT SOLERTIA, NUTRIAT USUS,
AUREA MONSTRAVIT QUONDAM FLORENTIA CUNCTIS.
PANDERE NAMQUE ACRI INGENIO ATQUE ENIXA LABORE EST
PRAESTANTI, UNDE PARET VITAM SIBI QUISQUE BEATAM.

Delle due ultime Deità o Vertù, poiché, come abbiàn detto, per la quantità et eccellenza in esse de' figliuoli suoi, son tanto a Fiorenza proprie che ben può sopra l'altre gloriosa reputarsi, da man destra et a canto alla statua di Cerere era posta quella d'Apollo, preso per quello Apollo toscano che infonde ne' toscani poeti i toscani versi; questi sotti i suoi piedi (sì come nell'altre tele) aveva dipinto in cima d'un amenissimo monte, conosciuto essere d'Elicone dal caval Pegaseo, un molto bello e spazioso prato, in mezzo a cui sorgeva il sagrato fonte d'Aganippe, conosciuto anch'egli per le nove Muse che intorno gli stavano sollazzandosi, con le quali, et all'ombra de' verdeggianti allori, di che tutto ‘l monte era ripieno, si vedevano varii poeti in varie guise sedersi, o passeggiando ragionare, o cantare al suon della lira, mentre una quantità di piccoli Amorini sopra gl'allori scherzando, altri di loro saettavano et ad altri pareva che gettassero lauree corone. Di questi, nel più degno luogo, si vedeva l'acutissimo Dante, il Petrarca leggiadro et il facondo Boccaccio, che in atto tutto ridente pareva che promettessero all'entrante Signora- poi che a loro non era tócco sì nobil subbietto di infondere ne' fiorentini ingegni tanto valore - che di lei degnamente cantar potessero: a che, con l'essemplo de' loro scritti, purché si trovi chi imitar gli sappia, hanno ben aperto larghissima strada. Vedevansi a lor vicini, e quasi che con loro ragionassero, tutti sì come gl'altri da natural ritratti, messer Cino da Pistoia, il Montemagno, Guido Cavalcanti, Guittone d'Arez[z]o e Dante da Maiano, che furono alla medesima età e secondo quei tempi assai leggiadramente poetarono. Era poi da un'altra parte monsignor Giovanni della Casa, Luigi Alamanni, e Lodovico Martelli con Vincenzio, alquanto da lui lontano, e con loro messer Giovanni Rucellai, lo scrittor delle tragedie, e Girolamo Benivieni; fra ‘ quali, se in quel tempo stato vivo non fusse, si sarebbe dato meritevol luogo al ritratto ancora di messer Benedetto Varchi, che poco dopo fece a miglior vita passaggio. Da un'altra parte poi si vedeva Franco Sacchetti, che scrisse le Trecento Novelle, e quegli che, benché oggi di poco grido sieno, pur perché a' lor tempi non piccolo augumento ai romanzi diedero, non indegni di questo luogo giudicati furono Luigi Pulci, cioè con Bernardo e Luca suoi fratelli, col Ceo e con l'Altissimo. Il Bernia, anch'egli padre, et ottimo padre, et inventore della toscana burlesca poesia, pareva che, col Burchiello e con Antonio Alamanni e con l'Unico Accolti, che in disparte stava, mostrasse non degl'altri punto minore allegrezza; mentre che l'Arno, al modo solito appoggiato sul suo leone e con due putti che d'alloro il coronavano, e Mugnone, noto per la Ninfa, che sopra gli stava con la luna in fronte e coronata di stelle, alludendo alle figliuole d'Atlante, presa per Fiesole, pareva che anch'essi mostrassero la medesima letizia e contento. Il che et il soprascritto concetto dichiararono ottimamente i quattro versi che, come gl'altri, nell'architrave furon posti, e che dicevano:

MUSARUM HIC REGNAT CHORUS ATQUE HELICONE VIRENTE
POSTHABITO VENERE TIBI, FLORENTIA, VATES
EXIMII, QUONIAM CELEBRARE HAEC REGIA DIGNO
NON POTUERE SUO ET CONNUBIA CARMINE SACRO.

Et a rincontro di questo, da man sinistra posto, non men forse agl'ingegni fiorentini di quello proprio, si vedeva la statua del Disegno, padre della pittura, scultura et architettura, il quale, se non nato, sì come ne' passati scritti si può vedere, possiàn dire che in Fiorenza al tutto rinato e come in proprio nido nutrito e cresciuto sia. Era per questo figurata una statua tutta nuda, con tre teste eguali per le tre Arti, che egli abbraccia, tenendo indifferentemente in mano di ciascuna qualche instrumento. E nella tela che sotto gli stava si vedeva dipinto un grandissimo cortile, per ornamento di cui in diverse guise poste era una gran quantità di statue e di quadri di pittura antichi e moderni, i quali da diversi maestri si vedevano in diversi modi disegnare e ritrarre; in una parte del quale facendosi una anotomia, pareva che molti stessero mirando e ritraendo similmente molto intenti; altri poi, la fabbrica e le regole dell'architettura considerando, pareva che minutamente volessero misurare certe cose, mentre che il divino Michelagnolo Buonaruoti, principe e monarca di tutti, con i tre cerchietti in mano (sua antica impresa), accennando ad Andrea del Sarto, a Lionardo da Vinci, al Puntormo, al Rosso, a Pierin del Vaga et a Francesco Salviati et ad Antonio da San Gallo et al Rustico, che gl'eron con gran reverenza intorno, mostrava con somma letizia la pomposa entrata della nobil Signora. Faceva quasi il medesimo effetto l'antico Cimabue verso cert'altri e da un'altra parte posto, di cui pareva che Giotto si ridesse, avendogli, come ben disse Dante, tolto il campo della pittura che tener si credeva, et aveva seco, oltre a' Gaddi, Buffalmacco e Benozzo, con molt'altri di quella età. In altra parte poi et in altra guisa posti, si vedevano tutti giubilanti ragunarsi quelli che tanto augumento all'arte diedero et a cui tanto debbono questi novelli maestri: il gran Donatello cioè, e Filippo di ser Brunellesco, e Lorenzo Ghiberti, e fra' Filippo, e l'eccellente Masaccio, e Desiderio, e ‘l Verrocchio, con molt'altri da natural ritratti, che per essersene ne' passati libri trattato, fuggendo il tedio che a' lettori, replicando, venir ne potrebbe, andrò senza più dirne trapassandoli. Quali e quel che ivi a fare venuti fussero, come negl'altri, da' quattro soprascritti versi fu dichiarato:

NON PICTURA SATIS, NON POSSUNT MARMORA ET AERA
TUSCAQUE NON ARCUS TESTARI INGENTIA FACTA
ATQUE EA PRAECIPUE QUAE MOX VENTURA TRAHUNTUR.
QUIS NUNC PRAXITELES COELET, QUIS PINGAT APELLES?

Ora, nel basamento di tutte queste sei grandissime e bellissime tele si vedeva dipinto una graziosa schiera di fanciulletti, che, ciascuno nella sua professione alla sopraposta tela accomodata essercitandosi, pareva, oltre all'ornamento, che molto accuratamente mostrassero con quali principii alla perfezione de' sopra dipinti uomini si pervenisse; sì come giudiziosamente e con singolare arte furono le medesime tele scompartite ancora et ornate da altissime e tonde colonne, e da pilastri e da diverse troferie, tutte alle materie a cui vicine erano accomodate. Ma graziose e vaghe apparvero massimamente le diece imprese, o per meglio dire i diece quasi rovesci di medaglie, parte vecchi della città e parte nuovamente ritrovati, che negli spartimenti, sopra le colonne dipinti, andavano le descritte statue dividendo e l'invenzione di esse molto argutamente accompagnando; il primo de' quali era la deduzione d'una Colonia, significata con un toro e con una vacca insieme ad un giogo e con l'arator dietro col capo velato, quali si veggono gl'antichi Auguri, col ritorto lituo in mano e con la sua anima che diceva: COL. IVL. FLORENTIA. Il secondo, e questo è antichissimo della città e con cui ella le cose publiche suggellar suole, era l'Ercole con la clava e con la pelle del Leon Nemeo, senz'altro motto. Ma il terzo era il caval Pegaseo, che co' piè di dietro percoteva l'urna tenuta da Arno nel modo che si dice del fonte d'Elicone, onde uscivano abbondantissime acque che formavano un chiarissimo fiume, tutto di cigni ripieno, senz'anima anch'esso. Sì come anche il quarto, che era composto d'un Mercurio col caduceo in mano e con la borsa e col gallo, quale in molte corniuole antiche si vede. Ma il quinto, accomodandosi a quell'Affezione, che, come nel principio si disse, fu per compagna a Fiorenza data, era una giovane donna messa in mez[z]o e laureata da due che, del militar paludamento adorni e di laurea ghirlanda anch'essi incoronati, sembravano essere o consoli o imperadori, con le sue parole che dicevano: GLORIA POP. FLOREN. Sì come il sesto, accomodandosi in simil guisa alla Fedeltà, di Fiorenza anch'ella compagna, era similmente d'una femmina a seder posta figurato, che con un altare vicino, sopra il quale pareva che mettesse l'una delle mani, e con l'altra alzata, tenendo il secondo dito elevato alla guisa che comunemente giurar si vede, pareva che col motto di FIDES POP. FLOR. dichiarasse l'intenzion sua. Il che faceva anche la pittura del settimo, senza motto, che erano i duoi corni di Dovizia pieni di spighe intrecciate insieme. E lo faceva l'ottavo, pur senza motto, con le tre Arti: Pittura, Scoltura et Architettura, che, a guisa delle tre Grazie prese per mano, denotando la dependenzia che l'una arte ha dall'altra, erano sur una base in cui si vedeva scolpito un Capricorno, non meno dell'altre leggiadramente poste. Facevalo ancora il nono, più verso l'Arno collocato, che era la solita Fiorenza col suo Leone a canto, a cui erano da alcune persone circunstanti offerti diversi rami d'alloro, grate quasi del benefizio dimostrandosi, poiché ivi le lettere, come si disse, a risurgere incominciarono. E lo faceva il decimo et ultimo, col suo motto che diceva: TRIBUS CAPTIVA, che fu la propria d'Augusto suo conditore, scritto sur uno scudo tenuto da un leone, nella quale anticamente Fiorenza soleva rassegnarsi. Ma di grandissimo ornamento, oltre a' bellissimi scudi ov'eran l'armi dell'una e l'altra Eccellenza e della serenissima Principessa e l'insegna della città, et oltre all'aurea e grande e ducal corona che Fiorenza di porger mostrava, fu una principalissima impresa sopra tutti gli scudi posta, et a proposito della città messa, che era composta di due alcioni faccenti in mare il lor nido al principio del verno: il che si dimostrava con quella parte del Zodiaco che dipinto vi era, in cui si vedeva il sole entrare a punto nel segno del Capricorno, con la sua anima che diceva: HOC FIDUNT, volendo significare che, sì come gl'alcioni per privilegio della natura nel tempo che il sole entra nel predetto segno di Capricorno, che rende tranquillissimo il mare, possono farvi sicuramente i lor nidi, onde sono quei giorni alcionii chiamati, così anche Fiorenza sotto il Capricorno ascendente, e per ciò antica et onoratissima impresa del suo ottimo Duca, può, in qualunque stagione il mondo ne apporti, felicissimamente, come ben fa, riposarsi e fiorire. E tutto questo, con tutti gl'altri sopradetti concetti, erano in buona parte dichiarati dall'inscrizione, che, all'altissima Sposa favellando, accomodatamente et in bellissimo et ornatissimo luogo era stata messa, dicendo:

INGREDERE URBEM FOELICISSIMO CONIUGIO FACTAM TUAM, AUGUSTISSIMA
VIRGO, FIDE, INGENIIS ET OMNI LAUDE PRAESTANTEM
OPTAQUE PRAESENTIA TUA ET EXIMIA VIRTUTE, SPERATAQUE FAECUNDITATE,
OPTIMORUM PRINCIPUM PATERNAM ET AVITAM CLARITATEM,
FIDELISSIMORUM CIVIUM LAETITIAM, FLORENTIS URBIS
GLORIAM ET FOELICITATEM AUGE.

DELL'ENTRATA DI BORGO OGNI SANTI
Seguitando poi verso il Borgo d'Ogni Santi, strada, come ognun sa, e bellissima et ampissima e dirittissima, fu all'entrar d'essa con due molto gran Colossi figurato in uno l'Austria, per una giovane tutta armata all'antica con uno scetro in mano - significante la bellica sua potenza per l'imperial degnità, oggi appresso a quella nazion risedente et ove pare che al tutto ridotta sia -, e nell'altro una Toscana, di religiose vesti adorna e con il sacerdotal lituo in mano, che dimostrava anch'ella l'eccellenza che al divin culto la toscana nazione fin dagl'antichi tempi ha sempre avuto: per il che ancor oggi si vede che i Pontefici e la Santa Romana Chiesa in Toscana hanno il lor seggio principale voluto porre. Di queste avendo ciascuna un grazioso et ignudo Angeletto a canto, che all'una pareva che serbasse l'imperial corona et all'altra quella che i Pontefici usar sogliono, molto amorevolmente pareva che l'una la mano all'altra porgesse, quasi che l'Austria con le sue più nobil' città - le quali nella tela grandissima, che per ornamento e per testata all'entrare di quella strada e verso il Prato rivolta, sotto diverse immagini erano descritte - significar volesse d'essere parentevolmente venuta ad intervenire all'allegrezze et onoranze de' serenissimi Sposi, e riconoscere et abbracciare l'amata sua Toscana, congiugnendo in un certo modo le due massime potenzie, spirituale e temporale, insieme. Il che ottimamente dichiararono i sei versi che in accomodato luogo posti furono, dicendo:

AUGUSTAE EN ADSUM SPONSAE COMES AUSTRIA, MAGNI
CAESARIS HAEC NATA EST CAESARIS ATQUE SOROR.
CAROLUS EST PATRUUS, GENS ET FAECUNDA TRIUMPHIS,
IMPERIO FULGET REGIBUS ET PROAVIS.
LAETITIAM ET PACEM ADFERIMUS DULCESQUE HYMENEOS
ET PLACIDAM REQUIEM, TUSCIA CLARA, TIBI.

Sì come dall'altra parte la Toscana, avendo a Fiorenza, sua regina e signora, il primo luogo alla prima porta conceduto, tutta lieta di ricevere tanta donna pareva che si dimostrasse, avendo in sua compagna, anch'ella in una simil tela, a canto a sé dipinto e Fiesole e Pisa e Siena et Arezzo, con l'altre sue città più famose, e con l'Ombrone e con l'Arbia e col Serchio e con la Chiana, tutte in varie forme secondo il solito ritratte, significando il contento suo con i sei seguenti versi, in simigliante modo come gl'altri et in comodo luogo posti:

OMNIBUS FAUSTIS ET LAETOR IMAGINE RERUM,
VIRGINIS ASPECTU CAESAREEQUE FRUOR.
HAEC NOSTRAE INSIGNES URBES HAEC OPPIDA ET AGRI
HAEC TUA SUNT: ILLIS TU DARE IURA POTES.
AUDIS UT RESONET LAETIS CLAMORIBUS AETHER
ET PLAUSU ET LUDIS AUSTRIA CUNCTA FREMAT?

DEL PONTE ALLA CARRAIA
Et acciò che con tutti i prosperi auspizii le splendide nozze celebrate fussero, al palazzo de' Ricasoli, che al principio del Ponte alla Carraia, come ognun sa, è posto, si fece di componimento dorico il terzo ornamento a Imeneo, lo dio di quelle dedicato; e questo fu, oltre a una singolare e vaghissima testata in cui gl'occhi di chi per Borgo Ogni Santi veniva con meraviglioso diletto si pasceva, di due altissimi e molto magnifichi portoni che in mezzo la mettevano, sopra l'uno de' quali, che dava adito a' trapassanti nella strada chiamata la Vigna, era giudiziosamente posta la statua di Venere genitrice, alludendo forse alla casa de' Cesari, che da Venere ebbe origine, o forse augurando a' novelli Sposi gene [ra]zione e fecondità, con un motto, cavato dall'Epitalamio di Teocrito, che diceva:

SCRITTA GRECA

E sopra l'altro, per onde passò la pompa e che introduceva lungo la riva d'Arno, quella di Latona nutrice, schivando forse la sterilità o l'importuna gelosia di Giunone, con il suo motto anch'ella di:

SCRITTA GRECA

Per finimento de' quali, con singolare artifizio condotti, sopra una gran base con l'un de' portoni appiccata, quasi dell'acque uscito, si vedeva da una parte, sotto forma d'un bellissimo e di gigli inghirlandato Gigante, l'Arno, come se di noz[z]e essemplo dar volesse, con la sua Sieve, di frondi e di pomi inghirlandata ancor ella, abbracciato; i quali pomi alludendo alle palle de' Medici, che quindi ebbero origine, rosseggianti stati sarebbero, se i colori in sul bianco marmo fussero convenuti. Il quale tutto lieto pareva che alla novella Signora favellasse nel modo che contengano i seguenti versi:

IN MARE NUNC AURO FLAVENTES ARNUS ARENAS
VOLVAM ATQUE ARGENTO PURIOR UNDA FLUET.
HETRUSCOS NUNC INVICTIS COMITANTIBUS ARMIS
CAESAREIS TOLLAM SYDERA AD ALTA CAPUT.
NUNC MIHI FAMA ETIAM TYBRIM FULGOREQUE RERUM
TANTARUM LONGE VINCERE FATA DABUNT.

E dall'altra parte, per componimento di quello, sur una simil base et in simil modo con l'altro portone appiccata, quasi ali l'una verso l'altra rivolgendosi e quasi d'una simil forma, il Danubio e la Drava abbracciati similmente si vedevano; che, sì come quelli il Leone, avevano questi l'Aquila per insegna e sostenimento: i quali incoronati anch'essi di rose e di mille variati fioretti, pareva che a Fiorenza, sì come quelli a se stessi, dicessero i seguenti versi:

QUAMVIS, FLORA, TUIS, CELEBERRIMA, FINIBUS ERREM
SUM SEPTEM GEMINUS DANUBIUSQUE FEROX:
VIRGINIS AUGUSTE COMES ET VESTIGIA LUSTRO,
UT REOR, ET SI QUOD FLUMINA NUMEN HABENT
CONIUGIUM FASTUM ET FAECUNDUM ET NESTORIS ANNOS
THUSCORUM ET LATE NUNTIO REGNA TIBI.

Nella sommità della testata poi e nel più degno luogo, molto a bianchissimo marmo somigliante, si vedeva la statua del giovane Imeneo inghirlandato di fiorita persa, con la face e col velo, e con l'inscrizione a' piedi di: BONI CONIUGATOR AMORIS, messo in mez[z]o dall'Amore, che tutto abbandonato sotto l'un de' fianchi gli stava, e dalla Lealtà maritale, che il braccio sotto l'altro appoggiato gli teneva; la quale tanto bella, tanto vaga, tanto vez[z]osa e tanto bene scompartita agl'occhi de' riguardanti si dimostrava, che veramente più dire non si potrebbe, avendo per principal corona di quello ornamento (perciò che a tutti una cotal principal corona et una principale impresa posta era) in mano al descritto Imeneo formatone due della medesima persa di che inghirlandato s'era, le quali con sembianza teneva di volerle a' felici Sposi presentare. Ma massimamente belli e vaghi et ottimamente condotti si mostravano i tre capaci quadri - che in tanti a punto, da doppie colonne divisi, era scompartita tutta quella larghissima facciata - e che con somma leggiadria a piè dell'Imeneo posti erano, descrivendo in essi tutti quei comodi, tutti i diletti e tutte le desiderevoli cose che nelle noz[z]e ritrovar si sogliono, le dispiacevoli e le noiose con una certa accorta grazia da quelle discacciando; e però nell'uno di questi, et in quello del mez[z]o cioè, si vedevano le tre Grazie, nel modo che si costuma dipinte, tutte liete e tutte festanti, che pareva che cantassero con una certa soave armonia i sopra a loro scritti versi, dicenti:

QUAE TAM PRAECLARA NASCETUR STIRPE PARENTUM
INCLITA PROGENIES, DIGNA ATAVISQUE SUIS?
HETRUSCA ATTOLLET SE QUANTIS GLORIA REBUS
CONIUGIO AUSTRIACAE MEDICEAEQUE DOMUS?
VIVITE FOELICES. NON EST SPES IRRITA, NAMQUE
DIVINA CHARITES TALIA VOCE CANUNT.

Avendo da una parte, e quasi che coro le facessero, convenientemente insieme accoppiati la Gioventù e ‘l Diletto e la Bellezza, che col Contento abbracciata stava, e dall'altra in simil guisa l'Allegrez[z]a col Gioco, e la Fecondità col Riposo, tutti con atti dolcissimi et a' loro effetti simiglianti, et in maniera dal buon pittore contrasegnati che agevolmente conoscere si potevano. In quello poi che alla destra di questo era, si vedeva, oltre all'Amore e la Fedeltà, i medesimi Allegrez[z]a e Contento e Diletto e Riposo con accese facelle in mano, che del mondo cacciavano, nel profondo abisso rimettendo, la Gelosia, la Contenzione, l'Affanno, il Dolore, il Pianto, gl'Inganni, la Sterilità e simili altre cose noiose e dispiacevoli, che sì spesso solite sono perturbare gl'animi umani. E nell'altro dalla banda sinistra si vedevano le medesime Grazie, in compagnia di Giunone e di Venere e della Concordia e dell'Amore e della Fecondità e del Sonno e di Pasitea e di Talassio, mettere in ordine il genial letto con quelle antiche religiose cirimonie, di facelle, d'incensi, di ghirlande e di fiori che costumar si solevano, e de' quali non piccola copia una quantità d'Amorini, sopra ‘l letto scherzanti e volanti, spargendo andavano. Erano poi sopra questi, con bellissimi spartimenti accomodati, due altri quadri, che in mezzo la statua dell'Imeneo mettevano, alquanto dei descritti minori, nell'uno de' quali, imitando l'antico costume, sì ben da Catullo descritto, si vedeva la serenissima Principessa, da natural ritratta, in mezzo ad un leggiadro drappelletto di bellissime giovani in verginal abito, tutte di fiori incoronate e con facelle accese in mano, che accennando verso la stella Espero, che apparire si dimostrava, sembrava quasi, da loro eccitata, con una certa graziosa maniera muoversi e verso l'Imeneo camminare, con il motto: O DIGNA CONIUNCTA VIRO. Sì come, nell'altro dall'altra parte, si vedeva l'eccellente Principe in mez[z]o a molti similmente inghirlandati et amorosi giovani, non meno delle vergini donne solleciti in accender le nuziali facelle, e non meno accennanti verso l'apparita stella, far sembianza verso lei camminando del medesimo o maggior desiderio, con il suo motto anch'egli, che diceva: O TAEDIS FOELICIBUS AUCTAE. Sopra i quali in molto grazioso modo accomodata si vedeva per principale impresa, che, come s'è detto, a tutti gl'archi posta era, una dorata catena, tutta di maritali anelli con le lor pietre composta, che dal cielo pendendo pareva che questo terreno mondo sostenesse, alludendo in un certo modo all'omerica catena di Giove e significando, mediante le noz[z]e unendosi le celesti cagioni con le materie terrene, la Natura et il predetto terreno mondo conservarsi e quasi perpetuo rendersi, con il motto che diceva: NATURA SEQUITUR CUPIDE.Una quantità poi, e tutti vez[z]osi e tutti lieti e tutti in accomodato luogo posti, di Putti e d'Amorini si vedevano sparsi e per le basi e per i pilastri e per i festoni e per gl'altri ornamenti che infiniti v'erano, che con una certa letizia pareva che tutti o spargessero fiori e ghirlande, o soavemente cantassero la seguente ode fra gli spazii dell'accoppiate colonne, che, come s'è detto, i gran quadri e la gran faccia dividevano, con graziosa e leggiadra maniera accomodata:

AUGUSTI SOBOLES REGIA CAESARIS

SUMMO NUPTA VIRO PRINCIPI HETRURIAE
FAUSTIS AUSPICIIS DESERUIT VAGUM
ISTRUM REGNAQUE PATRIA.

CUI FRATER, GENITOR, PATRUUS ATQUE AVI

FULGENT INNUMERI STEMMATE NOBILES
PRAECLARO IMPERII PRISCA AB ORIGINE
DIGNO NOMINE CAESARES.

ERGO MAGNANIMAE VIRGINI ET INCLYTAE

IAM NUNC, ARNE PATER, SUPPLICITER MANUS
LIBES ET VIOLIS VERSICOLORIBUS
PULCHRAM, FLORA, PREMAS COMAM.

ASSURGANT PROCERES AC VELUT AUREUM

ET CAELESTE IUBAR RITE COLANT EAM.
OMNES ACCUMULENT TEMPLA DEUM ET PIIS
ARAS MUNERIBUS SACRAS.

TALI CONIUGIO PAX HILARIS REDIT,

FRUGES ALMA CERES PORRIGIT UBERES,
SATURNI REMEANT AUREA SAECULA,
ORBIS LAETITIA FREMIT.

QUIN DIRAE EUMENIDES MONSTRAQUE TARTARI

HIS LONGE DUCE TE FINIBUS EXULANT,
BELLORUM RABIES HINC ABIT EFFERA,
MAVORS SANGUINEUS FUGIT.

SED IAM NOX RUIT ET SIDERA CONCIDUNT.

ET NYMPHAE ADVENIUNT IUNOQUE PRONUBA
ARRIDET PARITER BLANDAQUE GRATIA
NUDIS IUNCTA SORORIBUS.

HAEC CINGIT NIVEIS TEMPORA LILIIS,

HAEC E PURPUREIS SERTA GERIT ROSIS,
HUIC MOLLES VIOLAE ET SUAVIS AMARACUS
NECTUNT VIRGINEUM CAPUT.

LUSUS, LAETA QUIES CERNITUR ET DECOR,

QUOS CIRCUM VOLITAT TURBA CUPIDINUM ET
PLAUDENS RECINIT HAEC HYMENEUS AD
REGALIS THALAMI FORES.

QUID STATIS IUVENES TAM GENIALIBUS

INDULGERE TORIS IMMEMORES? IOCI
CESSENT ET CHOREAE: LUDERE VOS SIMUL
POSCUNT TEMPORA MOLLIUS.

NON VINCANT EDERAE BRACCHIA FLEXILES,

CONCHAE NON SUPERENT OSCULA DULCIA,
EMANET PARITER SUDOR ET OSSIBUS
GRATO MURMURE AB INTIMIS.

DET SUMMUM IMPERIUM REGNAQUE IUPPITER,

DET LATONA PAREM PROGENIEM PATRI.
ARDOREM UNANIMEM DET VENUS ATQUE AMOR
ASPIRANS FACE MUTUA.

DEL PALAZZO DEGLI SPINI
Et acciò che nessuna parte dell'uno e dell'altro imperio indietro non rimanesse che non fusse alle noz[z]e felici intervenuta, al Ponte a Santa Trinita et al palaz[z]o degli Spini, che al suo principio si vede d'architettura composta, non meno magnificamente fu il quarto ornamento fatto d'una testata di tre facce, l'una delle quali, verso il Ponte alla Carraia svolgendosi, veniva congiunta con quella del mez[z]o, che alquanto piegata era e che anch'ella, con quella che verso gli Spini e Santa Trinita in simil guisa svolgeva, era appiccata; onde pareva che per veduta, così dell'una come dell'altra strada, principalmente stata ordinata fusse, in tal maniera dall'una e dall'altra tutta agl'occhi de' riguardanti si dimostrava: cosa, a chi ben considera, d'artifizio singolare e che rendeva quella contrada, che per sé è vistosa e magnifica quanto alcun'altra che in Fiorenza si ritrovi, e vistosissima e bellissima oltre a modo, avendo, nella faccia che nel mez[z]o veniva, formatovi sopra una gran base due grandissimi et in vista molto superbi Giganti, sostenuti da due gran Mostri e da altri stravaganti pesci, che per il mare di notar sembravano, e da 2 marine Ninfe accompagnati, presi l'uno per il grande Oceano e l'altro per il Mar Tirreno, che in parte giacendo pareva con una certa affettuosa liberalità che a' serenissimi Sposi presentar volessero non pur molte e bellissime branche di coralli e conche grandissime di madriperle et altre loro marine ricchez[z]e che in man tenevano, ma nuove isole e nuove terre e nuovi imperii, che ivi con lor condotte si vedevano; dietro a' quali, e che leggiadro e pomposo rendeva tutto questo ornamento, si vedeva, dal posare che in su la base facevano, a poco a poco ergersi due grandissime mezze colonne, sopra le quali posando la sua cornice e fregio et architrave, lasciavano dietro a' Mari descritti, quasi in forma d'arco trionfale, un molto spazioso quadro, sorgendo sopra l'architrave e sopra le due colonne due ben intesi pilastri avviticciati, da' quali muovendosi due cornici formavano in fine un superbo e molto ardito frontespizio, in cima di cui e sopra i viticci de' due descritti pilastri si vedevano posti tre grandissimi vasi d'oro, tutti pieni e colmi di mille e mille variate marine ricchezze. Ma nel vano che dall'architrave alla punta del frontespizio rimaneva, con singolar dignità si vedeva una maestevol Ninfa giacere, figurata per Tetide o Anfitrite, marina diva e regina, che in atto molto grave per principal corona di questo luogo porgeva una rostrata corona, solita darsi a' vincitori delle navali battaglie, col suo motto di: VINCE MARI, quasi che soggiugnesse quel che segue: IAM TERRA TUA EST. Sì come nel quadro e nella faccia dietro a' Giganti, in una grandissima nicchia e che di naturale e verace antro o grotta sembianza aveva, fra molti altri marini mostri si vedeva dipinto il Proteo della Georgica di Vergilio da Aristeo legato, che col dito accennando verso i soprascrittigli versi, pareva che profetando volesse annunziare a' ben congiunti Sposi nelle cose marittime felicità e vittorie e trionfi, dicendo:

GERMANA ADVENIET FAELICI CUM ALITE VIRGO,
FLORA, TIBI, ADVENIET SOBOLES AUGUSTA HYMENEI
CUI PULCHER IUVENIS IUNGATUR FOEDERE CERTO
REGIUS ITALIAE COLUMEN. BONA QUANTA SEQUENTUR
CONIUGIUM! PATER ARNE, TIBI ET TIBI, FLORIDA MATER,
GLORIA QUANTA ADERIT! PROTHEUM NIL POSTERA FALLUNT.

E perché, come s'è detto, questa faccia dell'Antro era dalle due altre facce, di cui l'una verso Santa Trinita e l'altra verso il Ponte alla Carraia svolgeva, messa in mez[z]o, si vedevano ambedue, che della medesima grandez[z]a et altez[z]a erano, in simil modo da due simili mez[z]e colonne messe similmente in mez[z]o, le quali in simil guisa reggevano il loro architrave, fregio e cornice di quarto tondo; in su la quale, così di qua come di là, si vedevano tre statue di putti in su tre piedistalli, che sostenevano certi ricchissimi festoni d'oro, di chiocciole e nicchie e coralli, con sala e con alga marina molto maestrevolmente composti, e da' quali non men gentilmente era dato a tutta questa machina fine. Ma ritornando allo spazio della facciata che svolgendo al palazzo degli Spini s'appoggiava, si vedeva di chiaro oscuro dipinta in esso una Ninfa tutta inculta e poco meno che ignuda, in mez[z]o a molti nuovi animali: et era questa presa per la nuova terra del Perù, con l'altre nuove Indie Occidentali, sotto gl'auspizii della fortunatissima Casa d'Austria in buona parte ritrovate e rette, che volgendosi verso un Iesù Cristo Nostro Signore, che tutto luminoso in una croce nell'aria dipinto era (alludendo alle quattro chiarissime stelle che di croce sembianza fanno, novellamente appresso a quelle genti ritrovate), pareva a guisa di sole che con gli splendidissimi raggi alcune folte nugole trapassasse; di che ella sembrava in un certo modo rendere a quella Casa molte grazie, poi che per lei si vedeva al divin culto et alla verace cristiana religione ridotta, con i sotto scritti versi:

DI TIBI PRO MERITIS TANTIS, AUGUSTA PROPAGO,
PRAEMIA DIGNA FERANT QUAE VINCTAM MILLE CATENIS
HEU DURIS SOLVIS, QUAE CLARUM CERNERE SOLEM
E TENEBRIS TANTIS ET CHRISTUM NOSCERE DONAS.

Sì come nella base, che tutta questa faccia reggeva e che, benché al par di quella de' Giganti venisse, non perciò come quella sporgeva in fuori, si vedeva quasi per allegoria dipinta la favola d'Andromeda dal crudo Mostro marino per Perseo liberata. Ma in quella che in verso l'Arno et il Ponte alla Carraia svolgendosi riguardava, si vedeva in simil modo dipinta la famosa benché piccola isola dell'Elba, sotto forma d'una armata guerriera sedere sopra un gran sasso col tridente nella destra mano, avendo da l'un de' lati un piccolo fanciulletto che con un delfino pareva che vez[z]osamente scherzasse, e dall'altro un altro a quel simile che un'ancora reggeva, con molte galee che d'intorno al suo porto, che dipinto vi era, aggirar si vedevano; a piè di cui e nella di cui base, in simil modo corrispondendo alla sopra dipinta faccia, si vedeva similmente quella favola che da Strabone è messa, quando conta che tornando gl'Argonauti dall'acquisto del Vello d'oro, all'Elba con Medea arrivati, vi riz[z]arono altari e vi fecero a Giove sagrifizio, prevedendo forse o augurando che ad altro tempo questo glorioso Duca per l'ordine del Tosone, quasi della loro squadra dovesse, fortificandola et assicurando i travagliati naviganti, rinovare l'antica di loro e gloriosa memoria; il che i quattro versi, in accomodato luogo postivi, ottimamente dichiaravano, dicendo:

EVENERE OLIM HEROES QUAE LITTORE IN ISTO
MAGNANIMI VOTIS PETIERE: EN ILVA POTENTIS
AUSPICIIS COSMI MULTA MUNITA OPERA AC VI.
PACATUM PELAGUS SECURI CURRITE, NAUTAE.

Ma bellissima e bizarra e capricciosa e molto ornata vista facevano, oltre alle varie imprese e trofei, et oltre ad Arione, che sul notante delfino per mezzo il mare sollazzandosi andava, una innumerabile quantità di stravaganti pesci marini e di Nereidi e di Tritoni, che per fregi e piedistalli e basamenti, et ovunque lo spazio e la bellezza del luogo lo ricercava, sparsi erano; sì come a piè del gran basamento de' Giganti graziosa vista faceva ancora una bellissima Sirena, sopra il capo d'un molto gran pesce sedente, dalla cui bocca, secondo il voltar d'una chiave, alcuna volta, non senza desiderato riso de' circunstanti, si vedeva gettare impetuosamente acqua adosso a' troppo avidi di bere il bianco e vermiglio vino, che dalle poppe della Sirena abbondantemente in un molto capace e molto adorno pilo cascava. E perché la rivolta della faccia ov'era dipinta l'Elba, che a chi dal Ponte alla Carraia lungo l'Arno verso gli Spini, sì come fece la pompa, andava, batteva di prima giunta negl'occhi, parve al ritrovatore, nascondendo la brutez[z]a dell'armadure e de' legnami che dietro necessariamente posti erano, di tirare alla medesima altez[z]a un'altra simile alle tre descritte nuova faccetta, che rendesse (sì come fece) tutta quella vista lietissima et ornatissima. Et in questa, dentro ad un grande ovato, parse che ben fusse (tutto il concetto della machina abbracciando) collocare la principalissima impresa: e però per questa vi si vedeva figurato un gran Nettunno su l'usato carro e con l'usato tridente, quale è descritto da Vergilio discacciare gl'importuni venti, per motto usando le sue medesime parole: MATURATE FUGAM, quasi volesse tranquillità e quiete e felicità nel suo regno a' fortunati Sposi promettere.

DELLA COLONNA
Ma dirimpetto al vezzosetto palazzo de' Bartolini, per più stabile e fermo ornamento, era di poco, non senza singolare artifizio, stata ritta quella antica e grandissima colonna d'oriental granito, che dalle romane Antoniane tratta, era da Pio IV stata a questo glorioso Duca concessa, e da lui (benché con non piccolo dispendio) a Firenze condotta, a lei magnanimamente e per publico di lei decoro fattone anche cortese dono. Sopra cui e sopra il di cui bellissimo capitello che di bronzo, sì come la base, sembrava, e che di bronzo va or facendosi, fu posta, benché di terra, ma di color di porfido, perché così ha essere, una molto grande e molto eccellente statua di donna tutta armata con la celata in testa, rappresentante, per la spada nella destra e per le bilance nella sinistra mano, una incorruttibile e molto valorosa Giustizia.

DEL CANTO A' TORNAQUINCI
Fu fatto il sesto ornamento al Canto de' Tornaquinci; e dirò cosa che incredibile parrebbe a chi veduta non l'avesse, perciò che questo fu tanto magnifico, tanto pomposo e con tanta arte e grandez[z]a fabricato, che, benché congiunto col superbissimo palaz[z]o degli Stroz[z]i, atto a far parer nulla le grandissime cose, e benché in sito al tutto disastroso per la ineguale rottura delle strade che vi concorrono e per altri inconvenienti, tanta nondimeno fu l'eccellenzia dell'artefice e con tanta ben intesa maniera fu condotto, che pareva che tante difficultà, per più ammirabile e per di maggiore bellez[z]a renderlo, a posta concorse vi fussero, accompagnando la ricchez[z]a degl'ornamenti, l'altezza degl'archi, la grandez[z]a delle colonne, tutte d'armi e di trofei conteste, e le grandi statue che sopra la cima di tutta la machina torreggiavano quel bellissimo palaz[z]o, in guisa che ciascuno giudicato avrebbe che né quell'ornamento ricercasse altra accompagnatura che d'un palaz[z]o tale, né che a tal palaz[z]o altro ornamento che quello si richiedesse; il che, acciò che maggiormente s'intenda e per più chiaramente e più distintamente mostrare in che maniera questo fatto fusse, necessaria cosa è che, da quelli che fuor dell'arte sono, ci sia alquanto perdonato, se a quelli che di essa si dilettano andrem forse più minutamente che lor convenevole non parrebbe, descrivendo la qualità de' siti e la forma degl'archi: e questo per mostrare come i nobili ingegni sanno accomodare gl'ornamenti a' luoghi e l'invenzione a' siti con grazia e con vaghez[z]a. Diremo adunque che, perciò che la strada, che dalla colonna a' Tornaquinci viene, è (come ognun sa) larghissima, e dovendosi quindi in quella de' Tornabuoni trapassare, la quale per la sua strettez[z]a causava che gl'occhi di chi veniva in buona parte nella non molto adorna torre de' Tornaquinci, che più che la metà della strada occupa, percuotevano, parve necessario, per maggior vaghez[z]a e per fuggire questo inconveniente, di formare nella larghez[z]a della predetta strada, d'ordine composto, due archi, da una ornatissima colonna divisi, l'uno de' quali dava libero adito alla pompa che nella prescritta via de' Tornabuoni trapassava, e l'altro la vista della torre nascondendo, pareva, per virtù d'una artifiziosa prospettiva che dipinta vi era, che in un'altra strada simile a quella de' detti Tornabuoni conducesse; in cui con piacevolissimo inganno si vedevano non pure le case e le finestre di tappeti adorne, e d'uomini e di donne, che per mirare intente stessero piene, ma con graziosa vista pareva che quindi inverso gl'entranti una molto vaga giovane sur un bianco palafreno da alcuni staffieri accompagnata venisse, talché a più d'uno, et il giorno della pompa e mentre che poi vi stette, fece con graziosa beffe nascer desiderio o di andare ad incontrarla o di attenderla fino a tanto che trapassata fusse. Erano questi due archi, oltre alla prescritta colonna che gli divideva, messi in mez[z]o da altre colonne della grandezza medesima, che reggevano gl'architravi, fregi e cornici, e sopra ciascuno con leggiadro ornamento si vedeva un bellissimo quadro, in cui pur di chiaro oscuro si vedevan dipinte l'istorie delle quali poco di sotto parleremo, chiudendo di sopra ogni cosa un grandissimo cornicione, con gl'ornamenti alla grandez[z]a et alla magnificenzia e vaghez[z]a del resto corrispondenti; sopra il quale posavano poi le statue, le quali, quantunque venissero alte dal pian della terra ben venticinque braccia, con tanta nondimeno proporzione eran fatte, che né l'altez[z]a toglieva lor la grazia né la lontananza la vista d'ogni particolare ornamento e bellez[z]a. Stavano nella medesima guisa, quasi ali di questi due archi di testa, dall'uno e l'altro lato due altri archi, l'uno de' quali congiunto col palaz[z]o degli Strozzi, trapassando alla predetta torre de' Tornaquinci, dava adito a quelli che volgersi verso il Mercato Vecchio volevano; sì come l'altro, dall'altro lato posto, faceva il medesimo effetto a quelli che verso la strada chiamata la Vigna d'andar desiderassino; onde la via di Santa Trinita, di cui s'è detto che era tanto larga, veniva in questi quattro descritti archi terminando, a porger tanta vaghez[z]a e sì bella e sì eroica vista che maggiore sodisfazione agl'occhi de' riguardanti pareva che porgere non si potesse. E questa era la parte dinanzi, composta, come si è detto, di quattro archi, di due di testa cioè, l'un finto e l'altro che nella via de' Tornabuoni passava vero, e di due altri dai lati, a guisa d'ali che nelle due attraversanti strade si rivolgevano. Ma perché entrando nella predetta strada de' Tornabuoni, dal lato sinistro a canto alla Vigna sbocca (come ciascun sa) la strada di San Sisto, la quale anch'ella necessariamente percuote nel fianco della medesima torre de' Tornaquinci, nascondendo la medesima bruttez[z]a nella medesima maniera e col medesimo inganno della medesima prospettiva, si fece parere che anch'ella in una simile strada trapassasse, di varii casamenti in simil modo posti, e con artifiziosa vista d'una molto adorna fontana traboccante di chiarissime acque, della quale, chi punto lontano stato fusse, di certo affermato avrebbe che una donna con un putto, che di prenderne faceva sembianza, viva al tutto e non punto simulata era. Ora questi quattro archi, tornando a quei dinanzi, erano da cinque nel modo detto ornate colonne e sospesi e divisi, formando quasi una quadrata piazza; et era al diritto di ciascuna d'esse colonne, sopra l'ultima cornice e sommità dell'edifizio, un bellissimo seggio, essendone nel medesimo modo posti quattro altri sopra il mez[z]o di ciascheduno arco, i quali tutti facevano il numero di nove: in otto de' quali si vedeva a sedere in ciascuno una statua con molto maestevol sembianza, delle quali altra si vedeva armata, altra in pacifico abito et altra con l'imperatorio paludamento, secondo le qualità di coloro che ritratti vi erano; et invece del nono seggio e della nona statua, sopra la colonna del mez[z]o si vedeva collocato una grandissima arme di Casa d'Austria, da due gran Vittorie con l'imperial corona sostenuta, a cui tutta questa machina si dedicava. Il che faceva manifesto un grandissimo epitaffio che con molto bella grazia sotto l'arme posto si vedeva, dicente:

VIRTUTI FOELICITATIQUE INVICTISSIMAE DOMUS AUSTRIAE MAIESTATIQUE
TOT ET TANTORUM IMPERATORUM AC REGUM QUI IN IPSA
FLORUERUNT ET NUNC MAXIME FLORENT, FLORENTIA AUGUSTO
CONIUGIO PARTICEPS ILLIUS FOELICITATIS GRATO PIOQUE ANIMO DICAT.

Et era stato intenzione, come avendo condotto a queste splendidissime noz[z]e la provincia d'Austria con le sue cittadi e fiumi e col suo mare Oceano, e fattole dalla Toscana e dalle sua cittadi e dall'Arno e dal Tirreno (come s'è detto) ricevere, di condurre adesso i suoi gloriosi e grandissimi Augusti tutti pomposi e tutti adorni, sì come ordinariamente, quando a nozze s'interviene, usar si suole; i quali, quasi che con loro la serenissima Sposa condotto avessero, fussero innanzi venuti per fare con la Casa de' Medici il primo parentevole abboccamento e mostrare di quale e quanto gloriosa stirpe fusse la nobil vergine che essi lor presentar volevano. E perciò dell'otto sopradette statue, sopra gl'otto seggi poste e per otto imperadori di questa augustissima Casa fatte, si vedeva, alla man destra dell'arme predetta e sopra l'arco donde la pompa trapassava, quella di Massimiliano Secondo, al presente ottimo e magnanimo imperadore, della sposa fratello, sotto a cui in un molto capace quadro si vedeva con bellissima invenzione dipinta la sua mirabile assunzione all'imperio, stando egli a sedere in mez[z]o agli spirituali et a' temporali Elettori, quegli conosciuti, oltre all'abito lungo, per una Fede che a' lor piedi si vedeva, e quest'altri per una Speranza in simil guisa posta. Vedevansi nell'aria poi, sopra il suo capo certi Angeletti che sembravano di cacciar fuori di certe oscure e tenebrose nugole molti maligni spiriti, volendo con essi accennare o la speranza che si ha che, quando che sia, in quella invittissima e costantissima nazione si andranno dissipando e spegnendo le nugole di tante turbazioni che intorno alle cose della religione vi sono occorse e si ridurrà alla pristina candidez[z]a e serenità di tranquillissima concordia, overo, quasi che in quest'atto tutte le dissensioni fusser via volatesene, mostrare quanto mirabilmente in tanta variazione di menti e di religioni cotale assunzione con tanto consenso della Germania seguita fusse; il che denotavano le parole che sopra vi furono poste, dicendo:

MAXIMILIANUS II SALUTATUR IMP. MAGNO CONSENSU GERMANORUM
ATQUE INGENTI LAETITIA BONORUM OMNIUM ET CHRISTIANAE
PIETATIS FOELICITATE.

A canto poi alla statua di Massimiliano sopradetto, in luogo conrispondente alla colonna dell'angolo, vi si vedeva quella del veramente invittissimo Carlo Quinto, sì come sopra l'arco di questa rivolta, e che soprastava alla strada della Vigna, era quella del secondo Alberto, uomo di speditissimo valore, benché piccol tempo imperasse. Ma sopra la colonna di testa fu messa quella del gran Ridolfo, il quale, primo di questo nome, primo anche introdusse in questa nobilissima Casa l'imperial dignità, e che primo l'arricchì del grande arciducato d'Austria, quando, per mancamento di successione essendo all'imperio ricaduto, ne investì il primo Alberto suo figliuolo, onde ha poi preso la Casa d'Austria il cognome; il che, per memoria di tanto importante fatto, si vedeva con bellissima maniera nel fregio sopra quell'arco dipinto, con l'inscrizione a' piedi che diceva:

RODULPHUS PRIMUS EX HAC FAMILIA IMP. ALBERTUM PRIMUM AUSTRIAE:
PRINCIPATU DONAT.

Ma ritornando poi alla parte sinistra e cominciando dal medesimo luogo del mez[z]o, si vedeva a canto all'arme e sopra il finto arco che la torre de' Tornaquinci copriva, la statua del religiosissimo Ferdinando, della sposa padre, sotto i cui piedi in un gran quadro si vedeva dipinta la valorosa resistenza per sua opera fatta, l'anno ventinove, nella difesa di Vienna contro al terribile impeto turchesco, denotata con il soprascritto motto, dicente:

FERDINANDUS PRIMUS IMP. INGENTIBUS COPIIS TURCORUM CUM
REGE IPSORUM PULSIS VIENNAM NOBILEM URBEM FORTISSIME
FOELICISSIMEQUE DEFENDIT.

Sì come nell'angolo era la statua del primo e chiarissimo Massimiliano, e sopra l'arco che piegava verso il palaz[z]o degli Stroz[z]i quella del pacifico Federigo, appoggiata ad un troncon d'oliva, del medesimo Massimilian padre. Ma sopra l'ultima colonna, congiunta col sopradetto palaz[z]o degli Stroz[z]i, si vedeva quella del sopradetto primo Alberto, quello che (come si disse) fu primo da Ridolfo suo padre degli stati d'Austria investito, e che dette l'arme, che ancor oggi si vede, a quella nobilissima Casa, la quale soleva prima essere di cinque allodolette in campo d'oro, dove questa, che, come ognun vede, è tutta rossa con una listra bianca che la divide, dicono che tale da lui si messe in uso; perciò che, come ivi in un gran quadro dipinto sotto i suoi piedi si vedeva, tale si trovò egli in quella sanguinosissima battaglia da lui fatta con Adolfo, stato prima deposto dell'imperial sede, ove il predetto Alberto si vedeva di sua mano ammazzare valorosamente Adolfo e riportarne l'opime spoglie; e per ciò che, fuor che il mez[z]o della persona, che per l'arme bianca era, in tutto il resto macchiato et imbrodolato quel giorno di sangue si ritrovava, con la medesima maniera di forma e di colori per quella memoria dipigner volse l'arme, che poi da' successori di quella Casa gloriosamente seguitata, esser dovesse; leggendosi sotto il quadro, sì come agl'altri, una simile inscrizione, che diceva:

ALBERTUS I IMPER. ADOLFUM CUI LEGIBUS IMPERIUM ABROGATUM
FUERAT MAGNO PRAELIO VINCIT ET SPOLIA OPIMA REFERT.

E perché ciascuno degl'otto descritti imperadori, oltre all'universale arme di tutta la Casa, vivendo n'usò ancora una sua particolare e propria, per più manifesto rendere a' riguardanti per cui ciascuna delle statue fatta fusse, si mise ancora sotto i lor piedi in bellissimi scudi quell'arme che, come è detto, portata propriamente aveva. Il che, oltre ad alcune vaghe et accomodate istoriette che ne' piedistal [li] dipinte erano, rendeva eroica e magnifica e molto ornata vista; sì come non meno facevano nelle colonne et in tutti i luoghi ove accomodatamente metter si potevano, oltre a' trofei e l'armi, le croci di Santo Andrea et i fucili e le colonne d'Ercole, col motto del PLUS ULTRA, principale impresa di questo arco, e molte altre simili usate dagl'uomini di quella imperialissima famiglia. E tale era la vista principale che si offeriva a chi per diritta via con la pompa trapassar voleva. Ma a quelli che per il contrario della via de' Tornabuoni verso i Tornaquinci venivano, faceva forse con non men vago ornamento, per quanto la strettez[z]a della strada ne concedeva, il medesimo spettacolo proporzionatamente accomodato; perciò che ivi, che la parte di dietro chiameremo, quasi un altro corpo simile al descritto formato era, eccetto che per la strettez[z]a della strada dove, quello di quattro, questo di tre soli archi si vedeva composto: l'un de' quali con fregiature e cornici congiungendosi, e per ciò doppio rendendo quello sopra cui si disse, che fu la statua del secondo Massimiliano, oggi imperante, posta; e l'altra, con la descritta prospettiva che la torre nascondeva, anch'egli appiccandosi faceva che il terzo, lasciando similmente dietro a sé una quadrata piaz[z]etta, restava l'ultimo di chi con la pompa usciva e si dimostrava il primo a chi per il contrario per la strada de' Tornabuoni tornava. Sopra il quale, che nella medesima forma che i descritti era, sì come ivi gl'imperadori in questi si vedevano torreggiare, ma in piedi, stando due re Filippi, padre l'uno e l'altro figliuolo del gran Carlo Quinto, quello, et il secondo cioè, che ripieno di tanta liberalità e giustizia onoriamo oggi per grandissimo e potentissimo re di tanti nobilissimi regni. Fra il quale e la statua del predetto suo avo si vedeva nel rigirante fregio dipinto questo medesimo secondo Filippo con maestà sedere, et innanzi stargli una grande et armata donna, conosciuta, per la croce bianca che in petto aveva, esser Malta, da lui con la virtù dell'illustrissimo signor don Garzia di Tolledo, che ritratto vi era, dall'assedio turchesco liberata, la qual pareva che, come memorevole del grandissimo benefizio, volesse porgergli l'ossidional corona di gramigna; il che era fatto manifesto dal sottoscrittogli epitaffio, che diceva:

MELITA EREPTA E FAUCIBUS IMMANISSIMORUM HOSTIUM STUDIO
ET AUXILIIS PIISSIMI REGIS PHILIPPI CONSERVATOREM SUUM
CORONA GRAMINEA DONAT.

E perché la parte che verso la strada della Vigna risguardava avesse anch'ella qualche ornamento, cosa convenevole parse fra l'ultima cornice ove posavan le statue e l'arco, che grande spazio era, con un grande epitaffio dichiarare il concetto di tutta questa grandissima mole, dicendo:

IMPERIO LATE FULGENTES ASPICE REGES,
AUSTRIACA HOS OMNES EDIDIT ALTA DOMUS.
HIS INVICTA FUIT VIRTUS, HIS CUNCTA SUBACTA,
HIS DOMITA EST TELLUS,SERVIT ET OCEANUS.

Sì come nella medesima guisa e per la medesima cagione si fece di verso il Mercato Vecchio, anche in questo dicendo:

IMPERIIS GENS NATA BONIS ET NATA TRIUMPHIS
QUAM GENUS E COELO DUCERE NEMO NEGET,
TUQUE NITENS GERMEN DIVINAE STIRPIS HETHRUSCIS
TRADITUM AGRIS NITIDIS UT SOLA CULTA BEES,
SI MIHI CONTINGAT VESTRO DE SEMINE FRUCTUM
CARPERE ET IN NATIS CERNERE DETUR AVOS,
O FORTUNATAM, VERO TUNC NOMINE FLORENS
URBS FERAR IN QUAM SORS CONGERAT OMNE BONUM.

DEL CANTO A' CARNESECCHI
Ma convenevole cosa parve, avendo nel descritto luogo condotto i trionfanti Augusti, di condurre anche al Canto che de' Carnesecchi è detto, e che da quello non lontano era, con tutta la lor pompa similmente i magnanimi Medici, quasi che, gl'Augusti riverentemente ricevendo, come si costuma, per la condotta e desiderata Sposa festeggiare et onorar volessero. Qui non meno sarà necessario, sì come in alcuno de' seguenti luoghi, che da quelli che fuor dell'arte sono ne sia concesso il minutamente descrivere il sito del luogo e la forma degl'archi e degl'altri ornamenti, perciò che intenzion nostra è di mostrare non meno l'eccellenza delle mani e de' pennelli di quelli artefici che l'opere esseguirono, che la fertilità dell'ingegno e l'acutez[z]a di chi dell'istorie e di tutta l'invenzione fu il ritrovatore. E massimamente che il sito di questo luogo fu il più disastroso forse et il più malagevole ad accomodare che nessuno degl'altri descritti o da descriversi, perciò che, volgendo ivi la strada verso Santa Maria del Fiore et alquanto nel largo pendendo, viene a farvi quell'angolo che da questi dell'arte è chiamato ottuso; e questa era la parte destra, ma al dirimpetto e nella parte sinistra essendovi una piccola piaz[z]etta, nella quale due strade rispondono, l'una che dalla piaz[z]a grande di Santa Maria Novella viene e l'altra dall'altra piaz[z]a similmente Vecchia chiamata, in questa cotale piaz[z]etta, che invero è sproporzionatissima, si formò in componimento di teatro ottangulare tutta la parte di sotto, le cui porte erano quadre e di ordine toscano, e si vedeva sopra ciascuna d'esse una nicchia da due colonne in mez[z]o messa, con sue cornici, architravi et altri ornamenti ricchi e pomposi di dorica architettura. Ma crescendo in alto si creava l'ordine terzo, ove si vedeva sopra le nicchie in ciascun spazio un quadro co' suoi ornamenti di pittura bellissimi. Ora convenevol cosa è d'avvertire che quantunque si sia detto che quadre fussero le porte da basso e toscane, che le due nondimeno, ove entrava et usciva la strada principale et onde doveva trapassar la pompa, furono fatte a sembianza d'arco, allungandosi non piccolo spazio l'uno inverso l'entrata e l'altro verso l'uscita a guisa di vestibulo, et avendo nella faccia del difuori reso l'uno e l'altro ricchissimo et ornatissimo quanto proporzionatamente si doveva. Descritta ora la forma generale di tutto l'edifizio et alla particolare discendendo, e dalla parte dinanzi e che prima agl'occhi de' camminanti si offeriva, e che a guisa d'arco trionfale, come si è detto, e d'ordine corinzio era, incominciando, si vedeva il predetto arco essere dall'una e dall'altra parte messo in mez[z]o da due armate e molto bellicose statue, di cui ciascuna sur una graziosa porticella posandosi, si vedevano similmente fuori d'una nicchia, messa da due proporzionate colonne anch'ella in mez[z]o, uscire. Et erano queste (quella cioè che dalla parte destra si dimostrava) fatta per il duca Alessandro, genero del chiarissimo Carlo Quinto, principe spiritoso et ardito e di molto graziose maniere, tenente in una mano la spada e nell'altra il baston ducale, col motto per la sua acerba morte a' piedi postogli, che diceva: SI FATA ASPERA RUMPAS ALEXANDER ERIS. Ma in quella dalla parte sinistra si vedeva, sì come tutti gl'altri da natural ritratto, il valorosissimo signor Giovanni col calce d'una lancia rotta in mano e col suo titolo anch'egli sotto i piedi: ITALUM FORTISS. DUCTOR. E perché sopra l'architrave di queste quattro prima descritte colonne era proporzionatamente posto un larghissimo fregio per quella larghezza che teneva la nicchia, si vedeva sopra ciascuna delle statue un quadro messo in mez[z]o da due pilastri, ove, in quello sopra ‘l duca Alessandro, si vedeva di pittura la di lui usata impresa del rinoceronte col motto di: NON BUELVO SIN VENCER; e sopra quella del signor Giovanni, nella medesima guisa, il suo ardente fulmine. Ma sopra l'arco del mez[z]o, che adito capace per più di sette braccia di larghez[z]a e per più di due quadri d'altez[z]a alla trapassante pompa dava, e sopra alla cornice et a' frontespizii, si vedeva con bella maestà a seder posta quella del valoroso e prudentissimo duca Cosimo, padre ottimo del fortunatissimo Sposo, con il suo motto a' piedi anch'egli, che diceva: PIETATE INSIGNIS ET ARMIS, e con una lupa et un leone che in mezzo lo mettevano, prese per Fiorenza e per Siena, che, da lui rette et accarez[z]ate, insieme amichevolmente di riposarsi sembravano. La quale statua si vedeva situata apunto nel fregio e nella dirittura et in mezzo messa da' quadri delle descritte imprese, nascendo, per quanto teneva questa larghez[z]a sopra l'ultima cornice in alto, co' suoi pilastri proporzionati e cornice et altri abbigliamenti, un altro quadro di pittura, in cui, alludendo alla creazione del predetto duca Cosimo, molto propriamente si vedeva figurata l'istoria del giovane Davit quando da Samuel fu unto re, col suo motto: A DOMINO FACTUM EST ISTUD. Ma sopra quest'ultima cornice, che s'alzava molto grande spazio da terra, si vedeva poi l'arme di quella ben avventurosa famiglia, grande e magnifica quanto si conveniva, che da due Vittorie, finte pur sempre di marmo, era anch'ella con la ducal corona sostenuta, avendo sopra la principale entrata dell'arco in accomodatissimo luogo l'inscrizione che diceva:

VIRTUTI FAELICITATIQUE ILLUSTRISSIMAE MEDICEAE FAMILIAE QUAE
FLOS ITALIAE, LUMEN HAETRURIAE, DECUS PATRIAE SEMPER FUIT,
NUNC ASCITA SIBI CAESARIA SOBOLE CIVIBUS SECURITATEM ET
OMNI SUO IMPERIO DIGNITATEM AUXIT, GRATA PATRIA DICAT.

Ma entrando dentro a questo arco si trovava quasi una loggia assai capace e lunga con la sua volta di sopra bizarrissimamente e con bellissimo garbo e di diverse imprese tutta abbigliata e dipinta, dopo la quale, in due pilastri sopra cui girava un arco per il quale s'aveva l'entrata nel prima detto teatro, si vedevano, a rincontro l'una dell'altra, due molto graziose nicchie, fra le quali (che quasi congiunte con questo secondo arco erano et il prima descritto) si vedevano ne' vani delle finte pareti che la loggia reggevano due capaci quadri di pittura, le cui istorie dicevolmente accompagnavano ciascuno la sua statua, et erano queste. In quella da man ritta cioè, l'una fatta per il gran Cosimo detto il Vecchio, il quale, quantunque nella famiglia de' Medici fussero prima stati per armi e per azion' civili molti egregii e nobili uomini, fu nondimeno il primo fondatore della sua straordinaria grandezza e quasi radice di quella pianta ch'è poi tanto felicemente a tanta grandez[z]a pervenuta; nel cui quadro si vedeva dipinto il supremo onore dalla sua patria Fiorenza attribuitogli, quando dal publico Senato fu Padre della patria appellato; il che ottimamente dichiarava l'inscrizzione che sotto si vedeva, dicendo:

COSMUS MEDICES, VETERE HONESTISSIMO OMNIUM SENATUS
CONSULTO RENOVATO, PARENS PATRIAE APPELLATUR.

Essendo, nella parte di sopra del medesimo pilastro in cui la nicchia posta era, un proporzionato quadretto nel quale il magnifico Piero suo figliuolo ritratto era, padre del glorioso Lorenzo detto anch'egli il Vecchio, verace et unico mecenate de' tempi suoi et ottimo conservatore dell'italica tranquillità, la cui statua si vedeva nell'altra predetta nicchia, corrispondente a quella del vecchio Cosimo, avendo nel quadretto, che in simil modo sopra il capo dipinto gl'era, il ritratto anch'egli del magnifico Giuliano suo fratello e di papa Clemente padre. E nel quadro maggiore, corrispondente all'istoria di Cosimo, l'istoria del publico concilio fatto da tutti i principi italiani, ove si vedeva col consiglio di Lorenzo fermarsi quella tanto stabile e tanto prudente congiunzione per cui l'Italia, mentre ch'ei visse e ch'ella durò, si vide condotta al colmo delle felicità, sì come poi, morendo egli e venendo ella meno, si vide precipitare in tanti incendii et in tante calamità e rovine. Il che non meno chiaramente mostrava l'inscrizione che sotto avea, dicendo:

LAURENTIUS MEDICES BELLI ET PACIS ARTIBUS EXCELLENS DIVINO
SUO CONSILIO CONIUNCTIS ANIMIS ET OPIBUS PRINCIPUM ITALORUM
ET INGENTI ITALIAE TRANQUILLITATE PARTA PARENS OPTIMI
SAECULI APPELLATUR.

Ma venendo poi nella piaz[z]etta in cui (come s'è detto) l'ottangular teatro, che così lo chiameremo, posto era, cominciandomi da questa prima entrata e da man destra girando, diremo che questa prima parte era da quest'arco dell'entrata occupata, sopra il quale, in un fregio corrispondente nell'altez[z]a al terzo et ultimo ordine del teatro, si vedevano in quattro ovati i ritratti di Giovanni di Bicci, padre del vecchio Cosimo, e quello di Lorenzo suo figliuolo, del medesimo Cosimo fratello, da cui questo fortunato ramo de' Medici oggi regnanti ebbe origine, e quello di Pierfrancesco, di questo Lorenzo figliuolo, con quello d'un altro Giovanni similmente, padre del prima detto bellicoso signor Giovanni. Ma nella seconda faccia pur dell'ottangolo e con l'entrata congiunta, si vedeva fra due ornatissime colonne in una gran nicchia a sedere, e di marmo come tutte l'altre statue figurata, con la regal bacchetta in mano, Caterina la valorosa regina di Francia, con tutti quegl'altri ornamenti che alla leggiadra et eroica architettura si ricercano. Ma il terzo ordine di sopra, ove si è detto che venivano i quadri di pittura, era per la costei istoria figurata la medesima Regina con gran maestà a sedere, che dinanzi aveva due bellissime donne armate: l'una delle quali, presa per la Francia che inginocchiata stava, pareva che gli presentasse un bellissimo putto di regal corona adorno, sì come l'altra in piede, che la Spagna era, pareva che in simil guisa gli presentasse una leggiadrissima fanciulla, volendo pel putto intendere del cristianissimo Carlo Nono, che oggi per re dalla Francia è reverito, e per la fanciulla l'elettissima regina di Spagna, moglie dell'ottimo re Filippo. Vedevasi poi intorno alla medesima Caterina con molta reverenzia alcuni altri più piccoli putti stare, presi per gl'altri suoi graziosissimi figliuoletti, a' quali pareva che una Fortuna serbasse scettri e corone e regni. E perché fra questa nicchia e l'arco dell'entrata per la sproporzion del sito avanzava alquanto di luogo, causato dal non si esser voluto far l'arco sgraziatamente a sg[h]embo, ma proporzionato e retto, per tal cagione fu ivi ancora quasi in una nicchia un quadro di pittura messo, in cui con la Prudenza e con la Liberalità, che insieme abbracciate stavano, molto argutamente si dimostrava con quali guide la casa de' Medici fusse a tanta altez[z]a pervenuta; avendo sopra loro in un quadretto, simile per larghez[z]a agl'altri del terzo ordine, dipinto una umile e devota Pietà, conosciuta per la cicogna che l'era a canto; intorno alla quale si vedevano molti Angeletti che gli mostravano diversi disegni e modelli delle molte chiese e monisteri e conventi da quella magnifica e religiosa famiglia fabbricati. Ma seguitando nella terza faccia dell'ottangolo, perché ivi veniva l'arco onde si usciva del teatro, sopra il frontespizio di quello, come cuore di tanti nobilissimi membri, fu posta la statua dell'eccellentissimo et affabilissimo Principe e Sposo, con il motto a' piedi di: SPES ALTERA FLORAE, essendo nella fregiatura di sopra (intendendosi sempre che arrivasse all'altez[z]a del terzo ordine), a corrispondenza dell'altro arco, ove (come si è detto) erano stati posti quattro ritratti, in questo luogo ancora quattro altri ritratti simili de' suo' illustrissimi fratelli in simil modo accomodati: quelli cioè de' due reverendissimi cardinali, Giovanni di veneranda memoria e del graziosissimo Ferdinando, e quelli del bellissimo signor don Garzia e dell'amabilissimo signor don Pietro. Ma ritornando alla quarta faccia dell'ottangolo, con ciò sia che il canto delle case che ivi sono, non lasciando sfondare in dentro, non permettesse che potesse farvisi la solita nicchia, in quella vece con bello artifizio vi si vedeva accomodato e conrispondente a quelle un grandissimo epitaffio, dicente:

HI QUOS SACRA VIDES REDIMITOS TEMPORA MITRA
PONTIFICES TRIPLICI ROMAM TOTUMQUE PIORUM
CONCILIUM REXERE PII: SED QUI PROPE FULGENT
ILLUSTRI E GENTE INSIGNES SAGULISVE TOGISVE
HEROES CLARAM PATRIAM POPULUMQUE POTENTEM
IMPERIIS AUXERE SUIS CERTAQUE SALUTE.
NAM SEMEL ITALIAM DONARUNT AUREA SECLA
CONIUGIO AUGUSTO DECORANT NUNC ET MAGE FIRMANT.

Essendogli di sopra, in luogo d'istoria e di quadro, in due ovati dipinte le due imprese del fortunato Duca, cioè il Capricorno con le sette stelle e col FIDUCIA FATI, e la Donnola con il motto dell'AMAT VICTORIA CURAM dell'eccellentissimo Principe. Erano poi nelle tre nicchie, che nelle tre facce seguenti venivano, le statue de' tre Pontefici massimi che sono di quella famiglia usciti, venuti anch'essi tutti lieti ad intervenire ed onorare cotanta festa, quasi che ogni favore umano e divino et ogni eccellenzia d'arme e di lettere, e di prudenza e di religione et ogni sorte d'imperio fusse a gara concorso a fare auguste e felici quelle splendidissime noz[z]e. Et erano questi Pio Quarto, poco innanzi a miglior vita trapassato, sopra il cui capo nella sua istoria dipinto si vedeva come, dopo che a Trento furono terminate le intricate dispute e fornito il sagrosanto Concilio, i due cardinali legati gli presentavano gl'inviolabili Decreti di quello; sì come in quella di Leon Decimo si vedeva l'abboccamento da lui fatto con Francesco Primo re di Francia, per il quale con prudentissimo consiglio raffrenò l'impeto di quel bellicoso e vittorioso Principe, sì che non mise sotto sopra, come arebbe per avventura fatto e certo poteva fare, tutta l'Italia; et in quella di Clemente Settimo la coronazione da lui fatta in Bologna del gran Carlo Quinto. Ma nell'ultima faccia poi, percuotendo nell'acuto angolo delle case de' Carnesecchi, dal quale veniva non poco la dirittura della faccia dell'ottangolo intercisa, con artifizio nondimeno grazioso e vago si fece, a sembianza dell'altro, ma alquanto in fuori, rigirare un altro maestrevole epitaffio, che diceva:

PONTIFICES SUMMOS MEDICUM DOMUS ALTA LEONEM,
CLEMENTEM DEINCEPS, EDIDIT INDE PIUM.
QUID TOT NUNC REFERAM INSIGNES PIETATE VEL ARMIS
MAGNANIMOSQUE DUCES EGREGIOSQUE VIROS?
GALLORUM INTER QUOS LATE REGINA REFULGET.
HAEC REGIS CONIUX, HAEC EADEM GENITRIX.

Quasi tale era di dentro il prescritto teatro, il quale, benché assai minutamente descritto paia, non per ciò resta che una infinità d'altri ornamenti di pitture, d'imprese e di mille bellissime e bizarrissime fantasie, che per le cornici doriche e per molti vani, che secondo l'occasione poste erano e che facevano di sé ricchissima e graziosissima vista, come non essenziali, per non tediare il per avventura stanco lettore, lasciate non si sieno, potendosi chi di sì fatte cose di diletta immaginare, che nessuna parte rimanesse che con somma maestria e con sommo giudizio e con infinita leggiadria condotta non fusse, dando vaghissimo e piacevolissimo fine all'altez[z]a sua le molt'armi che proporzionatamente scompartite si vedevano; e queste erano: Medici ed Austria per l'illustrissimo Principe e Sposo con Sua Altezza; Medici e Tolledo per lo Duca padre; Medici et Austria un'altra volta, conosciuta per le tre penne esser dell'antecessor suo Alessandro; e Medici e Bologna di Piccardia per Lorenzo duca d'Urbino; e Medici e Savoia per lo duca Giuliano; e Medici et Orsini per il doppio parentado di Lorenzo il Vecchio e di Piero suo figliuolo; e Medici e Vipera per il già detto Giovanni, marito di Caterina Sforza; e Medici e Salviati per il glorioso signor Giovanni suo figliuolo; e Francia e Medici per la serenissima Regina; e Ferrara e Medici per lo Duca con una delle sorelle dell'eccellentissimo Sposo; et Orsini e Medici per l'altra gentilissima sorella maritata all'illustrissimo signor Paulo Giordano duca di Bracciano. Resta ora a descrivere l'uscita del teatro e l'ultima parte di quella, la quale corrispondendo con la grandezza, con la proporzione e con ciascuna altra sua parte alla prima detta entrata, crederrò che poca fatica ci resterà a dimostrarla a discreto lettore; eccetto però che nell'arco, che per faccia di questa era e che verso Santa Maria del Fiore riguardava, come luogo meno principale, era stato senza statue e con alquanto minor magnificenzia fabricato, avendo in lor vece sopra l'arco messo un grandissimo epitaffio dicente:

VIRTUS RARA TIBI, STIRPS ILLUSTRISSIMA, QUONDAM
CLARUM TUSCORUM DETULIT IMPERIUM,
QUOD COSMUS FORTI PREFUNCTUS MUNERE MARTIS
PROTULIT ET IUSTA CUM DITIONE REGIT.
NUNC EADEM MAIOR DIVINA E GENTE IOANNAM
ALLICIT IN REGNUM CONCILIATQUE TORO.
QUAE SI CRESCET ITEM VENTURA IN PROLE NEPOTES,
AUREA GENS, TUSCIS EXORIENTUR AGRIS.

Ma ne' duoi pilastri che eran nel principio dell'andito, o vestibulo che chiamato ce l'abbiamo, sopra i quali si rigirava l'arco dell'uscita e sopra cui era la statua dell'inclito Sposo, si vedevano due nicchie, in una delle quali si vedeva posta la statua del gentilissimo duca di Nemors Giuliano il Giovane, fratello di Leone e gonfaloniere di Santa Chiesa, che anch'egli nel quadretto che sopra gli stava avea il ritratto del magnanimo cardinale Ippolito suo figliuolo, con l'istoria, che verso l'uscita si distendeva, del teatro Capitolino, dal popol romano, l'anno MDXIII, dedicatogli, con l'inscrizzione che per nota renderla diceva:

IULIANUS MEDICES EXIMIAE VIRTUTIS ET PROBITATIS ERGO SUMMIS
A POP. ROM. HONORIBUS DECORATUR RENOVATA SPECIE ANTIQUAE
DIGNITATIS AC LAETITIAE.

E nell'altra corrispondente a questa e, sì come questa, ritta et armata, si vedeva similmente posta la statua del duca d'Urbino Lorenzo il Giovane tenente in mano la spada, che sopra sé nel quadretto anch'egli aveva il ritratto di Piero suo padre, avendo nell'istoria figurato quando da Fiorenza sua patria gli fu con tanto fasto dato il bastone del generalato, con la sua inscrizzione anch'egli per dichiararla, che diceva:

LAURENTIUS ME. IUNIOR MAXIMA INVICTAE VIRTUTIS INDOLE,
SUMMUM IN RE MILITARI IMPERIUM MAXIMO SUORUM CIVIUM
AMORE ET SPE ADIPISCITUR.

DEL CANTO ALLA PAGLIA
Ma al Canto, che dalla paglia che continuamente vi si vende alla Paglia è chiamato, si fece l'altro bellissimo e non men di nessun degl'altri ricchissimo e pomposissimo arco. Parrà forse ad alcuno, perciò che tutti o la maggior parte di questi ornamenti in supremo grado di bellezza e d'eccellenza d'artifizio e di pompa e di ricchezza sono stati da noi celebrati, che ciò sia fatto per una certa maniera di scrivere al lodare et all'amplificare inclinata: ma rendasi pur certo ciascuno che, oltre all'essersi di gran lunga lasciato con essi a dietro quante mai di sì fatte cose in questa città e forse altrove si sien fatte, che elle furono tali e con tanta grandez[z]a e magnificenza e liberalità da' magnanimi Signori ordinate e dagl'artefici condotte, che elle avanzavano di molto ogni credenza e tolgono a quali si voglia scrittore ogni forza et ogni possanza di potere con la penna all'eccellenza del fatto arrivare. Or ritornando, dico che in questo luogo, in quella parte cioè ove la strada che dall'Arcivescovado camminando per entrare nel Borgo di San Lorenzo fa, dividendo la prima detta strada della Paglia una perfetta croce et un perfetto quadrivio, fu fatto il predetto ornamento, molto al quadrifronte antico tempio di Iano simigliante. E questo, perciò che quindi la cattedral chiesa si vedeva, fu da questi religiosissimi Principi ordinato che alla sagrosanta religione si dedicasse: in cui, quanto la Toscana tutta e Fiorenza particolarmente in tutti i tempi stata eccellente sia, non credo che di mestier faccia che molto in dimostrarlo mi prenda fatica. Et in questa, intenzione fu che, avendo fatto da Fiorenza per sua ministre e compagne (come nel principio si disse) condurre seco a ricevere nel primo abboccamento la novella Sposa alcune delle sue doti o proprietà che posta in grandez[z]a l'avevano e delle quali ben gloriar si poteva, di mostrare che qui a non men necessario ufizio lasciato avesse la Religione, che, aspettandola, in un certo modo la introducesse nella grandissima et ornatissima chiesa a lei vicina. Vedevasi adunque questo arco, che in molto larga strada era (come si è detto) formato di quattro ornatissime facce: la prima delle quali si rappresentava agl'occhi di chi verso i Carnesecchi veniva; l'altra il gambo della croce seguendo e verso il Duomo di San Giovanni e di Santa Maria del Fiore riguardando, lasciava per traverso della croce due altre facce, di cui l'una guardava verso San Lorenzo e l'altra verso l'Arcivescovado. E per descrivere ordinatamente e con quanta più facilità sia possibile la bellez[z]a et il componimento del tutto, dico ancora, dalla parte dinanzi incominciandomi, a cui senza punto mancare era nella composizion degl'ornamenti quella di dietro simigliantissima, che nel mez[z]o della larga strada si vedeva la molto larga entrata dell'arco che si alzava convenientissimo spazio; nell'uno e l'altro lato del quale si vedevano due grandissime nicchie, messe in mez[z]o da due simili colonne corintie, tutte di mitrie, di turriboli, di calici, di sagrati libri e d'altri sacerdotali instrumenti, in vece di trofei e di spoglie, dipinte. Sopra le quali e sopra l'ordinate cornici e fregi, che sportavano alquanto più in fuori di quelli che sopra l'arco del mez[z]o venivano, ma di altez[z]a apunto gli pareggiavano, si vedeva fra l'una colonna e l'altra girare un'altra cornice, come di porta o di finestra di quarto tondo, che, sembrando di formare una particolar nicchia, faceva una vista leggiadra e vaga quanto più immaginar si possa. Sorgeva sopra quest'ultima cornice poi una fregiatura alta e magnifica quanto conveniva alla proporzione di tanto principio, con certi mensoloni intagliati e messi ad oro, che sopra le descritte colonne perpendiculare apunto venivano; sopra i quali si posava un'altra magnifica e molto adorna cornice con quattro grandissimi candellieri, pur ad oro messi, e come tutte le colonne, basi, capitelli, cornici et architravi e tutte l'altre cose, di diversi intagli e colori tócchi, i quali anch'essi al diritto de' mensoloni e delle descritte colonne venivano. Ma nel mez[z]o poi e sopra i detti mensoloni alzandosi, si vedevan due cornici muoversi et a poco a poco fare angolo e finalmente in un frontespizio convertirsi; sopra il quale, in una molto bella e ricca base, si posava a sedere con una croce in mano una grandissima statua, presa per la Santissima Cristiana Religione, a piè di cui, e che in mez[z]o la mettevano, si vedevan due altre statue simili, che sopra la cornice del frontespizio già detto di giacer sembravano: l'una delle quali, cioè quella da man destra, che tre putti d'intorno aveva, era per la Carità figurata, e l'altra per la Speranza. Nel vano poi, o per dir meglio nell'angolo del frontespizio, si vedeva per principale impresa di questo arco l'antico labaro con la croce e col motto IN HOC VINCES a Costantin mandato, sotto a cui con bellissima grazia si vedeva posare una molto grand'arme de' Medici con tre Regni papali, accomodandosi al concetto della Religione per i tre Pontefici che in essa di quella Casa stati sono. Et in sul primo cornicion piano si vedeva poi una statua corrispondente alla nicchia già detta, che fra le due colonne veniva; l'una delle quali, cioè quella dalla parte destra, era una bellissima giovane tutta armata con l'aste e con lo scudo, quale soleva figurarsi anticamente Minerva, eccetto che in vece della testa di Medusa, si vedeva a questa una gran croce rossa nel petto: il che faceva agevolmente conoscerla per la novella Religion di Santo Stefano, da questo glorioso e magnanimo Duca religiosamente fondata; sì come la sinistra, che in vece d'armi tutta si vedeva di sacerdotali e pacifiche vesti adorna e, in vece d'aste, con una gran croce in mano, col bellissimo componimento dell'altre torreggiando sopra tutta la machina, faceva una vista pomposissima e meravigliosa. Nella fregiatura poi, che veniva fra questa ultima cornice e l'architrave, che posava sopra le colonne ove per l'ordine dello spartimento venivan tre quadri, si vedevano dipinte le tre spezie di vera religione che sono state dalla creazione del mondo in qua. Nel primo de' quali, e che da man destra era venendo sotto l'armata statua, si vedeva dipinta quella sorte di Religione che regnò nel tempo della legge naturale in quei pochi che l'ebbono vera e buona, se ben non ebbero perfetta cognizion di Dio: onde si vedeva figurato Melchisedech offerire pane e vino et altri frutti della terra; sì come in quello dalla parte sinistra, e che anch'egli in simil maniera sotto la statua della pacifica Religion veniva, si vedeva l'altra Religion da Dio ordinata per le man' di Mosè più perfet[t]a della prima, ma tutta d'ombre e di figure talmente velata, che interamente l'ultima e perfetta chiarez[z]a del divin culto scoprire non lasciavano: per significazion della quale si vedeva Mosè et Aron sagrificare a Dio il pasquale agnello. Ma in quello del mezzo, che veniva appunto sotto le grandi e prima descritte statue di Religione, Carità e Speranza e sopra l'arco principale, e che era a proporzion del maggiore spazio degl'altri molto più capace, vi si vedeva figurato un altare, sopravi un calice con un'ostia, che è il vero et evangelico sagrifizio: intorno al quale si vedevano inginocchiati alcuni e di sopra uno Spirito Santo in mez[z]o a molti Angeletti che tenevano un cartiglio in mano, in cui, perciò che scritto era IN SPIRITU ET VERITATE, pareva che anch'essi cantando lo replicassero, intendendo per lo Spirito quello in quanto riguarda al sacrifizio naturale e corporeo, e Verità per quello che appartiene al legale, che tutto fu per ombra e figura. Essendo sotto a tutta l'istoria un bellissimo epitaffio che, da due altri Angeli retto, si posava su la cornice dell'arco del mez[z]o, dicendo:

VERAE RELIGIONI QUAE VIRTUTUM OMNIUM FUNDAMENTUM, PUBLICARUM
RERUM FIRMAMENTUM PRIVATARUM ORNAMENTUM ET HUMANAE
TOTIUS VITAE LUMEN CONTINET, HETRURIA SEMPER DUX ET
MAGISTRA ILLIUS HABITA ET EADEM NUNC ANTIQUA ET SUA PROPRIA
LAUDE MAXIME FLORENS LIBENTISSIME CONSECRAVIT.

Ma venendo alla parte più bassa e tornando alla nicchia, che dalla parte destra fra le due colonne e sotto l'armata Religione veniva, e che, benché di pittura, per virtù del chiaro e scuro rilevata sembrava, dico che ivi la statua del piissimo presente Duca in abito di Cavaliere dell'Ordine di Santo Stefano si vedeva, con la croce in mano e con la seguente inscrizzione sopra il capo, e sopra la nicchia che intagliata veramente pareva, dicendo:

COSMUS MEDIC. FLOREN. ET SENAR. DUX II SACRAM D. STEPHANI
MILITIAM CHRISTIANAE PIETATIS ET BELLICAE VIRTUTIS DOMICILIUM
FUNDAVIT ANNO MDLXI.

Sì come nella base della medesima nicchia fra i duoi piedistalli delle colonne, con la proporzion corintia composti, si vedeva dipinto la presa di Damiata, seguita per opera de' fortissimi Cavalieri fiorentini, augurando quasi a questi suoi novelli una simil gloria e valore. E nella lunetta, o mez[z]o tondo, che sopra le due colonne veniva, si vedeva poi l'arme sua propria e particolare delle palle, che per la croce rossa, che con bellissima grazi[a] accomodata ci era, faceva chiaramente conoscere quella essere del Gran Maestro e capo di essa religione. Ora, per universale e publico contento e per rinnovare la memoria di coloro i quali, di questa città o di questa provincia usciti, per integrità di costumi e per santità di vita chiari furono e di qualche venerata religion fondatori, e per accendere gl'animi de' riguardanti all'imitazione della bontà e perfezione di essi, parse che dicevol cosa fusse, avendo dalla parte destra (come si è detto) messo la statua del Duca, della sagra milizia di Santo Stefano fondatore, dall'altra collocare quella di S. Giovanni Gualberto, che cavaliere, secondo l'uso di que' tempi, fu anch'egli di corredo, e fu primo fondatore e padre della religion di Valembrosa; il quale convenevolmente (sì come il Duca sotto l'armata) anch'egli sotto la sacerdotale statua di Religione, in abito similmente di cavaliere che al nimico perdonava posto si vedeva, avendo nel frontespizio sopra la nicchia una simil arme de' Medici con tre cappelli cardinaleschi, e nella base l'istoria del miracolo, occorso alla Badia a Settimo, del frate che per ordine del predetto San Giovan Gualberto, a confusione degl'eretici e simoniaci, passò con la sua benedizione e con una croce in mano per mez[z]o d'un ardentissimo fuoco, et avendo l'inscrizzione similmente in un quadretto di sopra, che tutto questo dichiarava dicendo:

IOANNES GUALBERTUS EQUES NOBILISS. FLOREN. VALLIS UMBROSIAE
FAMILIAE AUCTOR FUIT ANNO MLXI.

Col quale veniva terminata questa bellissima et ornatissima principal faccia. Ma entrando sotto l'arco vi si vedeva una assai spaziosa loggia, o andito o vestibulo che chiamar ce lo vogliamo, nella cui guisa si vedevano stare apunto le tre altre entrate, le quali, congiugnendosi insieme nella croce delle due strade, lasciavano in mez[z]o un quadrato spazio di circa otto braccia per ciascun verso, ove i quattro archi, alzandosi all'altez[z]a di quei di fuori e girando i peducci in volta come se a nascer sopra una cupoletta v'avesse, quando eran pervenuti alla intorno rigirante cornice et ove a cominciare avuto avrebbe a volgersi la volta della cupola, nasceva un ballatoio di dorati balaustri, sopra il quale si vedevano molto vez[z]osamente in giro ballare un coro di bellissimi Angeletti e cantare con un concento soavissimo, rimanendovi per più grazia e perché lume sotto l'arco per tutto si vedesse, in cambio di cupola, il ciel libero ed aperto. Negli spazii poi, o spigoli che si chiamino, de' quattro angoli, che, nascendo stretti, di necessità quanto più s'alzavano verso la cornice, secondando il giro dell'arco, più s'aprivano, erano con non men grazia in quattro tondi i quattro animali dipinti misticamente da Ezechiel, e dal divino Giovanni messi per i quattro scrittori del sagro Evangelio. Ma tornando alla prima di queste quattro logge, o vestibuli che chiamati ce gl'abbiamo, vi si vedevano le volte con molti vaghi e leggiadri spartimenti tutte adorne, e dipinte con varie istoriette e d'armi ed imprese di quelle religioni di cui ell'eran sotto o d'accanto et alle quali elle principalmente servivano. Sì come nella facciata di questa prima da man destra, e che con la nicchia del Duca congiunta era, si vedeva in uno spazioso quadro dipinto il medesimo Duca dar l'abito a' suoi Cavalieri con quegl'ordini e cirimonie che consueti sono di fare; scorgendosi nella parte più lontana, che Pisa rappresentava, la nobile edificazione del palazzo, della chiesa e dello spedale; e nell'imbasamento suo in uno epitaffio, per dichiarazione dell'istoria, si leggevano queste parole:

COSMUS MED. FLOR. ET SENAR. DUX II EQUITIBUS SUIS DIVINO
CONSILIO CREATIS MAGNIFICE PIEQUE INSIGNIA ET SEDEM PRAEBET
LARGEQUE REBUS OMNIBUS INSTRUIT.

Sì come nell'altra a rincontro di questa, appiccata con la nicchia di San Giovan Gualberto, si vedeva quando questo medesimo Santo in mez[z]o ad asprissimi boschi fondava il primo e principal monistero, con l'inscrizione anch'egli nella base che diceva:

S. IO. GUALBERTUS IN VALLEMBROSIANO MONTE AB INTERVENTORIBUS
ET ILLECEBRIS OMNIBUS REMOTO LOCO DOMICILIUM PONIT
SACRIS SUIS SODALIBUS.

Ma spedita la faccia dinanzi et a quella di dietro trapassando, per manco impedire l'intelligenzia nel medesimo modo descrivendola, diremo, come anche s'è prima detto, che e nell'altezza e nella grandez[z]a e negli spartimenti e nelle colonne, e finalmente in tutti gl'altri ornamenti, era del tutto alla descritta corrispondente, eccetto che dove quella nella più alta cima del mez[z]o aveva le tre già dette grandi statue, Religione, Carità e Speranza, questa in quella vece aveva solo una bellissima ara, tutta secondo l'uso antico composta ed adorna, sopra la quale (sì come di Vesta si legge) si vedeva ardere una vivacissima fiamma; e da man destra, cioè di verso il San Giovanni, ergersi una grande statua onestamente vestita, tutta verso il ciel fissa, presa per la Vita contemplativa, la quale per pendiculare dirittura veniva apunto sopra la gran nicchia in mez[z]o alle due colonne, sì come nell'altra faccia s'è detto; e dall'altra parte un'altra grande statua a questa simigliante, ma tutta sbracciata e tutta snella e con la testa di fiori incoronata, presa per la Vita attiva, con le quali venivano attamente comprese tutte le parti che alla cristiana religione appartengono. Nella fregiatura fra l'un cornicione e l'altro poi, che corrispondeva a quello dell'altra parte, e che come quello era anch'egli scompartito in tre quadri, si vedeva nel maggiore, e che nel mez[z]o era, tre uomini in abito romano presentare XII fanciulletti ad alcuni venerabili vecchi toscani, acciò che da loro, nella lor religione ammaestrati, dimostrassero di quanta eccellenzia appresso i Romani e tutte l'altre nazioni fusse anticamente la toscana religione avuta; col motto, per dichiarazione di questo, da quella perfetta Legge di Cicerone cavato, che diceva: ETRURIA PRINCIPES DISCIPLINAM DOCETO; sotto a cui era l'epitaffio, simile e conrispondente a quello nell'altra faccia descritto, che diceva anch'egli:

FRUGIBUS INVENTIS DOCTAE CELEBRANTUR ATHENAE
ROMA FEROX ARMIS IMPERIOQUE POTENS,
AT NOSTRA HAEC MITIS PROVINCIA ETHRURIA RITU
DIVINO ET CULTU NOBILIORE DEI,
UNAM QUAM PERHIBENT ARTES TENUISSE PIANDI
NUMINIS ET RITUS EDOCUISSE SACROS.
NUNC EADEM SEDES VERAE EST PIETATIS ET ILLI
HOS NUMQUAM TITULOS AUFERET ULLA DIES.

Ma nell'un de' due quadri minori et in quello che da man destra veniva, perché pare che l'antica religion Gentile, che non senza cagione dall'occaso era posta, in due parti divisa sia et in augurio et in sagrifizio massimamente consista, si vedeva dipinto, secondo quell'uso, un antico sacerdote con cura mirabile star tutto intento a mirare l'interiora de' sagrificati animali, che in un gran nappo da' ministri del sagrifizio l'erano messe innanzi; e nell'altro un augure a questo simile, col ritorto lituo in mano, disegnare in aria le region' comode a pigliare gl'augurii con certi uccelli che disopra volarvi sembravano. Ora, discendendo più a basso et alle nicchie venendo, dico che in quella, che da man destra era, si vedeva S. Romualdo, il quale in questo nostro paese - terra appropriata e quasi naturale di religione e di santità - su gl'aspr[i]ssimi monti Apennini seminò il sagro eremo di Camaldoli, ond'ebbe quella religione nome e principio, con l'inscrizzione sopra la nicchia, che diceva:

ROMUALDUS IN HAC NOSTRA PLENA SANCTITATIS TERRA CAMALDULENSIUM
ORDINEM COLLOCAVIT. ANNO MXII.

E con l'istoria nella base dell'addormentato romito che in sogno vedeva la scala simile a quella di Iacob, che sopra le nugole trapassando ascendeva fino al cielo. Ma nella faccia, che con la nicchia era congiunta e che sotto il vestibulo, come dell'altra si disse, trapassava, si vedeva dipinto l'edificazione nel predetto asprissimo luogo, fatta con cura e magnificenzia mirabile, del predetto eremo, con l'inscrizzione, che dichiarando diceva:

SANCTUS ROMUALDUS IN CAMALDULENSI SYLVESTRI LOCO DIVINITUS
SIBI OSTENSO ET DIVINAE CONTEMPLATIONI APTISSIMO SUO
GRAVISSIMO COLLEGIO SEDES QUIETISSIMAS EXTRUIT.

Nella nicchia dalla parte sinistra si vedeva poi il beato Filippo Benizi, nostro cittadino, poco manco che fondatore e primo senza dubbio ordinatore dell'Ordine de' Servi; il quale, benché fusse da sette altri nobili fiorentini accompagnato, non entrando tutti in una nicchia, vi fu egli solo, come il più degno, collocato; con l'inscrizzione sopra, che diceva:

PHILIPPUS BENITIUS CIVIS NOSTER INSTITUIT ET REBUS OMNIBUS
ORNAVIT SERVORUM FAMILIAM. ANNO MCCLXXXV.

Con l'istoria, similmente nella base, dell'Annunziata che da molti Angeletti era sostenuta, e con uno fra gl'altri che un bel vaso di fiori sembrava di versare sopra un grandissimo popolo che chiedendo gli stava, preso per le innumerabili grazie che per sua intercessione tutto il giorno si veggano fare a que' fedeli che con devoto zelo se gli raccomandano; e con l'altra istoria nel gran quadro, che sotto l'andito passava, del medesimo S. Filippo, che co' sette predetti nobili cittadini, lasciando l'abito civile fiorentino e pigliando quello della religion de' Servi, si mostravano molto occupati in fare edificare il bellissimo monistero che oggi in Fiorenza di lor si vede, e che allora fuori era, e la venerabile et ornatissima e per gl'infiniti miracoli per tutto ‘l mondo celebratissima chiesa dell'Annunziata, stava poi sempre capo di quell'Ordine; con l'inscrizzione, che diceva:

SEPTEM NOBILES CIVES NOSTRI IN SACELLO NOSTRAE URBIS TOTO
NUNC ORBE RELIGIONIS ET SANCTITATIS FAMA CLARISSIMO, SE TOTOS
RELIGIONI DEDUNT ET SEMINA IACIUNT ORDINIS SERVORUM
D. MARIAE VIRG.

Restano le due facce, che braccia quasi, come si è detto, al diritto gambo della croce facevano, minori assai delle due già descritte, causato dalla strettez[z]a delle due strade che quindi si partono; onde per ciò manco spazio alla magnificenzia dell'opera venendo a concedere, e per conseguente per non uscir della debita proporzione di altez[z]a, molto minore essendo, si vedeva giudiziosamente in vece delle due nicchie l'arco che ivi adito dava, da due sole colonne in mezzo messo; sopra il quale nasceva una fregiatura proporzionata, in mez[z]o di cui con un quadro di pittura si finiva l'ornamento di questa faccia, non già senza quegl'altri infiniti abbigliamenti et imprese e pitture, quali in tai luoghi pareva che dicevoli fussero. Ma essendo tutta questa macchina alla gloria e potenza della vera Religione et alla memoria delle sue gloriose vittorie dedicata, pigliando le due più nobili e principali, ottenute contro a' due principali e potentissimi avversarii, la Sapienza umana cioè, sotto cui si comprendono i filosofi e gl'eretici, e la mondana Potenza. Dalla parte che verso l'Arcivescovado riguardava si vedeva figurato quando San Piero e San Paulo e gl'altri Appostoli, pieni di divino spirito, disputavano con una gran quantità di Filosofi e di molti altri di umana sapienzia ripieni, de' quali alcuni più confusi si vedevano gettare o stracciare i libri che in man tenevano, et altri, come Dionisio Areopagita, Iustino, Panteon e simili, tutti umili e devoti venire a quelli in segno di conoscere et accettare la verità evangelica, col motto per dichiarazion di questo che diceva: NON EST SAPIENTIA NON EST PRUDENTIA. Ma nell'altre verso l'Arcivescovado, a rincontro di questo si vedevano i medesimi San Piero e San Paulo e gl'altri, presente Nerone e molti armati suoi satelliti, intrepidamente e liberamente predicare la verità dell'Evangelio, con il motto: NON EST FORTITUDO NON EST POTENTIA , intendendosi quel che in Salamone, onde il motto è preso, segue: CONTRA DOMINUM. Nelle quattro facce poi, che sotto le due volte di questi due archi venivano di verso l'Arcivescovado, in una si vedeva il beato Giovanni Colombini, onorato cittadin sanese, dar principio alla Compagnia degl'Ingesuati, spogliandosi nel Campo di Siena l'abito cittadinesco, e vestendosi da vile e povero, dare il medesimo abito a molti che con gran zelo ne lo ricercavano, con l'inscrizzione che diceva:

ORIGO COLLEGII PAUPERUM QUI AB IESU COGNOMEN ACCEPERUNT
CUIUS ORDINIS PRINCEPS FUIT IOANNES COLOMBINUS DOMO
SENENSIS. ANNO MCCCLI.

E nell'altra a rincontro si vedevano altri gentiluomini pur sanesi dinanzi al vescovo d'Arez[z]o Guido Pietramalesco, a cui dal Papa era stato commesso che ricercasse la vita loro, star molto intenti a mostrargli la volontà e desiderio che aveano di crear l'Ordine di Monte Uliveto, la quale si vedeva da quel vescovo approvare, confortandogli a mettere in atto l'edificazione di quel santissimo e grandissimo monistero, che poi a Mont'Uliveto nel contado di Siena fabbricarono, di cui mostravano aver portato quivi un modello, con l'inscrizione che diceva:

INSTITUITUR SACER ORDO MONACORUM QUI AB OLIVETO MONTE
NOMINATUR AUCTORIBUS NOBILIBUS CIVIBUS SENENSIBUS. ANNO
MCCCXIX.

Ma dalla parte di verso S. Lorenzo si vedeva l'edificazione del famosissimo oratorio della Vernia, a spese in buona parte de' religiosi conti Guidi, signori allora di quel paese, e per opera del glorioso S. Francesco, il quale, mosso dalla solitudine del luogo, vi si ridusse e vi fu visitato e segnato dal Nostro Signore Iesù Cristo crocifisso delle stìmate, con l'inscrizione che tutto questo dichiarava dicendo:

ASPERRIMUM AGRI NOSTRI MONTEM DIVUS FRANCISCUS ELEGIT IN
QUO SUMMO ARDORE DOMINI NOSTRI SALUTAREM NECEM CONTEMPLARETUR
ISQUE NOTIS PLAGARUM IN CORPORE IPSIUS EXPRESSIS
DIVINITUS CONSECRATUR.

Sì come al dirimpetto vi si vedeva la celebrazione fatta in Fiorenza del Concilio sotto Eugenio Quarto, quando la Chiesa greca, stata tanti anni discordante con la latina, si riunì e reintegrossi, si può dire, la vera fede nella pristina chiarezza e sincerità; il che faceva similmente manifesto la sua inscrizzione, dicendo:

NUMINE DEI OPTIMI MAX. ET SINGULARI CIVIUM NOSTRORUM RELIGIONIS
STUDIO ELIGITUR URBS NOSTRA IN QUA GRECIA AMPLISSIMUM
MEMBRUM A CHRISTIANA PIETATE DISIUNCTUM RELIQUA
ECCLESIAE CORPORI CONIUNGERETUR.

DI SANTA MARIA DEL FIORE
Alla chiesa poi cattedrale et al principalissimo Duomo, quantunque per sé ornatissimo e stupendissimo sia, parve nondimeno, dovendo (come fece), rincontrata da tutto ‘l clero, la novella Signora fermarvisi, di abbellirla quanto più pomposamente e religiosamente si poteva e di lumi e di festoni e di scudi, e d'una innumerabile e molto bene scompartita quantità di drappelloni, facendo massimamente alla principal porta di conponimento ionico un meraviglioso e graziosissimo ornamento, in cui oltre al resto, che fu in vero ottimamente inteso, molto ricche e molto singolari massimamente apparvero dieci istoriette de' gesti della gloriosa Madre del Nostro Signor Iesù Cristo, di basso rilievo fatte. Le quali, perciò che di mirabile artifizio furono da chi le vide giudicate, si spera che un giorno a concorrenza di quelle stupende e meravigliose del tempio di San Giovanni, ma, come in più fiorito secolo, più belle e più vaghe, sieno di bronzo per vedersi: ma allora, benché di terra, tutte d'oro si vedevano coperte, e con grazioso spartimento nella porta di legno, che d'oro anch'ella sembrava, erano commesse. Sopra cui, oltre a una grandissima arme de' Medici con le chiavi papali e col regno, tenuta dall'Operazione e dalla Grazia, vi si vedevano in una molto bella tela dipinti tutti i Santi tutelari della città, che verso una Madonna et il Figliuolo che in braccio teneva rivolti, pareva che lo pregassero per la salute e felicità d'essa. Sì come di sopra con bellissima invenzione e per principale impresa si vedeva una navicella, che col favore d'un prospero vento pareva che a vele piene s'incamminasse verso un tranquillissimo porto, significante le cristiane azzioni esser bisognose e della divina grazia, et a quelle, non come oziosi, esser necessario ancora dalla nostra parte aggiugnere la buona disposizione et operazione; il che era chiaramente mostro dal motto che diceva SCRITTA GRECA; ma molto più dal brevissimo epitaffio che sotto se gli vedeva, dicendo:

CONFIRMA HOC, DEUS, QUOD OPERATUS ES IN NOBIS.

DEL CAVALLO
Su la piazza poi di San Pulinari, non riguardando al Tribunale ivi vicino, ma acciò che tanto spazio dal Duomo all'altro arco voto non fusse, quantunque bellissima la strada sia, si fece con meraviglioso artifizio e con arguta invenzione figurare un grandissimo e molto eccellente e molto feroce e ben condotto cavallo, di più di nove braccia di altezza, che tutto su le gambe di dietro si levava; sopra cui si vedeva un giovane Eroe, tutto armato e tutto alla sembianza di valor pieno, in atto d'avere con l'aste (il cui tronco a' piedi se gli vedeva) ferito a morte un grandissimo Mostro, che sotto il cavallo tutto languido disteso gl'era; e già sur una lucida spada la mano messa, quasi per voler di nuovo ferirlo, sembrava di mirare a che termine per il primo colpo il Mostro ridotto fosse. Era questo figurato per quella vera erculea Virtù, che discacciando, come ben disse Dante, per ogni villa e rimettendo nell'inferno la dissipatrice de' regni e delle republiche, la madre delle discordie, delle ingiurie, delle rapine e delle ingiustizie, e finalmente quella che comunemente il Vizio o la Fraude si chiama, sotto forma d'onesta e giovane donna, ma con una gran coda di scorpione ridotta, sembrava d'avere, uccidendola, messo la città in quella tranquillità e quiete in cui, mercé degl'ottimi suoi Signori, riposare e felicemente oggi fiorire si vede. Il che non meno era maestrevolmente dichiarato dall'impresa, accomodatamente nella gran base posta, in cui si vedeva dentro et in mez[z]o ad un tempio, aperto e sospeso da molte colonne, sopra un religioso altare l'egiziano Ibi, che col becco e con l'unghie mostrava di lacerare alcune serpi che intorno alle gambe avvolte se gl'erano, e col motto che accomodatamente diceva: PREMIA DIGNA.

DEL BORGO DE' GRECI
Sì come ancora al canto del Borgo de' Greci, perché gl'occhi in quella svolta che si fece, andando verso la Dogana, avessero ove pascersi con diletto, volse d'architettura dorica formare un piccolo e chiuso archetto, dedicandolo alla publica allegrez[z]a; il che si dimostrava per la statua d'una femmina inghirlandata e tutta gioiosa e ridente, che nel principal luogo era con il motto per dichiarazione, dicente: HILARITAS PP. FLORENT.. Sotto a cui, in mez[z]o a molte grottesche et a molte graziose istoriette di Bacco, si vedevano due vez[z]osissimi Satirini che con due otri, che in spalla tenevano, versavano (come nell'altra si fece) in una bellissima fontana vino bianco e vermiglio: e come a quella il pesce, a questa doi cigni, che sotto i due putti stavano, facevano a chi troppo beeva la beffe con zampilli dell'acqua che fuor del vaso talvolta con impeto schiz[z]avano, con un grazioso motto che diceva: ABITE LYMPHAE VINI PERNICIES. Ma disopra e d'intorno alla maggiore statua si vedevano molt'altri e Satiri e Baccanti, che con mille piacevoli modi, sembrando e di bere e di ballare e di cantare, e di tutti quei giuochi fare che gl'ebbri sogliono, quasi di dir mostravano il soprascrittogli motto: NUNC EST BIBENDUM NUNC PEDE LIBERO PULSANDA TELLUS.

DELL'ARCO DELLA DOGANA
Pareva, fra tante prerogative et eccellenzie e grazie con cui l'alma Fiorenza adornandosi, et in varii luoghi (come s'è mostro) a ricevere et accompagnare la sua serenissima Principessa distribuite avendole, pareva, dico, che la sola sovrana e principal Vertù, o Prudenza civile, regina e maestra di ben reggere e governare le popolazioni e gli stati, si fusse, senza menzion farne, fino a qui trapassata; la quale, quantunque con molta laude e gloria di lei si potesse in molti suoi figliuoli de' trapassati tempi largamente dimostrare, avendone nondimeno ne' presenti il più fresco e più verace e senza dubbio il più splendido essempio degl'eccellentissimi suoi Signori che mai fino a qui in lei veduto si sia, parve che i lor magnanimi gesti a dovere ottimamente esprimerla e dimostrarla attissimi fussero. Il che con quanta ragione e quanto senza alcun liscio d'adulazione, ma ben con grato animo degl'ottimi cittadini fatto lor fusse, ciascuno che dalla cieca invidia occupato non sia, dal cui velenoso morso chiunque mai resse fu in tutt'i tempi molestato, può agevolmente giudicarlo mirando non pure al diritto e santo governo del bene avventuroso Stato loro et alla difficile conservazione di esso, ma al memorabile et amplo e glorioso suo accrescimento, non meno certo per l'infinita fortezza e costanza e pazienzia e vigilanza del suo prudentissimo Duca, che per benignità di prospera fortuna successo. Il che ottimamente, tutto il concetto di tutto l'ornamento abbracciando, veniva espresso nell'epitaffio con bellissima grazia in accomodato luogo messo, dicendo:

REBUS URBANIS CONSTITUTIS, FINIB. IMPERII PROPAGATIS, RE
MILITARI ORNATA, PACE UBIQUE PARTA, CIVITATIS IMPERIIQUE
DIGNITATE AUCTA, MEMOR TANTORUM BENEFICIORUM PATRIA PRUDENTIAE
DUCIS OPT. DEDICAVIT.

All'entrare adunque della publica e ducal Piaz[z]a, e dall'una parte col publico e ducal Palazzo congiunto, e dall'altra con quelle case in cui il sale a' popoli distribuir si suole, bene e dicevolmente fu a questa cotal Vertù, o Prudenza civile, uno sovra tutti gl'altri meraviglioso e grand'arco dedicato in tutte le parti sue, benché più alto e più magnifico, al prima descritto della Religione che al Canto alla Paglia fu messo conforme e somigliante; in cui sopra quattro grandissime colonne corintie, in mez[z]o alle quali adito alla trapassante pompa si dava, e sopra il solito architrave e cornice e fregiatura di risalti (come in quell'altro si disse), in tre quadri divisa, si vedeva sopra un secondo cornicione, che tutta l'opera chiudeva con eroica e gravissima maestà, in sembianza di regina a seder posta, con uno scettro nella destra mano, posando la sinistra sur una gran palla, una grandissima donna di real corona adorna, che ben di essere questa cotale civile Virtù dimostrava, rimanendo da basso fra l'una colonna e l'altra tanto di spazio che una sfondata e capace nicchia agiatamente riceveva; in ciascuna delle quali, accortamente dimostrando di quali altre virtù questa cotale Vertù civile composta sia, et alle militari meritevolmente il primo luogo dando, con bellissimo et eroico componimento, si vedeva nella nicchia da man destra la statua della Fortez[z]a, principio di tutte l'azzioni magnanime e generose, sì come dalla sinistra, in simil guisa posta, si vedeva la Costanza, ottima di loro conduttrice et esseguitrice. Ma perché, fra il frontespizio delle due nicchie e la cornice che rigirava, alquanto di spazio rimaneva, acciò che il tutto adorno fusse, vi furono finti di color di bronzo due tondi, in un de' quali con una bella armata di galee e di navi si dimostrava la diligenza et accuratezza di questo accortissimo Duca circa le cose marittime; e nell'altro, sì come nell'antiche medaglie spesso si trova, l'istesso Duca cavalcando e circuendo si vedeva visitare e provvedere a' bisogni de' fortunati Stati suoi. Sopra il cornicione sovrano poi, ove si disse che la maestevole statua della civil Prudenza a seder posta era, seguitando di dimostrare di quali parti composta fusse, et a dirittura apunto della descritta Fortezza, si vedeva da alcuni magnifici vasi da lei separata la Vigilanza, tanto necessaria in tutte l'umane azzioni; sì come sopra la Costanza si vedeva in simil guisa la Pazienzia, e non parlo di quella Pazienzia a cui gl'animi rimessi, tollerando l'ingiurie, hanno attribuito nome di virtù, ma di quella che tanto onor diede all'antico Fabio Massimo, che con maturità e prudenza, aspettando i tempi oportuni, d'ogni temerario furor priva, fa le sue cose con ragione e con vantaggio. Ne' tre quadri poi in cui, come si disse, la fregiatura divisa era, et i quali erano da modiglioni e da pilastri, che al diritto delle colonne nascendo e fino al cornicione con somma vaghez[z]a distendendosi, separati, in uno et in quel del mez[z]o cioè, che sopra il portone dell'arco e sotto la regina Prudenza veniva, si vedeva dipinto il generoso Duca con prudente et amorevol consiglio renu[n]ziare al meritevol Principe tutto il governo degl'amplissimi Stati suoi; il che si esprimeva per uno scettro sopra una Cicogna che di porgergli faceva sembianza, e dall'ubidiente Principe con gran reverenzia pigliarsi, col motto che diceva: REGET PATRIIS VIRTUTIBUS. Sì come in quello da man destra si vedeva il medesimo fortissimo Duca con animosa risoluzione inviare le genti sue e da loro occuparsi il primo forte di Siena, cagion forse non piccola della vittoria di quella guerra; avendo in simil guisa in quello da man sinistra dipinto la lietissima entrata sua dopo la vittoria conseguita in quella nobilissima città. Ma dietro alla grande statua della regina Prudenza (et in questo solo veniva questa parte dinanzi all'arco della Religion dissimile), si vedeva rilevarsi in alto un quadrato e vagamente accartocciato imbasamento, quantunque da basso, non senza infinita grazia, fusse alquanto più largo che nella cima non era, sopra il quale, l'antica usanza rinovando, si vedeva una bellissima e trionfal quadriga, da quattro meravigliosi corsieri, a verun degli antichi per avventura in bellez[z]a e grandez[z]a inferiori, tirata, in cui da due vez[z]osi Angeletti si vedeva tener in aria sospesa la principal corona di questo arco, di civica querce composta e, a sembianza di quella del primo Augusto, a due code di Capricorno annodata, col medesimo motto che da lui con essa già fu usato, dicente: OB CIVES SERVATOS; essendo negli spazii che fra i quadri e le statue e le colonne e le nicchie rimanevano ogni cosa con ricchezza e grazia e con mangificenzia infinita di Vittorie et Ancore, e di Testuggini con l'ali, e di Diamanti e di Capricorni, e di altre sì fatte imprese di questi magnanimi Signori, ripieni. Ora, alla parte di dietro e che verso la Piaz[z]a riguardava trapassando, la quale al tutto simile alla dinanzi descritta direno esser stata, eccetuato però che in vece della statua della regina Prudenza vi si vedeva in un grande ovato, corrispondente al gran piedistallo che reggeva la detta gran quadriga, la quale con ingegnoso artifizio in un momento, trapassata la pompa, verso la Piaz[z]a si rivolse, vi si vedeva, dico, per principale impresa dell'arco un celeste Capricorno con le sua stelle, che nelle zampe sembrava di tenere un regale scettro con un occhio in cima, quale si dice che già di portare usava l'antico e giustissimo Osiri, con l'antico motto intorno dicente: NULLUM NUMEN ABEST, quasi soggiugnesse (come il primo autor disse): SI SIT PRUDENTIA. Ma alla parte da basso incominciandomi, diremo ancora (perché questa, per esprimere le azioni della pace non meno al genere umano necessarie forse, fu fatta) che nella nicchia da man destra, simile a quelle dell'altra descritta faccia, si vedeva posta una statua di femmina, presa per il Premio o Remunerazione, chiamata Grazia, che i savi principi conferir sogliono per le buon' opere agl'uomini virtuosi e buoni; sì come nella sinistra in sembianza minacciosa con una spada in mano si vedeva, sotto la figura di Nemesi, la Pena per i viziosi e rei: con che venivan comprese le due principali colonne della Giustizia, senza ambo le quali, come manchevole e zoppo, nessuno Stato mai ebbe stabilità o fermez[z]a. Ne' due ovati poi, corrispondendo sempre a quelli dell'altra faccia, e come quelli di bronzo pur finti, nell'uno si vedevan le fortificazioni di molti luoghi dal prudentissimo Duca con molta accortez[z]a fatte, e nell'altro la cura e diligenzia sua mirabile in proccurare la comune pace d'Italia, sì come in molte delle sue azzioni s'è visto, ma massimamente allora, che per sua opera s'estinse il terribile e tanto pericoloso incendio, non però con molta prudenza, da chi doveva più proccurare il ben publico del popol cristiano, eccitato; il che era espresso con diversi feciali et are e con altri simili instrumenti di pace, e con le parole solite nelle medaglie, sopra essi dicenti: PAX AUGUSTA. Ma sopra questi e sopra le due descritte statue delle nicchie, simili alle dette dall'altra parte, si vedeva dalla banda destra la Facilità e da la sinistra la Temperanza, o Bonità che la vogliamo chiamare, significando per quella prima una esteriore cortesia et affabilità nel volere ascoltare et intendere e rispondere benignamente a ciascuno: il che tiene meravigliosamente i popoli soddisfatti; e per l'altra, quella temperata e benigna natura che nella conversazione con gl'intrinsichi e domestichi rende il Principe amabile e amorevole, e con i sudditi facile e grazioso. Nel fregio poi corrispondente a quello della parte dinanzi, e come quello in tre quadri diviso, si vedeva similmente in quel del mezzo, e come cosa importantissima, la conclusione del felicissimo matrimonio contratto con tanta soddisfazione et a benefizio de' fortunati popoli suoi e per riposo e quiete di ciascuno, fra questo illustrissimo Principe e questa serenissima regina Giovanna d'Austria, con il motto dicente: FAUSTO CUM SIDERE. Sì come nell'altro da man destra si vedeva l'amorevolissimo Duca preso per mano con l'eccellentissima duchessa Leonora sua consorte, donna di virile et ammirabile virtù e prudenza, e con cui, mentre ella visse, fu di tale amor congiunto che ben potette chiamarsi chiarissimo specchio di marital fede. Ma nella sinistra si vedeva il medesimo grazioso Duca stare, come ha sempre usato, con cortesia mirabile ad ascoltar molti che di voler parlargli facevan sembiante: e questa era tutta la parte che verso la Piaz[z]a riguardava. Ma sotto lo spazioso arco e dentro al capace andito, per onde la pompa trapassava, si vedeva dipinto in una delle pareti che la volta sostenevano il glorioso Duca in mez[z]o a molti venerabili vecchi, co' quali consigliandosi pareva che a molti stesse porgendo varie leggi e statuti in diverse carte scritte, significando le tante leggi prudentissimamente emendate o di nuovo fondate da lui, con il motto di: LEGIBUS EMENDES. Sì come nell'altra, dimostrando l'utilissimo pensiero d'ordinare et accrescere la sua valorosa milizia, si vedeva il medesimo valoroso Duca (qual veggiamo in molte antiche medaglie) stare sur un militare suggesto a parlamentare a una gran moltitudine di soldati che d'intorno gli stavano, con il motto di sopra che diceva: ARMIS TUTERIS. Sì come nella gran volta, che in sei quadri scompartita era, si vedeva in ciascuno di essi, in vece di que' rosoni che comunemente metter si sogliono, una impresa, o per più propriamente favellare un rovescio di medaglia, accomodato alle due descritte istorie delle pareti; et era in un di questi dipinto diverse selle curuli con diversi fasci consolari, e nell'altro una donna con le bilance, presa per l'Equità, significar con ambi volendo le giuste leggi dover sempre alla severità della suprema potestà congiugnere l'equità del discreto giudice; e gl'altri due alla milizia riguardando, e la virtù de' soldati e la debita lor fede dimostrando, per l'una di queste cose si vedeva dipinto una femmina armata all'antica, e per l'altra molti soldati, che distendendo l'una mano sopra un altare, sembravano di porger l'altra al lor Capitano. Negl'altri due poi che rimanevano, il giusto e desiderato frutto di tutte queste fatiche, cioè la vittoria, descrivendo, si vedeva venir pienamente espresso, figurandone secondo il solito due femmine, stanti l'una e nell'un de' quadri sopra una gran quadriga, e nell'altro l'altra sopra un gran rostro di nave; le quali ambe in una delle mani si vedevano tenere un ramo di gloriosa palma e nell'altra una verdeggiante corona di trionfale alloro; seguitando nel rigirante fregio, che intorno alla volta et il dinanzi et il didietro abbracciava, la terza parte del cominciato motto dicendo: MORIBUS ORNES.

DELLA PIAZZA E DEL NETTUNNO
Avendo poi tutti i più nobili Magistrati della città, di parte in parte tutto il circuito della gran Piaz[z]a destribuendosi, ciascuno con le sue usate insegne e con ricchissime tappez[z]erie, da molto graziosi pilastri egualmente scompartite, resola magnificamente vistosa tutta et adorna, in cui con gran cura e diligenza in quei giorni s'affrettò, quantunque per stabile e perpetuo ornamento ordinato fusse, che al suo luogo nel principio dell'aringhiera si mettesse quello per grandezza e per bellez[z]a e per ciascuna sua parte meraviglioso e stupendo Gigante, di bianco e finissimo marmo, che vi si vede ancor oggi, conosciuto, dal tridente che ha in mano e dalla corona di pino e dai Tritoni che con le buccine a' piedi sonando gli stanno, essere Nettunno lo dio del mare. Questo sur un grazioso carro di diverse marine cose e de' due ascendenti, Capricorno del Duca et Ariete del Principe, adorno, e da quattro marini cavalli tirato, pare con una certa benigna protezione che prometter nelle cose marittime ne voglia quiete, felicità e vittoria. A' piè di cui, per più stabilmente e più riccamente fermarla, con non men bella maniera si fece per allora una vaghissima e grandissima ottangular fontana, leggiadramente sostenuta da alcuni Satiri, che con cestelle di diversi frutti salvatichi e di ricci di castagne in mano, e da alcune istoriette di basso rilievo e da alcuni festoni divisi, di marine nicchie e di gamberi et altre sì fatte cose conspersi, pareva che lieti molto e baldanzosi per la novella Signora si dimostrassero; sì come non meno e con non minor grazia si vedevano giacendo starsi su le sponde delle quattro principali facce della fontana, con certe gran conchiglie in mano anch'esse e con certi putti in braccio, due femmine nude e due bellissimi giovani, i quali con una certa graziosa attitudine, quasi che in sul lito del mare fussero, pareva che con alcuni delfini, che similmente di basso rilievo vi erano, giocando vez[z]osamente e scherzando si stessero.

DELLA PORTA DEL PALAZZO
Ma avendo (come nel principio della descrizione s'è detto) fatto da Fiorenza, accompagnata dai seguaci di Marte, delle Muse, di Cerere, della Industria e della toscana Poesia e del Disegno, la serenissima Principessa ricevere, e dalla Toscana poi la trionfale Austria, e dall'Arno la Drava, e dal Tirreno l'Oceano, e da Imeneo promettergli felici et avventurose noz[z]e, et i suoi gloriosi Augusti fare co' chiarissimi Medici il parentevole abboccamento, e tutti poi, per l'arco della sagrosanta Religione trapassando, alla cattedral chiesa sciogliere gl'adempiuti voti, e quindi veggendo l'eroica Vertù avere il Vizio estinto, e con quanta publica allegrez[z]a l'entrata sua celebrata fusse dalla Vertù civile e da' Magistrati della città nuovamente raccolta, promettendogli Nettunno il mar tranquillo, parve giudiziosamente di collocarla all'ultimo nel porto della quietissima Sicurezza. La quale sopra la porta del ducal Palaz[z]o, in luogo oltre a modo accomodato, si vedeva figurata sotto la forma d'una grandissima e bellissima e molto gioiosa femmina, d'alloro e d'oliva incoronata, che mostrava tutta adagiata sedersi sopra una fermissima base ad una gran colonna appoggiata; per lei dimostrando il fine desiderato di tutte l'umane cose debitamente a Fiorenza, e per conseguenza alla felicissima Sposa, acquistato dalla scienzie e vertù et arti di cui di sopra s'è favellato, ma massimamente da' prudentissimi e fortunatissimi suoi Signori, che di accôrla et adagiarla ivi preparato avevano, come in luogo sicurissimo, di godere perpetuamente con gloria e splendore gl'umani e divini beni nelle trapassate cose dimostratigli. Il che molto attamente si dichiarava e dall'epitaffio, che con bellissima grazia sopra la porta veniva, dicendo:

INGREDERE OPTIMIS AUSPICIIS FORTUNATAS AEDES TUAS, AUGUSTA
VIRGO, ET PRAESTANTISSIMI SPONSI AMORE, CLARISS. DUCIS
SAPIENTIA CUM BONIS OMNIBUS DELICIISQUE SUMMA ANIMI SECURITATE
DIU FELIX ET LAETA PERFRUERE ET DIVINAE TUAE VIRTUTIS
SUAVITATIS FAECUNDITATIS FRUCTIBUS PUBLICAM HILARITATEM CONFIRMA.

e da una principalissima impresa, che nella più alta parte sopra la descritta statua della Sicurez[z]a in un grande ovato dipinta si vedeva; e questa era la militare aquila delle romane Legioni, che, in sur una aste laureata, sembrava dalla mano dell'alfiere essere stata in terra fitta e stabilita, con il motto di tanto felice augurio da Livio, onde l'impresa è al tutto cavata, dicente: HIC MANEBIMUS OPTIME. L'ornamento poi della porta che col muro appiccato veniva, in tal guisa accomodato e sì bene inteso era che servire ottimamente potrebbe qualunque volta, adornando la semplice, ma magnifica rozzez[z]a de' vecchi secoli, si volse per più stabile e perpetuo, convenevole alla nostra più culta età, di marmi o di altre più fini pietre fabbricare. E però dalla parte più bassa incominciando, dico che sopra due gran piedistalli, che sul piano della terra si posavano e che la verace porta del Palaz[z]o in mez[z]o mettano, si vedevano due grandissimi Prigioni, mastio preso per il Furore, e femmina con i crini di vipere e di ceraste per la Discordia, di lui compagna, i quali quasi domati et incatenati e vinti sembravano, per l'ionico capitello e per l'architrave e fregio e cornice che sopra premendo gli stavano, che in un certo modo per il gran peso rispirare non potessero, troppo graziosamente mostrando ne' volti, che per la lor bruttez[z]a bellissimi erano, l'ira, la rabbia, il veleno, la violenzia e la fraude, lor proprii e naturali affetti. Ma sopra la descritta cornice si vedeva formare un frontespizio, in cui una molto ricca e molto grand'arme del Duca, ricinta dal solito tosone con il ducal mazzocchio da due bellissimi putti retto, collocata era. E perché questo solo ornamento, che apunto gli stipiti della vera porta copriva, povero a tanto Palazzo non rimanesse, convenevole cosa parve di farlo mettere in mez[z]o da quattro mezze colonne, poste due dall'una e due dall'altra parte, che alla medesima altez[z]a venendo e con la medesima cornice et architrave movendosi, formassero un quarto tondo, il quale l'altro frontespizio acuto, ma retto abbracciasse, con i suoi risalti e con tutte l'avvertenze a' debiti luoghi messe; sopra il quale formandosi un bellissimo basamento, si vedeva la descritta statua della Sicurez[z]a, come si è detto, con bellissima grazia posta. Ma alle quattro mez[z]e colonne da basso ritornando, dico che per maggiore magnificenzia e bellez[z]a e proporzione, da ciascun dei lati, fra colonna e colonna, era tanto di spazio stato lasciato che agevolmente in vece di nicchia un bello e capace quadro dipinto vi si vedeva. In un de' quali et in quello che più verso la divina statua del gentilissimo David posto era, si scorgevano sotto la forma di tre femmine, che tutte liete incontro all'aspettata Signora di farsi sembravano: la Natura con le sue torri (come è costume) in capo e con le tante sue poppe, significatrici della felice moltitudine degl'abitatori, e la Concordia col caduceo in mano, sì come per la terza si vedeva figurata Minerva, inventrice e maestra dell'arti liberali e de' virtuosi e civili costumi. Ma nell'altro che verso la fierissima statua dell'Ercole riguardava, si vedeva Amaltea col solito corno di dovizia in braccio, fiorito e pieno, e con lo staio colmo et ornato di spighe a' piedi, significante l'abbondanza e fertilità de la terra, e si vedeva la Pace di fecondo e fiorito olivo, e con un ramo del medesimo in mano, incoronata; et ultimamente si vedeva in gravissimo e venerabile sembiante la Maestà o Riputazione: ingegnosamente con tutte queste cose dimostrando quanto nelle bene ordinate città, abbondanti d'uomini, copiose di ricchez[z]e, ornate di virtù, piene di scienze et illustri per maestà e riputazione, felicemente e con pace e quiete e contentez[z]a si viva. A dirittura delle quattro descritte mez[z]e colonne poi, sopra il cornicione e fregio di ciascuna si vedeva con non men bella maniera fermo un zoccolo con un proporzionato piedistallo, sopra cui posavano alcune statue; e perché i duoi del mez[z]o abbracciavano ancora la larghez[z]a de' due descritti termini, sopra ciascuno di questi furono due statue insieme abbracciate poste, la Vertù cioè da una parte, che la Fortuna di tenere amorevolmente stretta sembrava, con il motto nella base dicente: VIRTUTEM FORTUNA SEQUETUR, quasi che mostrar volesse, che che se ne dichino molti, che, ove sia virtù, non mai mancar fortuna si vede, e nell'altra la Fatica o Diligenza che con la Vittoria mostrava di volere in simil guisa anch'ella abbracciarsi, con il motto a piedi dicente: AMAT VICTORIA CURAM. Ma sopra le mezze colonne, che negl'estremi erano e sopra le quali i piedistalli più stretti venivano, d'una sola statua per ciascuno adornandogli, in uno si vedeva l'Eternità quale dagl'antichi è figurata, con le teste di Iano in mano e con il motto: NEC FINES NEC TEMPORA, e nell'altro la Fama, nel modo solito figurata anch'ella, con il motto dicente: TERMINAT ASTRIS; essendo fra l'una e l'altra di queste con ornato e bellissimo componimento, e che apunto in mez[z]o la già detta arme del Duca mettevano, posto dalla destra quella dell'eccellentissimo Principe e Principessa, e dall'altra quella che fin dagl'antichi tempi la città ha di usare avuto in costume.

DEL CORTILE DEL PALAZZO
Pensava, quando da principio di scrivere mi deliberai, che molto minore opera fusse per dover condurmi la trapassata descrizione a fine. Ma l'abbondanza dell'invenzioni, la magnificenza delle cose fatte et il desiderio di soddisfare a' curiosi artefici, a cui cagione, come s'è detto, queste cose massimamente scritte sono, m'hanno (né so come) in un certo modo contro a mia voglia condotto a questa che ad alcuni potrebbe per avventura parere soverchia lunghez[z]a, necessaria nondimeno a chi chiaramente distinguere le cose si propone. Ma poi che fuori della prima fatica mi ritruovo, quantunque questo restante della descrizione degli spettacoli che si fecero con più brevità e con non minor diletto per avventura dei lettori trattare speri, essendo in essi apparsa, non meno che la liberalità de' magnanimi Signori e non meno che la destrez[z]a e vivacità degl'ingegnosi inventori, eccellente e rara l'industria e vertù de' medesimi artefici, disconvenevol cosa non doverrà parere né al tutto di considerazione indegna, se, innanzi che più oltre si trapassi, ragioneremo alquanto dell'aspetto, mentre che le noz[z]e si preparavano e poi che le si fecero, della città; perciò che in lei con infinito trattenimento de' riguardanti si vedeano molte strade dentro e fuori rassettarsi, il ducal Palaz[z]o (come si dirà) con singolar prestez[z]a abbellirsi, la fabbrica del lungo corridore, che da questo a quel de' Pitti conduce, volare, la colonna, la fonte e tutti i descritti archi in un certo modo nascere, e tutte l'altre feste, ma massimamente la Commedia che prima in campo uscir doveva, e le due grandissime mascherate che di più opera avevan mestiero in ordine mettersi, e finalmente tutte l'altre cose secondo i tempi che a rappresentar si avevono, qual più tarda e qual più presta, prepararsi: essendosele ambo i signori Duca e Principe, a sembianza degl'antichi Edili, fra loro distribuite e presone ciascuno con magnanima emulazione la sua parte a condurre. Ma né minor sollecitudine né minore emulazione si scorgeva fra ‘ gentiluomini e fra le gentildonne della città e forestiere, di cui un numero infinito di tutta l'Italia concorso vi era, gareggiando e nella pompa de' vestimenti, non meno in loro che nelle livree de' lor servitori e dame, e nelle feste private e publiche e ne' lautissimi conviti, che ora in questo luogo et ora in quello a vicenda continuamente si fecero; talché in un medesimo instante si poteva vedere l'ozio, la festa, il diletto, il dispendio e la pompa, et il negozio, l'industria, la pazienzia, la fatica et il grazioso guadagno, di che tutti i predetti artefici si rimpierono, far molto largamente gl'effetti suoi. Ma al cortile del ducal Palaz[z]o, in cui per la descritta porta s'entrava, venendo, per non lasciar questa senza alcuna cosa narrarne, diremo che, ancorché oscuro e disastroso et in tutte le parti quasi inabile a ricever nessuna sorte d'ornamento sembrasse, con nuova meraviglia e con incredibil velocità nondimeno si vide condotto a quella bellez[z]a e vaghez[z]a in cui oggi può da ciascuno riguardarsi; essendosi, oltre alla leggiadra fontana di durissimo porfido che in mez[z]o risiede, et oltre al vez[z]oso putto che con l'abbracciato Delfino l'acqua dentro vi getta, in un momento accannellate e secondo l'ordine corintio con bellissima maniera ridotte le nove colonne che in mez[z]o a sé lasciano il predetto quadrato cortile e che le rigiranti logge, fabricate prima secondo l'uso di que' tempi assai rozzamente di pietra forte, dall'una parte sostengano, mettendo i campi d'esse quasi tutti ad oro e di graziosissimi fogliami sopra gl'accannellamenti riempiendole, e le lor basi e capitelli secondo il buono et antico costume insieme formando. Ma dentro alle logge, le cui volte tutte erano di stravagantissime e bizarrissime grottesche piene ed adorne, si vedevano (sì come in molte medaglie a sua cagion fatte) espressi parte de' gloriosi gesti del magnanimo Duca, i quali (se alle cose grandissime le men grandi agguagliar si debbono) meco medesimo ho più volte considerato essere tanto a quelli del primo Ottaviano Augusto somiglianti, che cosa nessuna altra più conforme difficilmente trovar si potrebbe. Perciò che, lasciamo stare che l'uno e l'altro sotto un medesimo ascendente del Capricorno nato sia, e lasciamo il trattare che nella medesima giovenile età fussero quasi inaspettatamente al principato assunti, e lasciamo delle più importanti vittorie conseguite dall'uno e dall'altro ne' primi giorni d'agosto, e di vedersi poi le medesime complessioni e nature nelle cose familiari e dimestiche, e della singolare affezione verso le mogli, se non che ne' figliuoli, e nell'assunzione al principato, e forse in molt'altre cose, crederrei che più felice d'Augusto potesse questo fortunato Duca reputarsi: ma non si vede egli nell'uno e nell'altro un ardentissimo e molto straordinario desiderio di fabbricare et abbellire e di proccurare che altri fabbrichi et abbellisca? Talché, se quegli disse aver trovato Roma di mattoni e lasciarla di saldissime pietre fabbricata, e questi non men veridicamente potrà dire di aver Fiorenza ben di pietre e vaga e bella ricevuta, ma di gran lunga lasciarla a' successori e più vaga e più bella e di qualsivoglia leggiadro e magnifico e comodo ornamento accresciuta e colmata. Per espressione delle quai cose in ciascuna lunetta delle soprascritte logge si vedeva con i debiti ornamenti e con singolar grazia accomodato un ovato, nell'un de' quali si scorgeva la tanto necessaria fortificazione di Porto Ferraio nell'Elba, con molte galee e navi che dentro sicure di starvi sembravano, e la magnanima edificazione nel medesimo luogo della città, dall'edificator suo Cosmopoli detta, con un motto dentro all'ovato dicente: ILVA RENASCENS, e l'altro nel rigirante cartiglio che diceva: TUSCORUM ET LIGURUM SECURITATI. Sì come nel secondo si vedeva l'utilissima e vaghissima fabbrica in cui la maggior parte de' più nobili Magistrati ridur si debbano, che da lui di contro alla Zecca fa fabbricarsi e che oramai a buon termine si vede ridotta, sopra cui rigira quel sì lungo e sì commodo corridore del quale di sopra s'è detto, per opera del medesimo Duca in questi giorni con somma velocità fabbricato, con il motto che anch'egli diceva: PUBLICAE COMMODITATI. E sì come nel terzo si vedeva similmente, col solito corno di dovizia nella sinistra mano e con una antica insegna militare nella destra, la Concordia, a' cui piedi un Leone et una Lupa, notissimi vessilli di Fiorenza e di Siena, sembravano di pacificamente e quiete starsi, con il motto alla materia accomodato, dicente: HETRURIA PACATA. Ma nel quarto si vedeva il ritratto della descritta oriental colonna di granito con la Giustizia in cima, quale sotto il suo fortunato scettro può ben dirsi che inviolabile e dirittamente s'osservi, con il motto dicente: IUSTITIA VICTRIX. Sì come nel quinto si vedeva un feroce Toro con ambe le corna rotte, volendo, come dell'Acheloo già si disse, denotare il commodissimo diriz[z]amento da lui in molti luoghi fatto del fiume d'Arno, con il motto: IMMINUTUS CREVIT. Nel sesto poi si vedeva il superbissimo palazzo che già fu da messer Luca Pitti, con meraviglia di tanta magnanimità in privato cittadino e con realissimo animo e grandez[z]a, cominciato, e che oggi si fa dal magnanimissimo Duca con incomparabil cura et artifizio non pure a perfezion ridurre, ma gloriosamente e meravigliosamente accrescere et abbellire con fabbrica non pure stupenda ed eroica, ma con grandissimi e delicatissimi giardini pieni di copiosissime fontane, e con una innumerabile quantità di nobilissime statue antiche e moderne che vi ha di tutto ‘l mondo fatte ridurre; il che dal motto era espresso dicendo: PULCHRIORA LATENT. Ma nel settimo si vedeva dentro ad una gran porta molti libri in varie guise posti, con il motto nel cartiglio dicente: PUBLICAE UTILITATI, volendo denotare la gloriosa cura da molti della famiglia de' Medici, ma massimamente dal liberalissimo Duca, usata in raccorre e con util diligenza conservare una meravigliosa quantità di rarissimi libri di tutte le lingue, novellamente nella vaghissima Libreria di San Lorenzo, da Clemente Settimo cominciata e da Sua Eccellenzia fornita, ridotti. Sì come nell'ottavo sotto la figura di due mani, che più mostravano di legarsi quanto più di sciorre un nodo pareva che si sforzassero, si denotava, con l'amorevol renunzia da lui fatta all'amabilissimo Principe, la difficultà, o per meglio dire impossibilità, che ha di distrigarsi chi una volta a' governi degli Stati mette le mani; il che dichiarava il motto, dicendo: EXPLICANDO IMPLICATUR. Ma nel nono si vedeva la descritta fontana di Piaz[z]a con la rarissima statua del Nettunno e con il motto: OPTABILIOR QUO MELIOR, denotando non pure l'ornamento della predetta grandissima statua e fontana, ma l'utile et il commodo che con l'acque, che continuamente va conducendo, sarà alla città in poco tempo per partorire. Nel decimo poi si vedeva la magnanima creazione della novella Religion di Santo Stefano, espressa con la figura del medesimo Duca, che armato sembra di porgere con l'una mano a un armato Cavaliere sopra un altare una spada, e con l'altra una delle lor croci, con il motto dicente: VICTOR VINCITUR. E come nell'undicesimo similmente, sotto la figura del medesimo Duca che parlamentava secondo l'antico costume a molti soldati, s'esprimeva la da lui ben ordinata e ben conservata milizia nelle sue valorose Bande, con il motto che questo denotava, dicente: RES MILITARIS CONSTITUTA. Ma nel dodicesimo poi con le sole parole di MUNITA TUSCIA, senza altro corpo, si dimostravan le molte fortificazioni ne' più bisognosi luoghi dello Stato dal prudentissimo Duca fatte, aggiugnendo con gran moralità nel cartiglio: SINE IUSTITIA IMMUNITA. Sì come nel tredicesimo in simil guisa senz'altro corpo si leggeva: SICCATIS MARITIMIS PALUDIBUS ; il che in molti luoghi, ma nel fertile contado di Pisa, può massimamente con sua infinita gloria vedersi. E perché la meritata lode del tutto con silenzio non si trapassasse dell'avere alla patria sua Fiorenza gloriosamente ricondotte e rese le per altri tempi perdute artiglierie ed insegne, nel quattordicesimo ed ultimo si vedevano alcuni soldati, di esse carichi, tutti baldanzosi e lieti verso lui ritornare, con il motto per dichiarazione che diceva: SIGNIS RECEPTIS. A soddisfazione poi de' forestieri e de' molti signori alamanni massimamente, che in grandissimo numero per onore di Sua Altezza, e con l'eccellentissimo duca di Baviera il giovane, suo nipote, venuti vi erano, si vedeva sotto le prescritte lunette con bellissimo spartimento ritratte, che naturali parevano, molte delle principali città e d'Austria e di Boemia e d'Ungheria e del Tiruolo, e degl'altri Stati sottoposti all'augustissimo suo fratello.

DELLA SALA E DELLA COMMEDIA
Ma nella gran sala per l'agiatissime scale ascendendo, in cui la prima e principalissima festa et il principalissimo e nupzial convito fu celebrato, lasciando il ragionare dello stupendo e pomposissimo palco (mirabile per la varietà e moltitudine delle rarissime istorie di pittura, e mirabile per l'ingegnosissima invenzione e per i ricchissimi spartimenti e per l'infinito oro di che tutto risplender si vede, ma molto più mirabile perciò che per opera d'un solo pittore è stato in pochissimo tempo condotto), e dell'altre cose solo a questo luogo appartenenti trattando, dico che veramente non credo che in queste nostre parti si abbia notizia di veruna altra sala maggiore o più sfogata di questa, ma senza dubbio né più bella né più ricca né più adorna né con maggiore agiatezza accomodata di quel che ella si vide quel giorno che la Commedia fu recitata, credo che impossibile a ritrovare al tutto sarebbe. Perciò che, oltre alle grandissime facciate, in cui con graziosi spartimenti (non senza poetica invenzione) si vedevano da natural ritratte le principali piaz[z]e delle più nobili città di Toscana, et oltre alla vaghissima e grandissima tela di diversi animali in diversi modi cacciati e presi dipinta, che, da un gran cornicione sostenuta, nascondendo dietro a sé la prospettiva, in tal guisa l'una delle teste formava che pareva che la gran sala la debita proporzione avesse, tali furono e sì bene accomodati i gradi che intorno la rigiravano, e tal vaghez[z]a resero quel giorno l'ornatissime donne, che in grandissimo numero e delle più belle e delle più nobili e delle più ricche convitate vi furono, e tale i signori e ‘ cavalieri e gl'altri gentiluomini che sopra essi e per il restante della stanza accomodati erano, che senza dubbio, accese le capricciosissime lumiere al cascar della prescritta tela, scuoprendosi la luminosa prospettiva, ben parve che il paradiso con tutti i cori degl'Angeli si fusse in quello instante aperto; la qual credenza fu meravigliosamente accresciuta da un soavissimo e molto maestrevole e molto pieno concento d'instrumenti e di voci che da quella parte si sentì poco dopo prorompere. Nella qual prospettiva, sfondando molto ingegnosamente con la parte più lontana per la dirittura del ponte e terminando nel fine della strada che via Maggio si chiama, nelle parti più vicine si veniva a rappresentare la bellissima contrada di Santa Trinita. Nella quale, et in tante altre e sì meravigliose cose, poi che gl'occhi de' riguardanti lasciati sfogare per alquanto spazio si furono, dando desiderato e grazioso principio al PRIMO INTERMEDIO della Commedia, cavato, come tutti gl'altri, da quella affettuosa novella di Psiche e d'Amore tanto gentilmente da Apuleio nel suo Asin d'oro descritta, e di essa preso le parti che parsero più principali, e con quanto maggior destrez[z]a si sapeva alla Commedia accomodatole (onde, fatto quasi dell'una e dell'altra favola un artifizioso componimento, apparisse che quel che nella favola degl'Intermedii operavano gli Dii, operassero, quasi che da superior potenza costretti, nella favola della Commedia gl'uomini ancora), si vide nel concavo cielo della descritta prospettiva (aprendosi quasi in un momento il primo) apparire un altro molto artifizioso cielo, di cui a poco a poco si vedeva uscire una bianca e molto propriamente contrafatta nugola; nella quale con singolar vaghez[z]a pareva che un dorato et ingemmato carro si posasse, conosciuto esser di Venere perciò che da due candidissimi cigni si vedeva tirare, et in cui come donna e guidatrice si scorgeva similmente quella bellissima dea, tutta nuda et inghirlandata di rose e di mortella, con molta maestà sedendo, guidare i freni. Aveva costei in sua compagnia le tre Grazie, conosciute anch'esse dal mostrarsi tutte nude e da' capegli biondissimi, che sciolti su per le spalle cascavano, ma molto più dalla guisa con che stavano prese per mano, e le quattro Ore, che l'ali tutte a sembianza di farfalla dipinte avevano, e che secondo le quattro stagioni dell'anno, non senza cagione, erano state in alcune parti distinte; perciò che l'una, che tutta adorna la testa et i calzaretti di variati fioretti e la veste cangiante aveva, per la fiorita e variata Primavera era stata voluta figurare; sì come per l'altra, con la ghirlanda e co' calzaretti di pallenti spighe contesti, e con i drappi gialli di che adorna si era, di denotare s'intendeva la calda State; e come la terza per l'Autunno fatta, tutta di drappi rossi vestita, significanti la maturità de' pomi, si vedeva de' medesimi pomi e di pampani e d'uve esser stata anch'ella tutta coperta et adorna; ma la quarta et ultima, che il nevoso e candido Verno rappresentava, oltre alla turchina veste tutta tempestata a fiocchi di neve, aveva i capelli et i calzaretti similmente pieni della medesima neve e di brinate e di ghiacci: e tutte, come seguaci et ancelle di Venere, su la medesima nugola con singolare artifizio e con bellissimo componimento d'intorno al carro accomodate, lasciando dietro a sé Giove e Giunone e Saturno e Marte e Mercurio e gl'altri Dei, da cui pareva che la prescritta soavissima armonia uscisse, si vedevano a poco a poco con bellissima grazia verso la terra calare, e per la lor venuta la scena e la sala tutta di mille preziosissimi e soavi odori riempiersi. Mentre con non meno leggiadra vista, ma per terra di camminar sembrando, si era da un'altra parte veduto venire il nudo et alato Amore, accompagnato anch'egli da quelle quattro principali passioni che sì spesso pare che l'inquieto suo regno conturbar soglino: dalla Speranza cioè, tutta di verde vestita, con un fiorito ramicello in testa; e dal Timore, conosciuto, oltre alla pallida veste, da' conigli che nella capelliera e ne' calzaretti aveva; e dall'Allegrez[z]a, di bianco e di ranciato e di mille lieti colori coperta anch'ella, e con la pianta di fiorita borrana sopr'a' capegli; e dal Dolore, tutto nero e tutto nel sembiante doglioso e piangente; da' quali, come ministri, altri gli portava l'arco, altri la faretra e le saette, altri le reti et altri l'accesa facella. Essendo, mentre che verso il materno carro, già in terra arrivato, andavano, della nugola a poco a poco le prescritte Ore e Grazie discese, e fatto reverentemente di sé intorno alla bella Venere un piacevolissimo coro, sembravano di tutte intente stare a tenergli tenore; mentre ella al figliuol rivolta con grazia singolare ed infinita, faccendogli la cagione del suo disdegno manifesta, e, tacendo quei del cielo, cantò le seguenti due prime stanze della ballata, dicendo:

A me, che fatta son negletta e sola,
Non più gl'altar' né i voti;
Ma di Psiche devoti,
A lei sola si dànno, ella gl'invola:
Dunque, se mai di me ti calse o cale,
Figlio, l'armi tue prendi,
E questa folle accendi
Di vilissimo amor d'uomo mortale.

La quale fornita, e ciascuna delle prescritte sue ancelle a' primi luoghi ritornate, continuamente sopra i circustanti ascoltatori diverse e vaghe e gentili e fiorite ghirlande gettando, si vide il carro e la nugola, quasi che il suo desiderio la bella guidatrice compiuto avesse, a poco a poco muoversi e verso il cielo ritornare; ove arrivata, et egli in un momento chiusosi, senza rimaner pur vestigio onde sospicar si potesse da che parte la nugola e tante altre cose uscite et entrate si fussero, parve che ciascuno per una certa nuova e graziosa meraviglia tutto attonito rimanesse. Ma l'ubbidiente Amore, mentre che questo si faceva, accennando quasi alla madre che il suo comandamento adempiuto sarebbe, et attraversando la scena, seguitò con i compagni suoi, che l'armi gl'amministravano e che anch'essi cantando tenor gli facevano, la seguente et ultima stanza, dicendo: Ecco, madre, andiàn noi; chi l'arco dammi? Chi le saette, ond'io Con l'alto valor mio Tutti i cor vinca, leghi, apra ed infiammi? Tirando anch'egli pur sempre, mentre che questo cantava, nell'ascoltante popolo molte e diverse saette, con le quali diede materia di credere che gl'amanti che a recitare incominciarono, da esse quasi mossi, partorissero la seguente Commedia.

INTERMEDIO SECONDO
Finito il primo atto, et essendo Amore, mentre di prendere la bella Psiche si credea, da' suoi medesimi lacci per l'infinita di lei bellezza rimasto colto, rappresentar volendo quelle invisibili voci, che, come nella favola si legge, erano state da lui per servirla destinate, si vide da una delle quattro strade, che per uso de' recitanti s'erano nella scena lasciate, uscire prima un piccolo Copidino, che in braccio sembrava di portare un vez[z]oso cigno, col quale (perciò che un ottimo violone nascondeva), mentre con una verga di palustre sala che per archetto gli serviva, di sollaz[z]arsi sembrava, veniva dolcissimamente sonando. Ma dopo lui per le quattro descritte strade della scena si vide similmente, in un istesso tempo, per l'una venire l'amoroso Zefiro, tutto lieto e ridente, e che l'ali e la veste et i calzaretti aveva di diversi fiori contesti, e per l'altra la Musica, conosciuta dalla mano musicale che in testa portava e dalla ricca veste piena di diversi suoi instrumenti e di diverse cartiglie, ove erano tutte le note e tutti i tempi di essa segnati, ma molto più perciò che con soavissima armonia si vedeva similmente sonare un bello e gran lirone; sì come dall'altre due, sotto forma di due piccoli Cupidetti, si videro il Gioco e ‘l Riso in simil guisa, ridendo e scherzando, apparire. Dopo i quali, mentre a' destinati luoghi avviandosi andavano, si videro per le medesime strade, nella medesima guisa e nel medesimo tempo, quattro altri Cupidi uscire, e con quattro ornatissimi leuti andare anch'essi graziosamente sonando; e dopo loro altri quattro Cupidetti simili, due de' quali, con i pomi in mano, sembravano di insieme sollazzarsi; e due, che con gl'archi e con gli strali, con una certa strana amorevolez[z]a, pareva che i petti saettar si volessero. Questi tutti, in grazioso giro arrecatisi, parve che cantando con molto armonioso concento il seguente madrigale, e coi leuti e con molt'altri instrumenti, dentro alla scena nascosti, le voci accompagnando, facessero tutto questo concetto assai manifesto, dicendo:

Oh, altero miracolo novello
Visto l'abbiàn: ma chi fia che cel creda
Ch'Amor, d'amor ribello,
Di se stesso e di Psiche oggi sia preda?
Dunque a Psiche conceda
Di beltà pur la palma e di valore
Ogn'altra bella; ancor che, pel timore
Ch'ha del suo prigionier, dogliosa stia.
Ma seguiàn noi l'incominciata via:
Andiam, Gioco; andiam, Riso;
Andiam, dolce Armonia di paradiso,
E facciàn che i tormenti
Suoi dolci sien co' tuoi dolci concenti.

INTERMEDIO TERZO
Non meno festoso fu l'intermedio terzo, perciò che, come per la favola si conta, occupato Amore nell'amore della sua bella Psiche e non più curando di accender ne' cori de' mortali l'usate fiamme, et usando egli con altri et altri con lui fraude et inganno, forza era che fra i medesimi mortali, che senza amore vivevano, mille fraudi e mille inganni similmente surgessero; e perciò a poco a poco sembrando che il pavimento della scena gonfiasse, e finalmente che in sette piccoli monticelli convertito si fusse, si vide di essi, come cosa malvagia e nocevole, uscir prima sette e poi sett'altri Inganni; i quali agevolmente per tali si fecer conoscere, perciò che non pure il busto tutto macchiato a sembianza di pardo, e le cosce e le gambe serpentine avevano, ma le capelliere molto capricciosamente e con bellissime attitudini tutte di maliziose volpi si vedevan composte, tenendo in mano, non senza riso de' circunstanti, altri trappole, altri ami et altri ingannevoli oncini o rampi, sotto i quali con singolar destrezza erano state, per uso della musica che a fare avevano, ascoste alcune storte musicali. Questi, esprimendo il prescritto concetto, poi che ebbero prima dolcissimamente cantato, e poi cantato e sonato il seguente madrigale, andarono con bellissimo ordine (materia agl'Inganni della Commedia porgendo) per le quattro prescritte strade della scena spargendosi:

S'Amor vinto e prigion, posto in oblio
L'arco e l'ardente face,
Della madre ingannar nuovo desio
Lo punge, e s'a lui Psiche inganno face,
E se l'empia e fallace
Coppia d'invide suore, inganno e froda,
Sol pensa, or chi nel mondo oggi più fia
Che ‘l regno a noi non dia?
D'inganni dunque goda
Ogni saggio: e se speme altra l'invita,
Ben la strada ha smarrita.

INTERMEDIO QUARTO
Ma derivando dagl'inganni l'offese, e dall'offese le dissensioni e le risse e mille altri sì fatti mali, poi che Amore, per la ferita dalla crudel lucerna ricevuta, non poteva all'usato ufizio di infiammare i cori de' viventi attendere, nell'intermedio quarto in vece de' sette monticelli, che l'altra volta nella scena dimostri s'erano, si vide in questo apparire (per dar materia alle turbazioni della Commedia) sette piccole voragini, onde prima un oscuro fumo, e poi a poco a poco si vide uscire con una insegna in mano la Discordia, conosciuta, oltre all'armi, dalla variata e sdrucita veste e capellatura; e con lei l'Ira, conosciuta oltr'all'armi anch'ella da' calzaretti a guisa di zampe e dalla testa, in vece di celata, d'orso, onde continuamente usciva fumo e fiamma; e la Crudeltà con la gran falce in mano, nota per la celata a guisa di testa di tigre e per i calzaretti a sembianza di piedi di coccodrillo; e la Rapina con la roncola in mano anch'ella e con il rapace uccello su la celata, e con i piedi a sembianza d'aquila; e la Vendetta con una sanguinosa storta in mano, e co' calzaretti e con la celata tutta di vipere contesta; e due Antropofagi, o Lestrigoni che ci vogliàn chiamargli, che sonando sotto forma di due trombe ordinarie due musicali tromboni, pareva che volessero, oltre al suono, con una certa lor bellicosa movenzia eccitare i circunstanti ascoltatori a combattere. Era ciascun di questi con orribile spartimento messo in mez[z]o da due Furori, di tamburi, di ferrigne sferze e di diverse armi forniti, sotto le quali con la medesima destrez[z]a erano stati diversi musicali instrumenti nascosti. Fecersi i prescritti Furori conoscere dalle ferite onde avevan tutta la persona piena, di cui pareva che fiamme di fuoco uscissero, e dalle serpi ond'eran tutti annodati e cinti, e dalle rotte catene che dalle gambe e dalle braccia lor pendevano, e dal fumo e dal fuoco che per le capelliere gl'usciva. I quali tutti insieme con una certa gagliarda e bellicosa armonia, cantato il seguente madrigale, fecero in foggia di combattenti una nuova e fiera e molto stravagante moresca, alla fine della quale, confusamente in qua e ‘n là per la scena scorrendo, si videro con spaventoso terrore tòrre in ultimo dagl'occhi de' riguardanti:

In bando itene, vili
Inganni, il mondo solo ira e furore
Sent'oggi; audaci voi, spirti gentili,
Venite a dimostrar vostro valore,
Che se per la lucerna or langue Amore,
Nostro convien, non che lor, sia l'impero.
Sù dunque, ogni più fero
Cor surga; il nostro bellicoso carme
Guerra, guerra! sol grida, e solo Arm', arme!

INTERMEDIO QUINTO
La misera e semplicetta Psiche avendo (come nell'altro intermedio s'è accennato) per troppa curiosità con la lucerna imprudentemente offeso l'amato marito, da lui abbandonata, essendo finalmente venuta in mano dell'adirata Venere, accompagnando la mestizia del quarto atto della Commedia, diede al quinto mestissimo Intermedio convenevolissima materia, fingendo d'esser mandata dalla prescritta Venere all'infernal Proserpina, acciò che mai più fra ‘ viventi ritornar non potesse; e perciò di disperazion vestita, si vide molto mesta per l'una delle strade venire, accompagnata dalla noiosa Gelosia, che tutta pallida et afflitta sì come l'altre seguenti si dimostrava, conosciuta dalle quattro teste e dalla veste turchina tutta d'occhi e d'orecchi contesta; e dalla Invidia, nota anch'ella per le serpi ch'ella divorava; e dal Pensiero, o Cura o Sollecitudine che ci vogliàn chiamarla, conosciuta pel corbo che aveva in testa e per l'avoltoio che gli lacerava l'interiora; e dallo Scorno o Disprez[z]agione, per darle il nome di femmina, che si faceva cognoscere, oltre al gufo che in capo aveva, dalla mal composta e mal vestita e sdrucita veste. Queste quattro poi, che percuotendola e stimolandola si furon condotte vicine al mez[z]o della scena, aprendosi in quattro luoghi con fummo e con fuoco in un momento la terra, presero, quasiché difender se ne volessero, quattro orribilissimi serpenti che di essa si videro inaspettatamente uscire, e quegli percuotendo in mille guise con le spinose verghe, sotto cui erano quattro archetti nascosti, parve in ultimo che da loro, con molto terrore de' circunstanti, sparati fussero; onde nel sanguinoso ventre e fra gl'interiori di nuovo percotendo, si sentì in un momento (cantando Psiche il seguente madrigale) un mesto, ma suavissimo e dolcissimo concento uscire: perciò che nei serpenti erano con singolare artifizio congegnati quattro ottimi violoni, che accompagnando con quattro tromboni, che dentro alla scena sonavano, la sola e flebile e graziosa sua voce, partorirono sì fatta mestizia e dolcez[z]a insieme che si vide trarre a più d'uno non finte lagrime dagl'occhi. Il qual fornito e con una certa grazia ciascuna il suo serpente in ispalla levatosi, si vide con non minor terrore de' riguardanti un'altra nuova e molto grande apertura nel pavimento apparire, di cui fumo e fiamma continua e grande pareva che uscisse, e si sentì con spaventoso latrato e si vide con le tre teste di essa uscire l'infernal Cerbero, a cui, ubbidendo alla favola, si vide Psiche gettare una delle due stiacciate che in mano aveva; e poco dopo con diversi Mostri si vide similmente apparire il vecchio Caronte con la solita barca, in cui la disperata Psiche entrata, gli fu dalle quattro predette sue stimulatrici tenuta noiosa e dispiacevol compagnia:

Fuggi, spene mia, fuggi,
E fuggi per non far più mai ritorno:
Sola tu, che distruggi
Ogni mia pace, a far vienne soggiorno,
Invidia, Gelosia, Pensiero e Scorno,
Meco nel cieco inferno,
Ove l'aspro martir mio viva eterno.

INTERMEDIO ULTIMO
Fu il sesto et ultimo Intermedio tutto lieto, perciò che, finita la Commedia, si vide del pavimento della scena in un tratto uscire un verdeggiante monticello tutto d'allori e di diversi fiori adorno, il quale, avendo in cima l'alto caval Pegaseo, fu tosto conosciuto esser il monte d'Elicona, di cui a poco a poco si vide scendere quella piacevolissima schiera de' descritti Cupidi, e con loro Zefiro e la Musica, et Amore e Psiche presi per mano, tutta lieta e tutta festante, poi che salva era dall'inferno ritornata, e poi che per intercession di Giove, a' preghi del marito Amore, se l'era dopo tant'ira di Venere impetrato grazia e perdono. Era con questi Pan e nove altri Satiri con diversi pastorali instrumenti in mano, sotto cui altri musicali instrumenti si nascondevano, che tutti, scendendo dal predetto monte, di condurre mostravano con loro Imeneo, lo Dio delle nozze, di cui sonando e cantando le lodi come nelle seguenti canzonette, facendo nella seconda un nuovo et allegrissimo e molto vezzoso ballo, diedero alla festa grazioso compimento:

Dal bel monte Elicona
Ecco Imeneo che scende,
E già la face accende - e s'incorona:
Di persa s'incorona,
Odorata e soave,
Onde il mondo ogni grave - cura scaccia.
Dunque, e tu, Psiche, scaccia
L'aspra tua fera doglia
E sol gioia s'accoglia - entro al tuo seno.
Amor dentro al suo seno
Pur lieto albergo datti,
E con mille dolci atti - ti consola;
Né men Giove consola
Il tuo passato pianto,
Ma con riso e con canto - al ciel ti chiede.
Imeneo, dunque, ognun chiede,

Imeneo vago ed adorno:
Deh, che lieto e chiaro giorno,
Imeneo, teco oggi riede!
Imeneo! per l'alma e diva
Sua GIOVANNA, ognor si sente
Dal gran Ren ciascuna riva
Risonar soavemente;
E non men l'Arno lucente
Pel grazioso inclito e pio
Suo FRANCESCO aver desio
D'Imeneo lodar si vede.
Imeneo etc.
Flora lieta, Arno beato,
Arno umil, Flora cortese,
Deh, qual più felice stato
Mai si vide o mai s'intese?
Fortunato almo paese,
Terra in ciel gradita e cara,
A cui coppia così rara
Imeneo benigno diede.
Imeneo etc.
Lauri or dunque, olive e palme
E corone e scettri e regni,
Per le due sì felici alme,
Flora, in te sol si disegni;
Tutti i vili atti ed indegni
Lungi stien: sol pace vera
E diletto e primavera
Abbia in te perpetua sede.

Essendo tutti i ricchissimi vestimenti e tutte l'altre cose, che impossibili a farsi paiono dagl'ingegnosi artefici, con tanta grazia e leggiadria e destrez[z]a condotte, e sì proprie e naturali e vere fatte parere, che senza dubbio di poco la verace azzione sembrava che il finto spettacolo vincer potesse.

DEL TRIONFO DE' SOGNI E D'ALTRE FESTE
Ma dopo questo, quantunque ogni piaz[z]a, come si è detto, et ogni contrada di suono e di canto e di gioco e di festa risonasse, perché la soverchia abbondanza non partorisse soverchia sazietà, avevano i magnanimi Signori, prudentissimamente le cose distribuendo, ordinato che in ciascuna domenica una delle più principali feste si rappresentasse. E per tal cagione e per maggiore agiatez[z]a de' riguardanti avevan fatto a guisa di teatro vestire le facce delle bellissime piaz[z]e di S. Croce e di S. Maria Novella con sicurissimi e capacissimi palchi, dentro a' quali, perciò che vi furono rappresentati giuochi, in cui più i nobili giovani essercitandosi, che i nostri artefici in addobbargli, ebbero parte, semplicemente toccando di essi, dirò che altra volta vi fu da' liberalissimi Signori con sei squadre di leggiadrissimi cavalieri, d'otto per squadra, fatto vedere il tanto dagli Spagnuoli celebrato giuoco di canne e di caroselli; avendo ciascuna d'esse, che tutte di tele d'oro e d'argento risplendevano, distinta, altra secondo l'antico abito de' Castigliani, altra de' Portoghesi, altra de' Mori, altra degl'Ungheri, altra de' Greci et altra de' Tartari, et in ultimo con pericoloso abbattimento morto, parte con le zagaglie e co' cavalli, al costume pure spagnuolo, e parte con gl'uomini a piede e co' cani, alcuni ferocissimi tori. Altra volta, rinovando l'antica pompa delle romane cacce, vi si vide con bellissimo ordine fuor d'un finto boschetto cacciare et uccidere da alcuni leggiadri cacciatori e da una buona quantità di diversi cani una moltitudine innumerabile (che a vicenda l'una spezie dopo l'altra veniva) prima di conigli e di lepri e di capriuoli e di volpi e d'istrici e di tassi, e poi di cervi e di porci e d'orsi, e fino ad alcuni sfrenati e tutti d'amor caldi cavalli; et ultimamente, come caccia di tutte l'altre più nobile e più superba, essendosi da una grandissima testugine e da una gran maschera di bruttissimo mostro, che ripiene d'uomini erano, con diverse ruote fatte qua e là camminare, più volte eccitato un molto fiero leone perché a battaglia con un bravissimo toro venisse, poi che conseguire non si potette, si vide finalmente l'uno e l'altro dalla moltitudine de' cani e de' cacciatori, non senza sanguinosa e lunga vendetta, abbattere et uccidere. Esercitavasi oltre a questo con leggiadrissima destrez[z]a e valore (secondo il costume) ciascuna sera la nobile gioventù della città al giuoco del calcio, proprio e peculiare di questa nazione; il quale ultimamente con livree ricchissime di tele d'oro in color rosso e verde, con tutti i suoi ordini (che molti e belli sono), fu una delle domeniche predette un de' più graditi e de' più leggiadri spettacoli che veder si potesse. Ma perché la variazione il più delle volte pare che piacere accresca alla maggior parte delle cose, con diversa mostra volse altra volta l'inclito Principe contentare l'aspettante popolo del suo tanto desiderato Trionfo de' Sogni. L'invenzione del quale, quantunque andando egli in Alamagna a vedere l'altissima Sposa et a far reverenza all'imperialissimo Massimiliano Cesare et agl'altri augustissimi cognati, fusse da altri con gran dottrina e diligenza ordinata e disposta, si può dire nondimeno che da principio fusse parto del suo nobilissimo ingegno, capace di qualsivoglia sottile ed arguta cosa; con la quale, chi esseguì poi e che della canzone fu il compositore, dimostrar volse quella morale opinione espressa da Dante, quando dice nascere fra i viventi infiniti errori, perciò che molti a molte cose operare messi sono, a che non pare che per natura atti nati sieno, deviandosi per il contrario da quelle a cui, l'inclinazione della natura seguitando, attissimi esser potrebbero. Il che di dimostrare anch'egli si sforzò con cinque squadre di maschere che da cinque degl'umani, da lui reputati principali, desiderii eran guidate. Dall'Amore cioè, dietro a cui gl'amanti seguivano; e dalla Bellez[z]a, compresa sotto Narciso, seguitato da quelli che di troppo apparir belli si sforzano; e dalla Fama, che aveva per seguaci i troppo appetitosi di gloria; e da Plutone, denotante la Ricchez[z]a, dietro a cui si vedevano i troppo avidi et ingordi di essa; e da Bellona, che dagl'uomini guerreggiatori seguitata era, faccendo che la sesta squadra, che le cinque prescritte comprendeva et a cui tutte voleva che si referissero, fusse dalla Paz[z]ia guidata, con buona quantità de' suoi seguaci anch'ella dietro, significar volendo che chi troppo e contro all'inclinazione della natura ne' prescritti desiderii s'immerge (che sogni veramente e larve sono) viene ad essere in ultimo dalla Paz[z]ia preso e legato. E però all'amoroso, come cosa di festa e carnescialesca, questa opinion riducendo, rivolta alle giovani donne mostra che il gran padre Sonno sia con tutti i suoi ministri e compagni venuto per mostrar loro coi mattutini suoi sogni, che veraci son reputati, e che nelle cinque prime squadre (come si è detto) eran compresi, che tutte le prescritte cose, che da noi contro a natura s'adoperano, son sogni, come si è detto, e larve da esser tenute; e però a seguitare quello a che la natura l'inclina confortandole, par che in ultimo quasi concluder voglia che, se elle ad essere amate per natura inclinate si sentono, che non voglino da questo natural desiderio astenersi, anzi sprez[z]ato ogn'altra opinione come cosa vana e paz[z]a, a quella savia e naturale e vera seguitare si disponghino: intorno al carro del Sonno poi, et alle maschere che questo concetto ad esprimere avevano, accomodando e per ornamento mettendo quelle cose che sono al sonno et a' sogni convenevoli giudicate. Vedesi dunque dopo due bellissime Sirene che, in vece di due trombetti, con due gran trombe innanzi a tutti gl'altri sonando, precedevano, e dopo due stravaganti maschere guidatrici di tutte l'altre, con cui sopra l'argentata tela il bianco, il giallo, il rosso e ‘l nero mescolando, i quattro umori di che i corpi composti sono si dimostrava; e dopo il portatore d'un grande e rosso vessillo di diversi papaveri adorno, in cui un gran grifone dipinto era, con i tre versi che rigirandolo dicevano:

Non solo aquila è questo, e non leone,
Ma l'uno e l'altro: così ‘l Sonno ancora
Et umana e divina ha condizione

si vedeva dico, come disopra s'è detto, venire il giocondissimo Amore figurato secondo che si costuma, e messo in mezzo da una parte dalla verde Speranza, che un camaleonte in testa aveva, e dall'altra dal pallido Timore con la testa anch'egli adorna da un paventoso cervo; vedevasi questi dagl'amanti, suoi servi e prigioni, seguitare, in buona parte di drappi dorè, per la fiamma in che sempre accesi stanno, con leggiadria e ricchez[z]a infinita vestiti e da gentilissime e dorate catene tutti legati e cinti. Dopo i quali (lasciando le soverchie minuzie) si vedeva per la Bellez[z]a venire in leggiadro abito turchino, tutto de' suoi medesimi fiori contesto, il bellissimo Narciso, accompagnato anch'egli, sì come dell'Amore si disse, dall'una parte dalla fiorita et inghirlandata Gioventù, tutta di bianco vestita, e dall'altra dalla Proporzione, di turchini drappi adorna e che da un equilatero triangolo, che in testa aveva, si faceva da' riguardanti conoscere. Vedevansi dopo questi coloro che pregiati essere per via della bellez[z]a cercono, e che il guidator loro Narciso pareva che seguitassero, di giovenile e leggiadro aspetto anch'essi, e che anch'essi, sopra le tele d'argento che gli vestivano, avevano i medesimi fiori narcisi molto maestrevolmente ricamati, con le arricciate e bionde chiome tutte de' medesimi fiori vagamente inghirlandate. Ma la Fama con una palla, che il mondo rappresentava, in testa e che una gran tromba (che tre bocche aveva) di sonar sembrava, con ali grandissime di penne di pavone si vedeva dopo costor venire, avendo in sua compagnia la Gloria, a cui faceva acconciatura di testa un pavon simile, et il Premio, che una coronata aquila in simil guisa in capo portava. I suoi seguaci poi, che in tre parti eran divisi, cioè Imperadori, Re e Duchi, benché tutti d'oro e con ricchissime perle e ricami vestiti fussero, e benché tutti singolar grandezza e maestà nel sembiante mostrassero, niente di meno erano l'un dall'altro chiarissimamente conosciuti per la forma delle diverse corone, ciascuna al suo grado conveniente, che in capo portavano. Ma il cieco Plutone poi, lo Dio (come s'è detto) della ricchez[z]a, che con certe verghe d'oro e d'argento in mano dopo costoro seguitava, si vedeva sì come gl'altri messo in mez[z]o dall'Avarizia, di giallo vestita e con una lupa in testa, e dalla Rapacità, di rossi drappi coperta e che un falcone, per nota renderla anch'ella, in testa aveva. Difficil cosa sarebbe a voler narrar poi la quantità dell'oro e delle perle e dell'altre preziose gemme, e le varie guise con che i seguaci di essa coperti et adorni s'erano. Ma Bellona, la Dea della guerra, ricchissimamente di tela d'argento, in vece d'armi, in molte parti coperta e di verde e laurea ghirlanda incoronata, e tutto il restante dell'abito con mille graziosi e ricchi modi composto, si vedeva anch'ella con un grande e bellicoso corno in mano dopo costoro venire, et essere come gl'altri accompagnata dallo Spavento, per il cuculio nell'acconciatura di testa noto, e dall'Ardire, conosciuto anch'egli per il capo del leone che in vece di cappello in capo aveva; e con lei i militari uomini che la seguitavano si vedevano in simil guisa, con spade e con ferrate maz[z]e in mano, e con tele d'oro e d'argento molto capricciosamente a sembianza d'armadure e di celate fatte, seguitarla. Avevano questi e tutti gl'altri dell'altre squadre, per dimostrazione che per Sogni figurati fussero, ciascuno (quasi che mantelletto le facesse) un grande et alato e molto ben condotto pipistrello di tela d'argento in bigio su le spalle accomodato: il che, oltre alla necessaria significazione, rendeva tutte le squadre, che variate (come s'è mostro) erano, con una desiderabile unione bellissime e graziosissime oltre a modo, lasciando negl'animi de' riguardanti una ferma credenza che in Fiorenza e forse fuori mai più veduto non si fusse spettacolo né sì ricco né sì grazioso né sì bello, essendo, oltre all'oro e le perle e l'altre preziosissime gemme di che i ricami (che finissimi furono) fatti erano, condotto tutte le cose con tanta diligenzia e disegno e grazia, che non abiti per maschere, ma come se perpetui e durevoli, e come se solo a grandissimi prìncipi servir dovessero, pareva che formati fussero. Seguitava la Paz[z]ia, la quale, perciò che non sogno, ma verace a mostrar s'aveva in coloro che le trapassate cose contro all'inclinazione seguitar volevano, si fece che solo gl'uomini della sua squadra senza il pipistrello in su le spalle si vedessero; et era costei di diversi colori (benché sproporzionatamente composti) e quasi senza verun garbo vestita, sopra le cui arruffate trecce, per dimostrazione del suo disconvenevole pensiero, si vedevano un paio di dorati sproni con le stelle in sù volte, essendo in mez[z]o messa da un Satiro e da una Baccante. I suoi seguaci poi, in sembianza di furiosi et ebbri, si vedevano con la tela d'oro ricamata con variati rami d'ellera e di variati pampani con lor grappoletti di mature uve molto stravagatamente vestiti, avendo - e questi e tutti gl'altri delle trapassate squadre, oltre ad una buona quantità di staffieri ricchissimamente anch'essi et ingegnosamente (secondo le squadre a cui servivano) vestiti - ciascuna squadra assortito i colori de' cavalli, sì che altra leardi, altra sauri, altra morelli, altra uberi, altra bai, et altra di variato mantello, secondo che alla invenzione si conveniva gl'avesse. E perché le prescritte maschere, ove quasi solo i principali signori intervennero, non fussero la notte a portare le solite torce costrette, precedendo il giorno, con bellissimo ordine innanzi a tutte le sei descritte squadre, quarantotto variate Streghe guidate da Mercurio e da Diana che tre teste (ambo le tre lor potenzie significando) per ciascuno avevano, et essendo anch'esse in sei squadre distinte, e ciascuna particolare squadra essendo da due discinte e scalze sacerdotesse governata, messero la notte poi ciascuna la sua squadra de' Sogni, a cui attribuita era ordinatamente, in mez[z]o, e la resero con l'accese torce, che esse e gli staffieri portavano, bastevolmente luminosa e chiara. Erano queste, oltre alle variate facce (ma vecchie tutte e deformi) et oltre a' variati colori de' ricchissimi drappi di che vestitesi erano, conosciute massimamente, e l'una dall'altra squadra distinte, dagli animali che in testa avevano, in cui si dice che di trasformarsi assai spesso coi loro incanti si credono; perciò che altre avevono sopra l'argentata tela, che sciugatoio alla testa le faceva, un nero uccello con l'ali e con l'artigli aperti e con due ampollette intorno al capo, significante le lor malefiche distillazioni, altre gatte, altre bianchi e neri cani, et altre con capelli biondi posticci scoprivano con i naturali e canuti, che sotto a quelli quasi contro a lor voglia si vedevano, il lor vano desiderio di parer giovani e belle a' loro amadori. Ma il grandissimo carro tirato da sei irsuti e grand'orsi, di papaveri incoronati, che in ultimo e dopo tutta la leggiadrissima schiera veniva, fu senza dubbio il più ricco, il più pomposo et il più maestrevolmente condotto che da gran tempo in qua veduto si sia; et era questo guidato dal Silenzio, di bigi drappi adorno e con le solite scarpe di feltro a' piedi, che di tacere, mettendosi il dito alla bocca, pareva che far volesse a' riguardanti cenno, col quale tre donne, per la Quiete prese, di viso grasso e pieno, e di amplo e ricco abito azzurro vestite, con una testuggine per ciascuna in testa, pareva che aiutare guidare i prescritti orsi al prescritto Silenzio volessero. Era il carro poi (in sur un grazioso piano di sei angoli posandosi) figurato in forma d'una grandissima testa d'elefante, dentro a cui si vedeva figurato similmente per la casa del Sonno una capricciosa spelonca; et il gran padre Sonno predetto, in parte nudo, di papaveri inghirlandato, rubicondo e grasso, su l'un de' bracci con le guance appoggiato, si vedeva similmente con grande agio giacervisi, avendo intorno a sé Morfeo et Icelo e Fantaso e gl'altri figliuoli suoi, in stravaganti e diverse e bizarre forme figurati. Ma nella sommità della spelonca predetta si vedeva la bianca e bella e lucida Alba, con la biondissima chioma tutta rugiadosa e molle; essendo a' piè della spelonca medesima con un tasso, che guancial le faceva, l'oscura Notte, la quale, perciò che de' veraci sogni madre è tenuta, pareva che fede non piccola alle parole de' prescritti Sogni accrescer dovesse. Per ornamento del carro poi si vedevano, all'invenzione accomodandosi, alcune vaghissime istoriette, con tanta leggiadria e grazia e diligenzia scompartite, che più non pareva che si potesse desiderare. Per la prima delle quali si vedeva Bacco, del Sonno padre, sur un pampinoso carro da due macchiati tigri tirato, con il verso, per noto renderlo, che diceva:
Bacco, del Sonno sei tu vero padre.
Sì come nell'altro si vedeva la madre del medesimo Sonno, Cerere, delle solite spighe incoronata, con il verso per la medesima cagion posto, che diceva anch'egli:
Cerer del dolce Sonno è dolce madre.
E sì come si vedeva nell'altra la moglie del medesimo Sonno, Pasitea, che di volare sopra la terra sembrando, pareva che negl'animali, che per gl'alberi e sopra la terra sparsi erano, indotto un placidissimo sonno avesse, con il suo motto anch'ella che nota la rendeva, dicendo:
Sposa del Sonno, questa è Pasitea.
Ma dall'altra parte si vedeva Mercurio, presidente del Sonno, addormentare l'occhiuto Argo, con il suo motto anch'egli, dicente:
Creare il Sonno può Mercurio ancora.
E si vedeva, esprimendo la nobiltà e divinità del Sonno medesimo, un adorno tempietto d'Esculapio, in cui molti uomini macilenti et infermi dormendo, pareva che la perduta sanità recuperassero; con il verso questo significante, e che diceva anch'egli:
Rende gl'uomini sani il dolce Sonno.
Sì come si vedeva altrove Mercurio, accennando verso alcuni Sogni che di volar per l'aria sembravano, parlar nell'orecchie al Re Latino che in un antro addormentato stava, dicendo il suo verso:
Spesso in sogno parlar lece con Dio.
Oreste poi, dalle Furie stimolato, si vedeva solo mediante i Sogni, che di cacciare con certi maz[z]i di papaveri le predette Furie sembravano, pigliare a tanto travaglio qualche quiete, con il verso che diceva:
Fuggon pel sonno i più crudi pensieri.
E si vedeva alla misera Ecuba, similmente sognando, parere che una vaga cerva le fusse da un fiero lupo di grembo tolta e strangolata, significar volendo per essa il pietoso caso che poi alla sfortunata figliuola avvenne, con il motto dicente:
Quel ch'esser deve il sogno scuopre e dice.
Sì come altrove, col verso che diceva:
Fanno gli Dei saper lor voglie in sogno
si vedeva Nestore apparire al dormente Agamennone et esporgli la volontà del sommo Giove. E come nel settimo ed ultimo si dimostrava l'antica usanza di far sacrifizio, come deità veneranda, al Sonno in compagnia delle Muse, esprimendolo con un sacrificato animale sopra un altare, e col verso dicente:
Fan sagrifizio al Sonno et alle Muse.
Eran tutte queste istoriette scompartite poi e tenute da diversi Satiri e Baccanti e Putti e Streghe, e con diversi notturni animali, e festoni e papaveri, rese vagamente liete et adorne; non senza un bel tondo in vece di scudo nell'ultima parte del carro posto, in cui l'istoria d'Endimione e della Luna si vedeva dipinta, essendo tutte le cose, come s'è detto, con tanta leggiadria e grazia e pazienzia e disegno condotte, che di troppa opera ci sarebbe mestiero a volere ogni minima sua parte con la meritata lode raccontare. Ma quelli di cui si disse che per figliuoli del Sonno in sì stravaganti abiti in sul descritto carro posti erano, cantando a' principali Canti della città la seguente canzone, pareva, con la soavissima e mirabile loro armonia, che veramente un graziosissimo e dolce sonno negl'ascoltanti di indurre si sforzassero, dicendo:

Or che la rugiadosa
Alba la rondinella a pianger chiama,
Questi, che tanto v'ama,
SONNO, gran padre nostro e dell'ombrosa
Notte figlio, pietosa
E sacra schiera noi
Di SOGNI, o belle donne, mostra a voi.
Perché ‘l folle pensiero
Uman si scorga, che, seguendo fiso
Amor, Fama, Narciso,
E Bellona e Ricchezza in van sentiero,
La notte e ‘l giorno intero
S'aggira, al fine insieme v Per frutto ha la pazzia del suo bel seme.
Accorte or dunque, il vostro
Tempo miglior spendete in ciò che chiede
Natura, e non mai fede
Aggiate a l'Arte, che quasi aspro mostro,
Cinto di perle e d'ostro,
Dolce v'invita, e pure
Son le promesse sogni e larve scure.

DEL CASTELLO
Variando poi altra volta spettacolo et avendo su la grandissima piaz[z]a di Santa Maria Novella fatto con singolar maestria fabbricare un bellissimo castello, con tutte le debite circustanzie di baluardi, di cavalieri, di casematte, di cortine, di fossi e contrafossi, e porte segrete e palesi, e finalmente con tutte quelle avvertenze che alle buone e gagliarde fortificazioni si ricercano, e messovi dentro una buona quantità di valorosi soldati con un de' principali e più nobili signori della corte per capittano, ostinato a non voler per niuna guisa esser preso, dividendo in due giornate il magnifico spettacolo, si vide nella prima con bellissimo ordine comparire da una parte una buona et ornatissima banda di cavalli tutti armati et in ordine, come se con veraci inimici affrontar si dovessero, e dall'altra, in sembianza di poderoso e ben instrutto esercito, alcuni squadroni di fanteria co' loro arnesi, e carri di munizione et artiglieria, e co' loro guastatori e vivandieri tutti insieme ristretti, come nelle proprie e ben pericolose guerre costumar si suole, avendo anche questi un peritissimo e valorosissimo signore simile per capitano, che qua e là travagliandosi si vide far molto nobilmente l'ufizio suo. Et essendo questi da quei di dentro stati in varie guise e con valore et arte più volte riconosciuti, e con grande strepito d'archibusi e d'artiglierie essendosi appiccato, or con cavalli et or con fanti, diverse scaramucce, e preso e dato cariche et ordinato con astuzia et ingegno alcune imboscate et altri così fatti bellici inganni, si vide finalmente da que' di dentro, quasi che oppressi dalla troppa forza, andare a poco a poco ritirandosi, et in ultimo sembrare d'essere al tutto a rinchiudersi dentro al castello stati costretti. Ma il secondo giorno (quasi che le piattaforme e la gabbionata e piantato l'artiglieria la notte avessero) si vidde cominciare una molto orribile batteria che di gettare a poco a poco una parte della muraglia a terra sembrava, dopo la quale e dopo lo scoppio d'una mina, che da un'altra parte, per tener divertiti gl'animi, pareva che assai capace adito nella muraglia fatto avesse, riconosciuti i luoghi e stando con bellissimo ordine la cavalleria in battaglia, si vide quando uno squadrone e quando un altro, e quale con scale e qual senza muoversi, e dare a vicenda molti e terribili e valorosi assalti, e quegli rimessi più volte, e da quegl'altri sempre con arte e con ardire e con ostinazione sostenuti, pareva infine, come lassi ma non vinti, che quei di dentro si fussero con quei di fuori onoratamente accordati a conceder loro il luogo, uscendosene, con mirabile soddisfazione de' riguardanti, in ordinanza con le loro insegne spiegate e tamburi, e con tutte le lor solite bagaglie.

DELLA GENEOLOGIA DEGLI DEI
Leggesi di Paulo Emilio, capitan sommo de' virtuosi secoli suoi, che non meno di maraviglia porse della prudenza e valor suo a' popoli greci e di molte altre nazioni che in Amfipoli eran concorsi, celebrandovi dopo la vittoria conseguita varii e nobilissimi spettacoli, che prima vincendo Perseo e domando gloriosamente la Macedonia si avesse porto nel maneggio di quella guerra, che fu non poco difficile e faticosa, usando dire non minor ordine né minor prudenza ricercarsi, e quasi non meno di buon capitano essere ufizio il sapere nella pace ben preparare un convito che nella guerra il saper bene uno esercito per un fatto d'arme rappresentare. Per lo che, se dal glorioso Duca, nato a fare tutte le cose con grandez[z]a e valore, questo medesimo ordine e questa medesima prudenza fu in questi spettacoli dimostrata, et in quello massimamente che a descrivere m'apparecchio, crederrò che a sdegno non sia per essergli, se tacere non arò voluto, che egli ne fusse al tutto inventore et ordinatore et in un certo modo diligente essecutore, trattando tutte le cose e rappresentandole poi con tanto ordine e tranquillità e prudenza e tanto magnificamente, che ben può fra le molte sue gloriose azzioni ancor questa con somma sua lode annoverarsi. Or lasciando a chi prima di me, con infinita dottrina, in quei tempi ne scrisse, e rimettendo a quell'opera coloro che curiosamente veder cercassero come ogni minima cosa di questa mascherata, che della Geneologia degli Dei ebbe il titolo, fu con l'autorità de' buoni scrittori figurata, e quel che io giudicherò in questo luogo soverchio trapassando, dirò che sì come si legge essere alle noz[z]e di Peleo e di Teti stati convocati parte degl'antichi Dei a renderle fauste e felici, così a queste di questi novelli eccellentissimi Sposi, augurandoli i buoni la medesima felicità e contento, et assicurandoli i nocevoli che noiosi non gli sarebbero, parse che non parte de' medesimi Dei, ma tutti e non chiamati, ma che introdur si dovessero, che per se stessi alla medesima cagione venuti vi fussero. Il qual concetto da quattro madrigali, che si andavano diversamente ne' principali luoghi (sì come in quel de' Sogni si è detto) e da quattro pienissimi cori cantando, in questa guisa pareva che leggiadramente espresso si fusse, dicendo:

L'alta che fino al ciel fama rimbomba
Della leggiadra Sposa,
Che ‘n questa riva erbosa:
D'Arno, candida e pura, alma colomba,
Oggi lieta sen vola e dolce posa,
Da la celeste sede ha noi qui tratti,
Perché più leggiadr' atti
E bellezza più vaga e più felice
Veder già mai non lice.

Né pur la tua festosa
Vista, o FLORA, e le belle alme tue dive
Traggionne alle tue rive,
Ma il lume e ‘l sol della novella SPOSA,
Che più che mai gioiosa
Di suo bel seggio e freno
Al gran Tosco divin corcasi in seno

Da' bei lidi, che mai caldo né gielo
Discolora, vegnam, né vi crediate
Ch'altretante beate
Schiere e sante non abbia il mondo e ‘l cielo:
Ma vostro terren velo
E lor soverchio lume,
Questo e quel vi contende amico nume.

Ha quanti il cielo, ha quanti
Iddii la terra e l'onda al parer vostro,
Ma DIO solo è quell'un che ‘l sommo chiostro
Alberga in mez[z]o a mille Angeli santi,
A cui sol giunte avanti
Posan le pellegrine
E stanche anime alfine, al fin del giorno,
Tutto allegrando il ciel del suo ritorno.

Credo di potere sicuramente affermare che questa mascherata (machina da potersi solo condurre per mano di prudente e pratico e valoroso e gran Principe, et in cui quasi tutti i signori e gentiluomini della città e forestieri intervennero) fusse senza dubbio la più numerosa, la più magnifica e la più splendida che da molti secoli in qua ci sia memoria che in verun luogo stata rappresentata sia, essendo fatti non pure la maggior parte de' vestimenti di tele d'oro e d'argento e d'altri ricchissimi drappi, e di pelli, ove il luogo lo ricercava, finissime, ma vincendo l'arte la materia, composti sopra tutto con leggiadria et industria et invenzione singolare e meravigliosa. E perché gl'occhi de' riguardanti potessero con più sodisfazione mirando riconoscere quali di mano in mano fussero gli Dei che figurar si volevano, convenevol cosa parve d'andargli tutti distinguendo in ventuna squadra, preponendone a ciascheduna uno, che più principale pareva che reputar si dovesse, e quelli per maggior magnificenza e grandez[z]a, e perché così sono dagl'antichi poeti figurati, facendo, sopra appropriati carri, da' lor proprii e particolari animali tirare. Ora in questi carri, che belli e capricciosi e bizarri oltre a modo e d'oro e d'argento splendidissimi si dimostravano, e nel figurare i prescritti animali che gli tiravano proprii e naturali, fu senza dubbio tanta la prontezza et eccellenzia degl'ingegnosi artefici, che non pure furon vinte tutte le cose fino allora fatte fuori e dentro alla città, reputatane in tutti i tempi maestra singolarissima, ma con infinita meraviglia si tolse del tutto la speranza a ciascuno che mai più cosa né sì eroica né sì propria veder si potesse. Da quegli Dii adunque, poi che tali furono, che prime cagioni e primi padri degl'altri son reputati, incominciandoci, andremo ciascun de' carri e delle squadre che gli precedevano descrivendo; e poi che la Geneologia degli Dei si rappresentava, a Demogorgone, primo padre di tutti, et al suo carro faccendo principio, diremo che dopo un vago e leggiadro e d'alloro inghirlandato pastore, l'antico poeta Esiodo rappresentante, che primo nella sua Teogognia degli Dei cantando la lor geneologia scrisse, e che in mano come guidatore un quadro e grande et antico vessillo portava, in cui con diversi colori il Cielo et i quattro Elementi si dimostravano, essendovi in mez[z]o dipinto un grande e greco O attraversato da un serpente che il capo di sparviere aveva; e dopo otto trombetti che con mille graziosi giuochi atteggiavano, figurati per quei tibicini che, privati di poter cibarsi nel tempio, per sdegno a Tibure fuggendosi, furono a Roma addormentati et ebbri ingannevolmente e con molti privilegi ricondotti. Da Demogorgone, dico, incominciandoci, si vedeva sotto forma d'una oscura e doppia spelonca il predetto suo carro da due spaventevoli Dragoni tirarsi, e per Demogorgone un pallido et arruffato vecchio figurando, tutto di nebbie e di caligini coperto, si vedeva nell'anterior parte della spelonca tutto pigro e nighittoso giacersi, essendo dall'una parte messo in mezzo dalla giovane Eternità, di verdi drappi (perché ella mai non invecchia) adorna, e dall'altra dal Caos, che quasi d'una massa senza veruna forma aveva sembianza. Sorgeva poi fra la prescritta spelonca, che le tre prescritte figure conteneva, un grazioso colletto, tutto d'alberi e di diverse erbe pieno ed adorno, preso per la madre Terra, in cui dalla parte di dietro si vedeva un'altra spelonca, benché più oscura della descritta e più cava, nella quale l'Erebo (nella guisa che di Demogorgone suo padre si è detto) di giacere similmente sembrava, e che similmente dalla Notte, della Terra figliuola, con due putti l'uno chiaro e l'altro oscuro in braccio, era dall'una parte messo in mezzo, e dall'altra dall'Etere, della predetta Notte e dal predetto Erebo nato, che sotto forma d'un risplendente giovane con una turchina palla in mano parve che figurar si dovesse. Ma a' piè del carro poi si vedeva cavalcare la Discordia, separatrice delle confuse cose, e perciò conservatrice del mondo da' filosofi reputata, e che di Demogorgone prima figliuola è tenuta; e con lei le tre Parche, che di filare e di troncar poi diversi fili sembravano. Ma sotto la forma d'un giovane tutto di drappi turchini vestito si vedeva il Polo, che una terrestre palla in mano aveva, in cui, accennando alla favola che di lui si conta, pareva che un vaso d'accesi carboni, che sotto gli stava, molte faville asperse avesse; e si vedeva Pitone, di Demogorgone anch'egli figliuolo, che tutto giallo e con una affocata massa in mano, sembrava d'essersi col fratello Polo accompagnato. Veniva poi dopo loro l'Invidia, dell'Erebo e della Notte figliuola, e con lei sotto forma d'un pallido e tremante vecchio, che di pelle di fugace cervo l'acconciatura di testa e tutti gl'altri vestimenti aveva, il Timore suo fratello. Ma dopo questi si vedeva tutta nera, con alcune branche d'ellera che di abbarbicata averla sembravano, la Pertinacia, che con loro del medesimo seme è nata, e che col gran dado di piombo, che in testa aveva, dava segno dell'ignoranza con cui la Pertinacia esser congiunta si dice. Aveva costei in sua compagnia la Povertà sua sorella, che pallida e furiosa, e di nero neglettamente più presto coperta che vestita, si dimostrava. Et era con loro la Fame, del medesimo padre nata anch'ella, e che pareva che di radici e di salvatiche erbe andasse pascendosi; la Querela poi, o il Rammarico, di queste sorella, di drappo tanè coperta e con la querula passera soletaria che nell'acconciatura di testa sembrava d'avergli fatto il nido, si vedeva dopo costoro molto maninconicamente camminare et avere in sua compagnia l'altra commune sorella, Infermità detta, che per la magrez[z]a e palidez[z]a sua, e per la ghirlanda e per il ramicello di anemone che in man teneva, troppo ben faceva da' riguardanti per quel che l'era conoscersi; avendo l'altra sorella Vecchiez[z]a dall'altro lato, tutta canuta e tutta di semplici panni neri vestita, che anch'ella non senza cagione aveva un ramo di senecio in mano. Ma l'Idra e la Sfinge, di Tartaro figliuole, nella guisa che comunemente figurar si sogliono, si vedevan dietro a costoro col medesimo bell'ordine venire. E dopo loro, tornando all'altre figliuole dell'Erebo e della Notte, si vide tutta nuda e scapigliata, con una ghirlanda di pampani in testa, tenendo senza verun freno la bocca aperta, la Licenza, con cui la Bugia sua sorella, tutta di diversi panni e di diversi colori coperta ed involta, e con una gazza per maggiore dichiarazione in testa e con il pesce seppia in mano, accompagnata s'era. Avevano queste, che con loro di pari camminava, il Pensiero, fingendo per lui un vecchio tutto di nero vestito anch'egli e con una stravagante acconciatura di noccioli di pesca in testa, mostrandosi sotto i vestimenti, che talora sventolando s'aprivano, il petto e tutta la persona essere da mille acutissime spine punta e trafitta. Momo poi, lo Dio del biasimo e della maledicenzia, si vedeva sotto forma d'un curvo e molto loquace vecchio dopo costoro venire, e con loro il fanciullo Tagete tutto risplendente (benché della Terra figliuolo), ma in tal modo figurato, perciò che primo fu dell'arte degl'aruspici ritrovatore, sospendendogli, per dimostrazion di quella, uno sparato agnello al collo che buona parte degl'interiori dimostrava. Vedevasi similmente sotto forma d'un grandissimo gigante l'africano Anteo, di costui fratello, che, di barbariche vesti coperto, con un dardo nella destra mano, pareva che della decantata fierez[z]a volesse dar quel giorno manifesti segnali. Ma dopo costui si vedeva seguitare il Giorno, dell'Erebo similmente e della Notte figliuolo, fingendo anche questo un risplendente e lieto giovane, tutto di bianchi drappi adorno e di ornitogalo incoronato, in compagnia di cui si vedeva la Fatica sua sorella, che, di pelle d'asino vestita, si era della testa del medesimo animale con gl'elevati orecchi, non senza riso de' riguardanti, fatto cappello, aggiugnendovi per piegatura due ali di gru, e per l'opinione che si ha che gl'uomini indefessi alla fatica renda, avendogli anche le gambe della medesima gru in mano messe. Il Giuramento poi, da' medesimi generato, sotto forma d'un vecchio sacerdote, tutto spaventato per un Giove vendicatore che in man teneva, chiudendo tutta la squadra al gran padre Demogorgone attribuita, e' teneva a costoro ultimamente compagnia. E giudicando con queste Deità bastevolmente aver mostro i principii di tutti gl'altri Dei, qui fine a' seguitanti del primo carro fu posto.

CARRO SECONDO DI CIELO
Ma nel secondo, di più vaga vista, che allo dio Cielo fu destinato, del descritto Etere e del Giorno tenuto da alcuni figliuolo, si vedeva questo giocondo e giovane Dio, di lucidissime stelle vestito e con la fronte di zaffiri incoronata e con un vaso in mano, entrovi una accesa fiamma, sedere sur una palla turchina tutta delle quarantotto celesti immagini dipinta et adorna; nel cui carro, tirato dalla maggiore e minor Orsa, note questa per le sette e quella per le ventuna stelle, di che tutte asperse erano, si vedevan per adorno e pomposo renderlo, con bellissima maniera e con grazioso spartimento, dipinte sette delle favole del medesimo Cielo. Figurando nella prima, per dimostrare non senza cagione quell'altra opinione che se ne tiene, il suo nascimento, che dalla Terra esser seguìto si dice; sì come nella seconda si vedeva la coniunzione sua con la medesima madre Terra, di che nascevano, oltre a molt'altri, Cotto, Briareo e Gige, che cento anni e cinquanta capi per ciascuno avere avuto si crede, e ne nascevano i Ciclopi, così detti dal solo occhio che in fronte avevano. Vedevasi nella terza quando e' rinchiudeva nelle caverne della prescritta Terra i communi figliuoli perché veder non potessero la luce; sì come nella quarta, per liberargli da tanta oppressione, si vedeva la medesima madre Terra confortargli a prendere del crudo padre necessaria vendetta; per lo che nella quinta gl'eran da Saturno tagliati i membri genitali, del cui sangue pareva che da una banda le Furie et i Giganti nascessero, sì come della spuma dell'altra, che in mare d'esser caduta sembrava, si vedeva con diverso parto prodursi la bellissima Venere. Ma nella sesta si vedeva espressa quell'ira che co' Titani ebbe, per essergli da loro stati lasciati, come si è detto, i genitali tagliare; e sì come nella settima ed ultima si scorgeva similmente questo medesimo Dio dagl'Atlantidi adorarsi et essergli religiosamente edificati tempî et altari. Ma a' piè del carro poi (sì come nell'altro si disse) si vedeva cavalcare il nero e vecchio e bendato Atlante, che di aver con le robuste spalle sostenuto il Cielo avuto ha nome: per lo che una grande e turchina e stellata palla in mano stata messa gl'era. Ma dopo lui, con leggiadro abito di cacciatore, si vedeva camminare il bello e giovane Yade suo figliuolo, a cui facevan compagnia le sette sorelle, Yade anch'esse dette, cinque delle quali, tutte d'oro risplendenti, si vedevano una testa di toro per ciascuna in capo avere, perciò che anch'esse si dice che ornamento sono della testa del celeste Toro, e l'altre due, come manco in ciel chiare, parve che di argentato drappo bigio vestir si dovessero. Ma dopo costoro, per sette altre simili Stelle figurate, seguivano le sette Pleiadi, del medesimo Atlante figliuole, l'una delle quali, perciò che anch'ella poco lucida in ciel si dimostra, del medesimo e solo drappo bigio parve che dicevolmente adornar si dovesse. Sì come l'altre sei, perciò che risplendenti e chiare sono, si vedevano nelle parti dinanzi tutte per l'infinito oro lampeggiare e rilucere, essendo in quelle di dietro di solo puro e bianco vestimento coperte, denotare per ciò volendo che, sì come al primo apparir loro pare che la chiara e lucida state abbia principio, così, partendosi, si vede che l'oscuro e nevoso verno ci lasciano. Il che era anche espresso dall'acconciatura di testa che la parte dinanzi di variate spighe contesta aveva, sì come quella di dietro pareva che tutta di nevi e di ghiaccio e di brinate composta fusse. Seguiva dopo costoro il vecchio e deforme Titano, che con lui aveva l'audace e fiero Iapeto suo figliuolo; ma Prometeo, che di Iapeto nacque, si vedeva tutto grave e venerando dopo costoro, con una statuetta di terra nell'una delle mani e con una face accesa nell'altra, venire, denotando il fuoco che fino di cielo a Giove aver furato si dice. Ma dopo lui per ultimi, che la schiera del secondo carro chiudessero, si vedevano, con abito moresco e con una testa di religioso elefante per cappello, venire similmente due degli Atlantidi che primi, come si disse, il Cielo adorarono, aggiugnendo, per dimostrazione delle cose che da loro ne' primi sagrifizii usate furono, ad ambo in mano un gran maz[z]o di simpullo, di mappa, di dolobra e di acerra.

CARRO TERZO DI SATURNO
Saturno, di Cielo figliuolo, tutto vecchio e bianco, e che alcuni putti avidamente di divorar sembrava, ebbe il terzo non men dell'altro adornato carro, da due grandi e neri buoi tirato, per accrescimento della bellez[z]a del quale, sì come in quello sette, così in questo cinque delle sue favole parve che dipignere si dovessero. E perciò per la prima si vedeva questo Dio essere dalla moglie Opis sopragiunto mentre con la bella e vaga ninfa Fillare a gran diletto si giaceva; per lo che essendo costretto a trasformarsi, per non esser da lei conosciuto, in cavallo, pareva che di quel coniungimento nascesse poi il centauro Chirone. Sì come nella seconda si vedeva l'altro suo coniungimento con la latina Enotria, di cui Iano, Ymmo, Felice e Festo ad un medesimo parto prodotti furono; per i quali spargendo il medesimo Saturno nel genere umano la tanto utile invenzione del piantar le viti e fare il vino, si vedeva Iano in Lazio arrivare e quivi insegnando ai roz[z]i popoli la paterna invenzione, beendo quella gente intemperatamente il novello e piacevolissimo liquore, e perciò poco dopo summersi in un profondissimo sonno, risvegliati finalmente e tenendo d'essere stati da lui avvelenati, si vedevano empiamente trascorrere a lapidarlo et ucciderlo: per lo che commosso Saturno ad ira e gastigandoli con una orribilissima pestilenza, pareva finalmente, per gl'umili preghi de' miseri e per un tempio da loro su la Rupe Tarpeia edificatogli, che benigno e placato si rendesse. Ma nella terza si vedeva figurato poi quando, volendo crudelmente divorarsi il figliuolo Giove, gl'era dall'accorta moglie e dalle pietose figliuole mandato in quella vece il sasso, il quale rimandato loro indietro da lui, si vedeva rimanerne con infinita tristezza et amaritudine. Sì come nella quarta era la medesima favola dipinta (di che nel passato carro di Cielo si disse), cioè quando egli tagliava i genitali al predetto Cielo, da cui i Giganti e le Furie e Venere ebbero origine. E sì come nell'ultima si vedeva similmente quando, da' Titani fatto prigione, era dal pietoso figliuolo Giove liberato. Per dimostrar poi la credenza che si ha che l'istorie a' tempi di Saturno primieramente cominciassero a scriversi, con l'autorità d'approvato scrittore, si vedeva figurato un Tritone, con una marina conca sonante e con la doppia coda quasi in terra fitta, chiudere l'ultima parte del carro; a' piè di cui (si come degl'altri s'è detto) si vedeva di verdi panni adorna e con un candido ermellino in braccio, che un aurato collare di topazii al collo aveva, una onestissima vergine, per la Pudicizia presa, la quale col capo e con la faccia d'un giallo velo coperta, aveva in sua compagnia la Verità, figurata anch'ella sotto forma d'una bellissima e delicata et onesta giovane, coperta solo da certi pochi e trasparenti e candidi veli. Queste con molto graziosa maniera camminando, avevano messo in mezzo la felice Età dell'oro, figurata per una vaga e pura vergine anch'ella, tutta ignuda e tutta di que' primi frutti, dalla terra per se stessa prodotti, coronata ed adorna. Seguiva dopo costoro di neri drappi vestita la Quiete, che una giovane donna, ma grave molto e veneranda sembrava, e che per acconciatura di testa aveva molto maestrevolmente composto un nido, in cui una vecchia e tutta pelata cicogna pareva che si giacesse; essendo da due neri Sacerdoti in mez[z]o messa, che coronati di fico e con un ramo per ciascuno del medesimo fico nell'una mano, e con un nappo entrovi una stiacciata di farina e di mele nell'altra, pareva che dimostrar con essa volessero quella opinione, che si tiene per alcuni, che Saturno delle biade fusse il primo ritrovatore: per lo che i Cirenei, che tali erano i due neri Sacerdoti, si dice che delle predette cose solevan fargli i sagrifizii. Erano questi da due altri romani Sacerdoti seguitati, che di volere anch'essi sagrificargli, quasi secondo l'uso moderno, alcuni ceri pareva che dimostrassero, poi che dall'empio costume, da' Pelasgi di sagrificare a Saturno gl'uomini in Italia introdotto, si vedevano mediante l'esemplo d'Ercole (che simili ceri usava) liberati. Questi, sì come quegli la Quiete, mettevano anch'essi in mezzo la veneranda Vesta, di Saturno figliuola, che strettissima nelle spalle e ne' fianchi, a guisa di rotonda palla molto piena e larga, di bianco vestita, portava un'accesa lucerna in mano. Ma dopo costoro, chiudendo per ultimo la terza squadra, si vedeva venire il Centauro Chirone, di Saturno, come si è detto, figliuolo, della spada et arco e turcasso armato; e con lui un altro de' figliuoli del medesimo Saturno con il ritorto lituo (perciò che augure fu) in mano, tutto di drappi verdi coperto e con l'uccello picchio in testa, poi che in tale animale, secondo che le favole narrano, si tiene che da Chirone trasformato fusse.

CARRO QUARTO DEL SOLE
Ma allo splendidissimo Sole fu il quarto tutto lucido e tutto dorato et ingemmato carro destinato, che da quattro velocissimi et alati destrieri, secondo il costume, tirato, si vedeva, con una acconciatura d'un delfino e d'una vela in testa, la Velocità per auriga avere, in cui, ma con diversi spartimenti e graziosi e vaghi quanto più immaginar si possa, erano sette delle sue favole (sì come degl'altri s'è detto) dipinte. Per la prima delle quali si vedeva il caso del troppo audace Fetonte, che mal seppe questo medesimo carro guidare; sì come per la seconda si vedeva la morte del serpente Pitone, e per la terza il gastigo dato al temerario Marsia; ma nella quarta si vedeva quando, pascendo d'Admeto gl'armenti, volse un tempo umile e pastoral vita menare; sì come per la quinta si vedeva poi quando, fuggendo il furor di Tifeo, fu in corbo a convertirsi costretto; e come nella sesta furon l'altre sue conversioni, prima in leone e poi in sparviere, similmente figurate; veggendosi per l'ultima il mal suo gradito amore dalla fugace Dafne, che alloro (come è notissimo) per pietà degli Dii finalmente divenne. Vedevasi a' piè del carro cavalcar poi tutte alate e di diverse etadi e colori l'Ore, del Sole ancelle e ministre, delle quali ciascuna a imitazion degl'Egizii un ippopotamo in mano portava et era di fioriti lupini incoronata; dietro alle quali (il costume egizio pur seguitando) si vedeva sotto forma d'un giovane tutto di bianco vestito, e con due cornetti verso la terra rivolti in testa e d'oriental palma inghirlandato, il Mese camminare e portare in mano un vitello, che un sol corno non senza cagione aveva. Ma dopo costui si vedeva camminar similmente l'Anno, col capo tutto di ghiacci e di nevi coperto e con le braccia fiorite et inghirlandate, e col petto e col ventre tutto di spighe adorno, sì come le coscie e le gambe parevano anch'esse tutte essere di mosto bagnate e tinte, portando similmente nell'una mano, per dimostrazione del suo rigirante corso, un rigirante serpente che con la bocca pareva che la coda divorar si volesse, e nell'altra un chiodo, con che gl'antichi Romani si legge che tener ne' tempii solevano degl'anni memoria. Veniva la rosseggiante Aurora poi, tutta vaga e leggiadra e snella, con un giallo mantelletto e con una antica lucerna in mano, sedente con bellissima grazia sul Pegaseo cavallo; in cui compagnia si vedeva in abito sacerdotale, e con un nodoso bastone et un rubicondo serpente in mano e con un cane a' piedi, il medico Esculapio, e con loro il giovane Fetonte, del Sole (sì come Esculapio) figliuolo anch'egli, che tutto ardente, rinovando la memoria del suo infelice caso, pareva che nel cigno, che in mano aveva, trasformar si volesse. Orfeo poi, di questi fratello, giovane et adorno, ma di presenzia grave e venerabile, con la tiara in testa, sembrando di sonare un'ornatissima lira, si vedeva dietro a loro camminare; e si vedeva con lui l'incantatrice Circe, del Sole figliuola anch'ella, con la testa bendata, che tale era la reale insegna, e con matronale abito, la quale in vece di scettro pareva che tenesse in mano un ramicello di larice et un di cedro, co' cui fumi si dice che gran parte degl'incantamenti suoi fabbricar soleva. Ma le nove Muse, con grazioso ordine camminando, con bellissimo finimento chiudevan l'ultima parte del descritto leggiadro drappello; le quali sotto forma di leggiadrissime Ninfe, di piume di gaz[z]a, per ricordanza delle vinte Sirene, e di altre sorti di penne incoronate, con diversi musicali instrumenti in mano si vedevan figurate; avendo in mez[z]o all'ultime, che il più degno luogo tenevano, messo di neri e ricchi drappi adorna la Memoria, delle Muse madre, tenente un nero cagnuolo in mano, per la memoria che in questo animale si dice esser mirabile, e con l'acconciatura di testa stravagantemente di variatissime cose composta, denotando le tante e sì variate cose che la memoria è abile a ritenere.

CARRO QUINTO DI GIOVE
Il gran padre poi degl'uomini e degli Dii Giove, di Saturno figliuolo, ebbe il quinto sopra tutti gl'altri ornatissimo e pomposissimo carro; perciò che oltre alle cinque favole, che come negl'altri dipinte vi si vedevano, ricco oltre a modo e meraviglioso era reso da tre statue che pomposissimo spartimento alle prescritte favole facevano: dall'una delle quali si vedeva rappresentare l'effigie che si crede essere stata del giovane Epafo, di Io e di Giove nato, e dall'altra quella della vaga Elena, che da Leda ad un parto fu con Castore e Polluce prodotta; sì come dall'ultima si rappresentava quella dell'avo del saggio Ulisse, Arcesio chiamato. Ma per la prima delle favole predette si vedeva Giove convertito in toro trasportare la semplicetta Europa in Creta; sì come per la seconda si vedeva con perigliosa rapina sotto forma d'aquila volarsene col troiano Ganimede in cielo; e come per la terza, volendo con la bella Egina, di Asopo figliuola, giacersi, si vedeva l'altra sua trasformazione fatta in fuoco; veggendosi per la quarta il medesimo Giove converso in pioggia d'oro discendere nel grembo dell'amata Danae; e nella quinta ed ultima veggendosi liberare il padre Saturno, che da' Titani prigione era (come di sopra si disse) indegnamente tenuto. In tale e così fatto carro poi e sopra una bellissima sede di diversi animali e di molte aurate Vittorie composta, con un mantelletto di diversi animali ed erbe contesto, si vedeva il predetto gran padre Giove con infinita maestà sedere, inghirlandato di frondi simili a quelle della comune oliva, e con una Vettoria nella destra mano, da una fascia di bianca lana incoronata e con un reale scettro nella sinistra, in cima a cui l'imperiale aquila pareva che posata si fusse. Ma ne' piedi della sede (per più maestevole e pomposa renderla) si vedeva da una parte Niobe con i figliuoli morire per le saette d'Apollo e di Diana, e dall'altra sett'uomini combattenti, che in mez[z]o a sé d'aver sembravano un putto con la testa di bianca lana fasciata, sì come dall'altro si vedeva Ercole e Teseo, che con le famose Amaz[z]oni di combattere mostravano. Ma a piè del carro, tirato da due molto grandi e molto propriamente figurate aquile, si vedeva poi, sì come degl'altri s'è detto, camminare Bellorofonte di reale abito e di real diadema adorno, per accennamento della cui favola sopra la prescritta diadema si vedeva la da lui uccisa Chimera, avendo in sua compagnia il giovane Perseo, di Giove e di Danae disceso, con la solita testa di Medusa in mano e con il solito coltello al fianco; e con loro il prescritto Epafo, che una testa d'africano elefante per cappello aveva. Ma Ercole, di Giove e di Alcmena nato, con l'usata pelle del leone e con l'usata clava si vedeva dopo costoro venire, et in sua compagnia avere Scita, il fratello (benché di altra madre nato), ritrovator primo dell'arco e delle saette, per lo che di esse si vedeva che le mani et il fianco adornato s'era. Ma dopo questi si vedevano i due graziosi gemelli Castore e Polluce, non meno vagamente sopra due lattati et animosi corsieri in militare abito cavalcare, avendo ciascuno sopra la celata, che l'una d'otto e l'altra di diece stelle era conspersa, una splendida fiammella per cimiere, accennando alla salutevol luce, che oggi di Santo Ermo è detta, che a' marinari per segno della cessata tempesta apparir suole, e per le stelle significar volendo come in cielo da Giove, per il segno di Gemini, collocati furono. La Giustizia poi, bella e giovane, che una deforme e brutta femmina con un bastone battendo finalmente strangolava, si vedeva dopo costoro venire, alla quale quattro degli Dei Penati, due maschi e due femmine, facevano compagnia; dimostrando questi, benché in abito barbaresco e stravagante, e benché con un frontespizio in testa che, con la base all'insù volta, le teste d'un giovane e d'un vecchio sosteneva, per l'aurata catena, che al collo con un cuore attaccato avevano, e per le lunghe et ample e pompose vesti, d'esser persone molto gravi e di molto et alto consiglio. Il che con gran ragione fu fatto, poiché di Giove consiglieri furono dagl'antichi scrittori reputati. Ma i due Palici, di Giove e di Talia nati, di leonati drappi adorni e di diverse spighe inghirlandati, con un altare in mano per ciascuno si vedevano dopo costoro camminare, co' quali Iarba re di Getulia, del medesimo Giove figliuolo, di bianca benda cinto e con una testa di leone sopravi un cocodrillo per cappello, contesto nell'altre parti di foglie di canna e di papiro e di diversi mostri, e con lo scettro et una fiamma d'acceso fuoco in mano, accompagnato s'era. Ma Xanto, il troiano Fiume, di Giove pur figliuolo anch'egli, sotto umana forma, ma tutto giallo e tutto ignudo e tutto toso, con il versante vaso in mano, e Sarpedone re di Licia, suo fratello, con maestrevole abito e con un monticello in mano, di leoni e di serpenti pieno, si vedevano dopo loro venire: chiudendo in ultimo l'ultima parte della grande squadra quattro armati Cureti, che le spade assai sovente l'una con l'altra percuotevano, rinovando per ciò la memoria del monte Ida, ove Giove fu per loro opera dal vorace Saturno salvato, nascondendo con lo strepito dell'armi il vagito del tenero fanciullo. Fra ‘ quali in ultimo e con l'ultima coppia per maggior dignità si vide, con l'ali e senza piedi, quasi regina degl'altri, con molto fasto e grandezza la superba Fortuna altieramente venire.

CARRO SESTO DI MARTE
Ma Marte, il bellicoso e fiero Dio, di lucidissime armi coperto, ebbe il sesto non poco adorno e non poco pomposo carro, da due feroci e molto a' veri simiglianti lupi tirato, in cui la moglie Nereine e la figliuola Evadne, di basso rilievo figuratevi, facevano spartimento a tre delle sue favole che, come degl'altri s'è detto, dipinte vi erano. Per la prima delle quali, in vendetta della violata Alcippe, si vedeva da lui uccidere il misero figliuolo di Nettunno Alirtozio; e per la seconda, in sembiante tutto amoroso, si vedeva giacere con Rea Silvia e generarne i due gran conditori di Roma Romulo e Remo; sì come per la terza et ultima si vedeva rimanere (quale a' suoi seguaci assai sovente avviene) miseramente prigione degl'empi Oto et Efialte. Ma innanzi al carro, per le prime figure che precedendo cavalcavano, si vedevano poi due de' suoi sacerdoti Salii, de' soliti scudi ancili e delle solite armi e vesti coperti et adorni, mettendo loro in testa in vece di celata due cappelli a sembianza di conii; e si vedevano esser seguitati dai predetti Romulo e Remo, a guisa di pastori con pelli di lupi rusticamente coperti, mettendo, per distinguere l'uno dall'altro, a Remo sei et a Romulo, per memoria dell'augurio più felice, dodici avvoltoi nell'acconciatura di testa. Veniva dopo costoro Enomano re della greca Pisa, di Marte figliuolo anch'egli, e che nell'una mano, come re, un reale scettro teneva, e nell'altra una rotta carretta per memoria del tradimento usatogli dall'auriga Mirmillo, combattendo per la figliuola Ippodamia contro a Pelope, di lei amante. Ma dopo loro si vedevano venire Ascalafo et Ialmeno, di Marte anch'essi figliuoli, di militare e ricco abito adorni, rammemorando per le navi, di cui ciascuno una in mano aveva, il poderoso soccorso da loro con cinquanta navi porto agl'assediati Troiani. Erano questi seguitati dalla bella Ninfa Brittona, di Marte similmente figliuola, con una rete per ricordanza del suo misero caso in braccio, e dalla non men bella Ermione, che del medesimo Marte e della vaghissima Venere nacque, e che moglie fu del tebano Cadmo, a cui si tiene che Vulcano già un bellissimo collare donasse; per lo che si vedeva costei, col prescritto collare al collo, nelle parti superiori avere di femmina sembianza, e nelle inferiori (denotando che col marito in serpente fu convertita) si vedeva essere di serpentino scoglio coperta. Avevano queste dietro a sé, con un sanguinoso coltello in mano e con uno sparato capretto ad armacollo, il molto in vista fiero Ipervio, del medesimo padre nato, da cui si dice che prima impararono gl'uomini ad uccidere i bruti animali; e con lui il non men fiero Etolo, da Marte anch'egli prodotto, fra ‘ quali di rosso abito adorna, tutto di neri ricami consperso, con la spumante bocca e con un rinoceronte in testa e con un cinocefalo in groppa, si vedeva la cieca Ira camminare. Ma la Fraude, con la faccia d'uom giusto e con l'altre parti quali da Dante nell'Inferno descritte si leggono, e la Minaccia, per una spada et un bastone che in mano aveva minacciosa veramente in vista, di bigio e rosso drappo coperta e con l'aperta bocca dopo costoro di camminar seguitando, si vedevano dietro a sé lasciare il gran ministro di Marte, Furore, e la pallida e non meno a Marte convenevole Morte: essendo quegli di oscuro rossore stato tutto vestito e tinto, e con le mani dietro legate, sembrando sur un gran fascio di diverse armi molto minaccioso sedersi, e questa tutta pallida (come si è detto) e di neri drappi coperta, con gl'occhi chiusi, non meno spaventevole e non meno orribile dimostrandosi. Le Spoglie poi, sotto figura d'una femmina di leonina pelle adorna, con un antico trofeo in mano, si vedeva dopo costoro venire, la quale pareva che di due prigioni feriti e legati, che in mez[z]o la mettevano, quasi gloriar si volesse; avendo dietro a sé, per ultima fila di sì terribile schiera, una in sembianza molto gagliarda femmina con due corna di toro in testa e con uno elefante in mano, figurata per la Forza, con cui pareva che la Crudeltà, tutta rossa e tutta similmente spaventevole, un piccol fanciullo uccidendo, bene e dicevolmente accompagnata si fusse.

CARRO SETTIMO DI VENERE
Ma diversa molto fu la vista del vez[z]oso e gentile e grazioso e dorato carro della benigna Venere, che dopo questo nel settimo luogo si vedeva venire, tirato da due placidissime e candidissime e tutte amorose colombe, a cui non mancarono quattro maestrevolmente condotte istorie, che pomposo e vago e lieto non lo rendessero. Per la prima delle quali si vedeva questa bellissima Dea, fuggendo il furore del gigante Tifeo, convertirsi in pesce; e per la seconda tutta pietosa si vedeva similmente pregare il padre Giove che volesse imporre ormai fine alle tante fatiche del travagliato suo figliuolo Enea; veggendosi nella terza la medesima essere da Vulcano, il marito, con la rete presa, giacendosi con l'amator suo Marte; sì come nella quarta ed ultima si vedeva, non meno sollecita per il prescritto figliuolo Enea, venire con la tanto inessorabile Iunone a concordia di congiugnerlo in amoroso laccio con la casta regina di Cartagine. Ma il bellissimo Adone come più caro amante si vedeva primo innanzi al carro con leggiadro abito di cacciatore camminare, col quale due piccoli e vez[z]osi Amorini con dipinte ali, e con l'arco e con le saette, pareva che accompagnati si fussero, essendo dal maritale Imeneo, giovane e bello, seguitati, con la solita ghirlanda di persa e con l'accesa face in mano, e da Talassio col pilo e con lo scudo e col corbello di lana pieno. Ma Piteo, la Dea della persuasione, di matronale abito adorna, con una gran lingua, secondo il costume egiziano, entrovi un sanguinoso occhio, in testa e con un'altra lingua simile in mano, ma che con un'altra finta mano era congiunta, si vedeva dopo costoro venire, e con lei il troiano Paride, che in abito di pastore sembrava per memoria della sua favola di portare il mal per lui avventuroso pome; sì come la Concordia sotto forma di bella e grave et inghirlandata donna, con una tazza nell'una mano e con un fiorito scettro nell'altra, pareva che questi seguitasse; con cui similmente pareva che accompagnato si fusse, con la solita falce e col grembo tutto di frutti pieno, lo Dio degl'orti Priapo; e con loro, con un dado in mano et uno in testa, Manturna, solita dalle spose, la prima sera che co' mariti si congiugnevano, molto devotamente invocarsi, credendo che fermezza e stabilità indurre nelle vaghe menti per lei si potesse. Stravagantemente fu poi l'Amicizia, che dopo loro veniva, figurata, perciò che questa, benché in forma di giovane donna, si vedeva avere di frondi di melagrano e di mortella la nuda testa inghirlandata, con una rozza veste indosso, in cui si leggeva: MORS ET VITA, e col petto aperto, sì che scorgervisi entro il cuore si poteva, in cui si vedeva similmente scritto: LONGE ET PROPE, portando un secco olmo in mano, da una fresca e feconda vite abbracciato. Erasi con costei accompagnato l'onesto e l'inonesto Piacere, stravagantemente figurato anch'egli sotto forma di due giovani, che con le stiene l'una con l'altra d'essere appiccate sembravano: l'una bianca e, come disse Dante, guercia e coi piè distorti, e l'altra (benché nera) d'onesta e graziosa forma, cinta con bella avvertenza dell'ingemmato e dorato cesto, e con un freno e con un commune braccio da misurare in mano. La quale era seguitata dalla Dea Virginense, solita anticamente invocarsi nelle nozze anch'ella, perché ell'aiutasse sciorre allo sposo la verginal zona; per lo che di lini e bianchi panni tutta vestita, e di smeraldi e da un gallo la testa inghirlandata, si vedeva con la prescritta zona e con un ramicello di agno casto in mano camminare, essendosi con lei accompagnata la tanto e da tanti desiderata Belle[z]za, in forma di vaga e fiorita e tutta di gigli incoronata vergine; e con loro Ebe la Dea della gioventù, vergine anch'ella et anch'ella ricchissimamente e con infinita leggiadria vestita, e d'aurata e vaga ghirlanda incoronata ed adorna, e con un vez[z]oso ramicello di fiorito mandorlo in mano; chiudendo ultimamente il leggiadrissimo drappello l'Allegrez[z]a, vergine e vaga et inghirlandata similmente, e che un tirso, tutto di ghirlande e di variate frondi e fiori contesto, in mano anch'ella et in simil guisa portava.

CARRO OTTAVO DI MERCURIO
Fu dato a Mercurio poi, che il caduceo et il cappello et i talari aveva, l'ottavo carro, da due naturalissime cicogne tirato, e ricco fatto anch'egli ed adorno da cinque delle sue favole. Per la prima delle quali si vedeva come messaggero di Giove apparire su le nuove mura di Cartagine all'innamorato Enea, e comandargli che quindi partendosi dovesse alla volta d'Italia venire; sì come per la seconda si vedeva la misera Aglauro esser da lui convertita in sasso; e come per la terza, di comandamento di Giove, si vedeva similmente legare agli scogli del monte Caucaso il troppo audace Prometeo; ma nella quarta si vedeva un'altra volta convertire il mal accorto Batto in quella pietra che paragone si chiama; e nella quinta ed ultima l'uccisione sagacemente da lui fatta dell'occhiuto Argo, il quale per maggiore dimostrazione in abito di pastore, tutto d'occhi pieno, si vedeva primo innanzi al carro camminare; con cui, in abito ricchissimo di giovane donna, con una vite in testa e con uno scettro in mano, Maia la madre di Mercurio predetto e di Fauno figliuola sembrava d'essersi accompagnata, avendo alcuni in vista dimestichi serpenti che la seguitavano. Ma dopo questi si vedeva venire la Palestra, di Mercurio figliuola, in sembianza di vergine tutta ignuda, ma forte e fiera a meraviglia e di diverse frondi d'olivo per tutta la persona inghirlandata, con i capelli accortati e tosi, acciò che combattendo, come è suo costume di sempre fare, presa all'inimico non porgessero. E con lei l'Eloquenzia, pur di Mercurio figliuola, anch'ella di matronale ed onesto e grave abito adorna, con un pappagallo in testa e con una delle mani aperta. Vedevansi poi le tre Grazie, nel modo solito prese per mano e d'un sottilissimo velo coperte; dopo le quali, di pelle di cane vestiti, si vedevano i duoi Lari venire, co' quali l'Arte, con matronal abito anch'ella e con una gran leva et una gran fiamma di fuoco in mano, pareva che accompagnata si fusse. Erano questi da Auctolico, ladro sottilissimo, di Mercurio e di Chione Ninfa figliuolo, con le scarpe di feltro e con una chiusa berretta che il viso gli nascondeva, seguitati, avendo d'una lanterna, che da ladri si chiama, e di diversi grimaldelli e d'una scala di corda l'una e l'altra man piena; veggendosi ultimamente dall'Ermafrodito, di Mercurio anch'egli e di Venere disceso, nel modo solito figurato, chiudersi l'ultima parte della picciola squadra.

CARRO NONO DELLA LUNA
Ma il nono e tutto argentato carro della Luna da due cavalli, l'un bianco e l'altro nero, tirato, si vide dopo questo non men leggiadramente venire, guidando ella, d'un candido e sottil velo come è costume coperta, con grazia graziosissima gl'argentati freni; e si vide (come negl'altri) non men vegamente fatto pomposo ed adorno da quattro delle sue favole. per la prima delle quali, fuggendo il furor di Tifeo, si vedeva questa gentilissima Dea essere in gatta a convertirsi costretta; sì come nella seconda si vedeva caramente abbracciare e baciare il bello e dormente Endimione; e come nella terza si vedeva, da un gentil vello cinta di candida lana, condursi in una oscura selva per giacersi con l'innamorato Pane, Dio de' pastori; ma nella quarta si vedeva essere al medesimo soprascritto Endimione, per la grazia di lei acquistatasi, dato a pascere il suo bianco gregge. E per maggiore espressione di costui, che tanto fu alla Luna grato, si vedeva poi primo di dittamo inghirlandato innanzi al carro camminare, con cui un biondissimo fanciullo con un serpente in mano e di platano incoronato anch'egli, preso per il Genio buono, et un grande e nero uomo spaventevole in vista, con la barba e co' capelli arruffati e con un gufo in mano, preso per il Genio cattivo, accompagnato s'era; essendo dallo Dio Vaticano, che al vagito de' piccoli fanciulli essere atto a soccorrer si crede, di onesto e leonato abito adorno e con un d'essi in braccio, seguitato; con cui si vedeva venir similmente, con splendida e variata veste e con una chiave in mano, la Dea Egeria, invocata anch'ella in soccorso dalle pregnanti donne, e con loro l'altra Dea Nundina, protettrice similmente de' nomi de' piccoli bambini, con abito venerabile e con un ramo d'alloro et un vaso da sagrifizio in mano. Vitumno poi, il quale al nascimento de' putti era tenuto che loro inspirasse l'anima, secondo l'egiziano costume figurandolo, si vedeva dopo costoro camminare, e con lui Sentino, che dare a' nascenti la potestà de' sensi era anch'egli dagl'antichi reputato; per lo che, essendo tutto candido, se gli vedeva nell'acconciatura di testa cinque capi di quegl'animali che avere i cinque sentimenti più acuti che nessun degl'altri si crede: quello d'una bertuccia cioè, quello d'un avvoltoio e quello d'un cignale e quello d'un lupo cerviere e quello, anzi pur tutto ‘l corpo, d'un piccol ragnatelo. Edusa e Potina poi, preposte al nutrimento de' medesimi putti, in abito ninfale, ma con lunghissime e pienissime poppe, tenente l'una un nappo entrovi un candido pane, e l'altra un bellissimo vaso che pieno d'acqua esser sembrava, si vedevano nella medesima guisa che gl'altri cavalcare, chiudendo con loro l'ultima parte della torma Fabulino, preposto al primo favellare de' medesimi putti, di variati colori adorno, e tutto di cutrettole e di cantanti fringuelli il capo inghirlandato.

CARRO DECIMO DI MINERVA
Ma Minerva con l'aste et armata e con lo scudo del Gorgone, come figurar si suole, ebbe il decimo carro di triangolar forma e di color di bronzo composto, da due grandissime e bizarrissime civette tirato, delle quali da tacer non mi pare, che, quantunque di tutti gl'animali che questi carri tirarono si potesse contare meraviglie singolari et incredibili, queste nondimeno fra gl'altri furono sì propriamente e sì naturalmente figurate, faccendo loro muovere e piedi et ali e colli, e chiudere et aprire fino agl'occhi, tanto bene e con simiglianza sì al vero vicina, ch'io non so come possibil sia potere, a chi non le vide, persuaderlo già mai. E però il di lor ragionare lasciando, dirò che nelle tre facce di che il triangolar carro era composto, si vedeva nell'una dipinto il mirabil nascimento di questa Dea del capo di Giove, sì come nella seconda si vedeva da lei adornarsi con quelle tante cose Pandora, e come nella terza similmente si vedeva convertire in serpenti i capelli della misera Medusa; dipignendo da una parte della base poi la contesa che con Nettunno ebbe sopra il nome che ad Atene (innanzi che tale l'avesse) por si doveva: ove, producendo egli il feroce cavallo et ella il fruttifero olivo, si vedeva ottenerne memorabile e gloriosa vittoria; e nell'altra si vedeva, trasformata in una vecchierella, sforzarsi di persuadere alla temeraria Aracne, prima che in tale animale convertita l'avesse, che volesse, senza mettersi in prova, concedergli la palma della scienzia del ricamare; sì come con diverso sembiante si vedeva nella terza et ultima valorosamente uccidere il superbo Tifone. Ma innanzi al carro poi con due grand'ali, e con onesto e puro e disciolto abito, sotto forma di giovane e viril donna si vedeva la Vertù camminare, dicevolmente in sua compagnia avendo, di palma inghirlandato e di porpora e d'oro risplendente, il venerabile Onore, con lo scudo e con un'aste in mano, e che due tempii di sostener sembrava, nell'uno dei quali, et in quello cioè al medesimo Onore dedicato, pareva che non si potesse se non per via dell'altro della Vertù trapassare; et acciò che nobile e dicevol compagnia a sì fatte maschere data fusse, parse che alla medesima fila la Vittoria, di lauro inghirlandata e con un ramo anch'ella di palma in mano, aggiugnere si dovesse. Seguivano queste la buona Fama, figurata in forma di giovane donna con due bianche ali, sonante una grandissima tromba, e seguiva con un bianco cagnuolo in collo la Fede, tutta candida anch'ella e con un lucido velo che le mani et il capo et il volto di coprirgli sembravano; e con loro la Salute, tenente nella destra una tazza che porgerla ad un serpente pareva che volesse, e nell'altra una sottile e diritta verga. Nemesi poi, figliuola della Notte, remuneratrice de' buoni e gastigatrice de' rei, in virginal sembianza, di piccoli cervi e di piccole Vittorie inghirlandata, con un'aste di frassino e con una taz[z]a simile in mano, si vedeva dopo costoro venire; con la quale la Pace, vergine anch'ella, ma di benigno aspetto, con un ramo d'oliva e con un cieco putto in collo, preso per lo Dio della ricchezza, pareva che accompagnato si fusse; e con loro, portando un vaso da bere in forma di giglio in mano, similmente si vedeva et in simil guisa venire la sempre verde Speranza, seguitata dalla Clemenza sur un gran leone a caval posta, con un'aste nell'una e con un fulmine nell'altra mano, il quale non di impetuosamente avventare, ma quasi di voler via gettarlo faceva sembiante. Ma l'Occasione, che poco dopo a sé la Penitenza aveva e che da lei essere continuamente percossa sembrava, e la Felicità sopra una sede adagiata e con un caduceo nell'una mano e con un corno di dovizia nell'altra, si vedevan similmente venire. E si vedevan seguitare dalla Dea Pellonia (che a tener lontani i nimici è preposta) tutta armata, con due gran corna in testa e con una vigilante gru in mano, che su l'un de' piedi sospesa si vedeva (come è lor costume) tenere nell'altra un sasso; chiudendo con lei l'ultima parte della gloriosa torma la Scienza, figurata sotto forma d'un giovane che in mano un libro et in testa un dorato tripode, per denotar la fermez[z]a e stabilità sua, di portar sembrava.

CARRO UNDICESIMO DI VULCANO
Vulcano lo Dio del fuoco poi, vecchio e brutto e zoppo, e con un turchino cappello in testa, ebbe l'undicesimo carro, da due gran cani tirato, figurando in esso l'isola di Lemno in cui si dice Vulcano, di cielo gettato, essere stato da Tetide nutrito et ivi aver cominciato a fabbricare a Giove le prime saette; innanzi a cui (come ministri e serventi suoi) si vedevano camminare tre Ciclopi, Bronte e Sterpone e Piracmone, della cui opera si dice esser solito valersi intorno alle saette prescritte. Ma dopo loro in pastoral abito, con una gran zampogna al collo et un bastone in mano, si vedeva venire l'amante della bella Galatea et il primo di tutti i Ciclopi, Polifemo, e con lui il deforme ma ingegnoso e di sette stelle inghirlandato Erictonio, di Vulcano, volente violar Minerva, con i serpentini piedi nato: per nascondimento della brutezza de' quali si tiene che primo ritrovator fusse dell'uso delle carrette. Onde, con una d'esse in mano camminando, si vedeva esser seguitato dal ferocissimo Cacco, di Vulcano anch'egli figliuolo, gettante per la bocca e per lo naso perpetue faville, e da Ceculio, figliuolo di Vulcano similmente, e similmente di pastoral abito, ma con la real diadema adorno: in mano a cui, per memoria dell'edificata Preneste, si vedeva nell'una una città posta sopra un monte e nell'altra un'accesa e rosseggiante fiamma. Ma dopo loro si vedeva venire Servio Tullo re di Roma, che di Vulcano anch'egli esser nato si crede, in capo a cui, sì come a Ceculio in mano, per accennamento del felice augurio, si vedeva da una simil fiamma esser mirabilmente fatta splendida et avventurosa ghirlanda. Vedevasi poi la gelosa Procri, del prescritto Erictonio figliuola e moglie di Cefalo, a cui per memoria dell'antica favola sembrava essere da un dardo il petto trapassato; e con lei si vedeva Orizia sua sorella, in verginale e leggiadro abito, che Pandione re d'Atene, di reali e greci vestimenti adorno, e con loro del medesimo padre nato, in mezzo mettevano. Ma Progne e Filomena, di costui figliuole, vestite l'una di pelle di cervo, con un'aste in mano e con una garrula rondinella in testa, e l'altra un rosignuolo nel medesimo luogo portando, et in mano similmente (denotando il suo misero caso) un donnesco burattello lavorato avendo, pareva, benché di ricco abito adorna, che tutta mesta l'amato padre seguitasse; avendo con loro, perché l'ultima parte della squadra chiudesse, Cacca di Cacco sorella, per Dea dagl'antichi adorata, perciò che, deposto il fraterno amore, si dice avere ad Ercole manifestato l'inganno delle furate vacche.

CARRO DUODICESIMO DI IUNONE
Ma la regina Iunone, di reale e ricca e superba corona e di trasparenti e lucide vesti adorna, passato Vulcano, si vide con molta maestà sul duodicesimo non men di nessun degl'altri pomposo carro venire, da due vaghissimi pavoni tirato, dividendo le cinque istoriette de' suoi gesti, che in esso dipinte si vedevano, Licoria e Beroe e Deiopeia, sue più belle e da lei più gradite Ninfe. Ma per la prima delle prescritte istorie si vedeva da lei convertirsi la misera Calisto in orsa, quantunque fusse poi dal pietoso Giove fra le principalissime stelle in ciel collocata; e nella seconda si vedeva quando, trasformatasi nella sembianza di Beroe, persuadeva alla mal accorta Semele che chiedesse in grazia a Giove che con lei si volesse giacere in quella guisa che con la moglie Iunone era usato, per lo che, come impotente a sostenere la forza de' celesti splendori, ardendo la misera, si vedeva essergli da Giove del ventre Bacco cavato, e nel suo medesimo riponendolo, serbarlo al maturo tempo del parto. Sì come nella terza si vedeva pregar Eolo a mandare gl'impetuosi suoi venti a dispergere l'armata del troiano Enea; e come nella quarta si vedeva, tutta gelosa similmente, chiedere a Giove la sfortunata Io, in vacca convertita, e darla, perché da Giove furata non le fusse, al sempre vigilante Argo in custodia; il quale (come altrove si disse) da Mercurio adormentato et ucciso, si vedeva nella quinta istoria Iunone mandare all'infelicissima Io lo spietato assillo, acciò che trafitta e stimolata continuamente la tenesse. Vedendosi venire a piè del carro poi buona parte di quelle impressioni che nell'aria si fanno, fra le quali per la prima si vedeva Iride, tenuta dagl'antichi per messaggera degli Dei, e di Taumante e di Electra figliuola, tutta snella e disciolta, e con rosse e gialle et azurre e verdi vesti (il baleno arco significando) vestita, e con due ali di sparviere, che la sua velocità dimostravano, in testa. Veniva con lei accompagnata poi, di rosso abito e di rosseggiante e sparsa chioma, la Cometa, che, sotto figura di giovane donna, una grande e lucida stella in fronte aveva; e con loro la Serenità, la quale in virginal sembianza pareva che turchino il volto e turchina tutta la larga e spaziosa veste avesse, non senza una bianca colomba, perché l'aria significasse, anch'ella in testa. Ma la Neve e la Nebbia pareva che dopo costoro accoppiate insieme si fussero, vestita quella di leonati drappi, sopra cui molti tronchi d'alberi tutti di neve aspersi di posarsi sembravano, e questa, quasi che nessuna forma avesse, si vedeva come in figura d'una grande e bianca massa camminare; avendo con loro la verde Rugiada, di tal colore figurata per le verdi erbe in cui vedere comunemente si suole, che una ritonda luna in testa aveva, significante che nel tempo della sua pienezza è massimamente la Rugiada solita dal cielo sopra le verdi erbe cascare. Seguitava la Pioggia poi di bianco abito, benché alquanto torbidiccio, vestita, sopra il cui capo, per le sette Pleiadi, sette parte splendide e parte abbacinate stelle ghirlanda facevano; sì come le diciassette, che nel petto gli fiammeggiavano, pareva che denotar volessero il segno del piovoso Orione. Seguitavano similmente tre Vergini di diversa età, di bianchi drappi adorne e d'oliva inghirlandate anch'elle, figurando con esse i tre ordini di vergini che, correndo, solevano gl'antichi giuochi di Iunone rappresentare; avendo per ultimo in lor compagnia la Dea Populonia, in matronale e ricco abito, con una ghirlanda di melagrano e di melissa in testa e con una piccola mensa in mano, da cui tutta la prescritta aerea torma si vedeva leggiadramente chiudere.

CARRO TREDICESIMO DI NETTUNNO
Ma capriccioso e bizarro e bello sopra tutti gl'altri apparse poi il tredicesimo carro di Nettunno, essendo di un grandissimo granchio, che grancevalo sogliono i Veneziani chiamare e che in su quattro gran delfini si posava, composto, et avendo intorno alla base, che uno scoglio naturale e vero sembrava, una infinità di marine conche e di spugne e di coralli che ornatissimo e vaghissimo lo rendevano, et essendo da due marini cavalli tirato; sopra cui Nettunno nel modo solito e col solito tridente stando, si vedeva in forma di bianchissima e tutta spumosa Ninfa la moglie Salacia a' piedi e come per compagna avere. Ma innanzi al carro si vedeva camminar poi il vecchio e barbuto Glauco, tutto bagnato e tutto di marina alga e di muschio pieno, la cui persona pareva dal mez[z]o in giù che forma di notante pesce avesse, aggirandosegli intorno molti degl'alcionî uccelli; e con lui si vedeva il vario et ingannevole Proteo, vecchio e pien d'alga e tutto bagnato anch'egli; e con loro il fiero Forci, di reale e turchina benda il capo cinto, e con barba e capelli oltre a modo lunghi e distesi, portando per segno dell'imperio che avuto aveva le famose colonne d'Ercole in mano. Seguivano poi con le solite code e con le sonanti buccine due Tritoni, co' quali pareva che il vecchio Eolo, tenente anch'egli in mano una vela et un reale scettro et avendo un'accesa fiamma di foco in testa, accompagnato si fusse, essendo da quattro de' principali suoi Venti seguitato: dal giovane Zefiro cioè, con la chioma e con le variate ali di diversi fioretti adorne, e dal nero e caldo Euro, che un lucido sole in testa avea, e dal freddo e nevoso Borea, et ultimamente dal molle e nubiloso e fiero Austro, tutti, secondo che dipigner si sogliono, con le gonfianti guancie e con le solite veloci e grand'ali figurati. Ma i due giganti Oto et Efialte, di Nettunno figliuoli, si vedevano convenientemente dopo costor venire, tutti, per memoria dell'esser stati da Apollo e da Diana uccisi, di diverse frecce feriti e trapassati. E con loro con non men convenienza si vedevan venire similmente due Arpie, con l'usata faccia di donzella e con l'usate rapaci branche e con l'usato bruttissimo ventre. Vedevasi similmente l'egiziano Dio Canopo, per memoria dell'antica astuzia usata dal sacerdote contro a' Caldei, tutto corto e ritondo e grosso figurato; e si vedevan gl'alati e giovani e vaghi Zete e Calai, figliuoli di Borea, con la cui virtù si conta che già furon del mondo cacciate le brutte e ingorde Arpie prescritte; veggendosi con loro per ultimo con un aurato vaso la bella Ninfa Amminione da Nettunno amata, et il greco e giovane Neleo, del medesimo Nettunno figliuolo, da cui, con l'abito e scettro reale, si vedeva chiudere l'ultima parte della descritta squadra.

CARRO QUATTORDICESIMO DELL'OCEANO E DI TETIDE
Seguitando nella quattordicesima con Tetide, la gran regina della marina, il gran padre Oceano suo marito e di Cielo figliuolo, essendo questi figurato sotto forma d'un grande e ceruleo vecchio, con la gran barba e co' lunghissimi capelli tutti bagnati e distesi, e tutto d'alga e di diverse marine conche pieno e con una orribile foca in mano; e quella una grande e maestrevole e bianca e splendida e vecchia matrona tenente un gran pesce in mano rappresentando, si vedevano ambo due sur un stravagantissimo carro, in sembianza di molto strano e molto capriccioso scoglio, essere da due grandissime balene tirati; a piè di cui si vedeva camminare il vecchio e venerando e spumoso Nereo lor figliuolo, e con lui quell'altra Tetide, di questo Nereo e di Doride figliuola e del grande Achille madre, che di cavalcare un delfino faceva sembianza; la quale si vedeva da tre bellissime Sirene, nel modo solito figurate, seguitare, e le quali dietro a sé avevano due (benché con canuti capelli) bellissime e marine Ninfe, Gree dette, di Forci Dio marino similmente e di Ceto Ninfa figliuole, di diversi e graziosi drappi molto vagamente vestite. Dietro a cui si vedevan venire poi le tre Gorgone, de' medesimi padre e madre nate, con le serpentine chiome e che d'un occhio, col quale tutt'a tre veder potevano, solo e senza più, prestandolo l'una all'altra, si servivano. Vedevasi similmente con faccia e petto di donzella, e col restante della persona in figura di pesce, venire la cruda Scilla e con lei la vecchia e brutta e vorace Caribdi, da una saetta per memoria del meritato gastigo trapassata. Dietro alle quali, per lasciare l'ultima parte della squadra con più lieta vista, si vide ultimamente tutta ignuda venire la bella e vaga e bianca Galatea, di Nereo e di Doride amata e graziosa figliuola.

CARRO QUINDICESIMO DI PAN
Videsi nel quindicesimo carro poi, che d'una ombrosa selva con molto artifizio fatta aveva naturale e vera sembianza, da due grandi e bianchi becchi tirato, venire sotto forma d'un cornuto e vecchio Satiro il rubicondo Pan, lo Dio delle selve e de' pastori, di fronda di pino incoronato, con una macchiata pelle di leonza ad armacollo, e con una gran zampogna di sette canne e con un pastoral bastone in mano; a piè di cui si vedevano alcuni altri Satiri et alcuni vecchi silvani di ferule e di gigli inghirlandati camminare, con alcuni rami di cipresso per memoria dell'amato Ciparisso in mano. Vedevansi similmente due Fauni, coronati d'alloro e con un gatto per ciascuno in su la destra spalla, dopo costoro venire; e dopo loro la bella e selvaggia Siringa, che da Pan amata, si conta che fuggendolo fu in sonante e tremula canna dalle sorelle Naiade convertita. Aveva costei l'altra Ninfa Piti, da Pan amata similmente, in sua compagnia; ma perché Borea il vento anch'egli et in simil guisa innamorato n'era, si crede che per gelosia in una asprissima rupe la sospignesse, ove tutta rompendosi, si dice che per pietà fu in un bellissimo pino dalla madre Terra convertita, della cui fronde l'amante Pan usava (come di sopra s'è mostro) farsi graziosa et amata ghirlanda. Pales poi, la reverenda custode e protettrice delle greggi, in pastorale e gentil abito, con un gran vaso di latte in mano e di medica erba inghirlandata, si vedeva dopo costor venire; e con lei l'altra protettrice degl'armenti, Bubona detta, in simil pastoral abito anch'ella e con una ornata testa di bue che cappello al capo le faceva. Ma Miagro, lo Dio delle mosche, di bianco vestito e con una infinita moltitudine di quegli importuni animaletti per la persona e per la testa aspersi, di spondilo inghirlandato e con l'erculea clava in mano, et Evandro, che primo in Italia insegnò fare a Pan i sagrifizii, di real porpora adorno, e con la real benda e col reale scettro in mano, chiudevano con graziosa mostra l'ultima parte della, quantunque pastorale, vaga nondimeno e molto vistosa squadra.

CARRO SEDICESIMO DI PLUTONE E DI PROSERPINA
Seguiva l'infernal Plutone con la regina Proserpina, tutto ignudo e spaventevole et oscuro, e che di funeral cipresso incoronato era, tenente per segno della real potenza un piccolo scettro nell'una delle mani, et avendo il grande et orribile e trifauce Cerbero a' piedi; ma Proserpina, che con lui da due Ninfe accompagnata si vedeva, tenente l'una una ritonda palla in mano e l'altra una grande e forte chiave, denotando la perduta speranza che aver dee del ritorno chi nel suo regno una volta perviene, pareva che di bianca e ricca et oltre a modo ornata veste coperta si fusse, essendo ambi sull'usato carro tirato da quattro oscurissimi cavalli, i cui freni si vedevano da un bruttissimo et infernal Mostro guidare. Per accompagnatura del quale degnamente si vedevan poi le tre similmente infernali Furie, sanguinose e sozze e spaventevoli, e di varie e venenose serpi i crini e tutta la persona avvolte, dietro alle quali con l'arco e con le saette si vedevan seguitare i due Centauri Nesso et Astilo, portando, oltre alle prescritte armi, Astilo una grand'aquila in mano. E con loro il superbo Gigante Briareo, che cento di scudo e di spada armate mani e cinquanta capi aveva, da' quali pareva che per le bocche e per i nasi perpetuo fuoco si spargesse. Erano questi seguitati dal torbido Acheronte, gettante per un gran vase che in man portava arena et acqua livida e puzzolente; col quale si vedeva venire l'altro infernal Fiume Cocito, oscuro e pallido anch'egli, e che anch'egli con un simil vaso una simil fetida e torbida acqua versava; avendo con loro l'orribile e tanto da tutti gli Dii temuta palude Stige, dell'Oceano figliuola, in ninfale ma oscuro e soz[z]o abito, portante un simil vase anch'ella, e che dall'altro infernal Fiume Flegetonte, di oscuro e tremendo rossore egli et il vaso e la bollente acqua tinto, pareva che messa in mez[z]o fusse. Seguitava poi col remo e con gl'occhi (come disse Dante) di brace, il vecchio Caronte, accompagnato, acciò che nessuno degli infernali Fiumi non rimanesse, dal pallido e magro e distrutto et oblivioso Lete, in mano a cui un simil vaso si vedeva, che da tutte le parti similmente torbida e livida acqua versava. E seguitavano i tre grandi infernali giudici Minos, Eaco e Radamanto: figurando il primo sotto abito e forma reale, et il secondo et il terzo di oscuri e gravi e venerabili abiti adornando. Ma dopo loro si vedeva venire Flegias, il sacrilego re de' Lapiti, rinovando per una freccia, che per lo petto lo trapassava, la memoria dell'arso tempio di Febo et il da lui ricevuto gastigo, e portando per maggior dimostrazione il prescritto ardente tempio in una delle mani. Vedevasi poi l'affannoso Sisifo sotto il grande e pesante sasso, e con lui l'affamato e misero Tantalo, che gl'invano desiati frutti assai vicini alla bocca sembrava d'avere. Ma con più grata vista si vedeva venir poi, quasi da' lieti Campi Elisi partendosi, con la chiomata stella in fronte e con l'abito imperatorio, il divo Iulio et il felice Ottaviano Augusto suo successore; chiudendosi molto nobilmente l'orribile e spaventosa torma ultimamente dall'amazzone Pantasilea, dell'aste e della lunata pelta e della real benda il capo adorna, e dalla vedova regina Tomiri, che anch'ella con l'arco e con le barbariche frecce il fianco e le mani adornate s'aveva.

CARRO DICIASSETTESIMO DI CIBELE
Ma la grande madre degli Dei Cibele, di torri intornata, e perciò che della terra Dea è tenuta, con una veste di variate piante contesta e con uno scettro in mano, sedente sur un quadrato carro pieno, oltre alla sua, da molte altre vacue sedi, e da due gran leoni tirato, si vedeva dopo costor venire, avendo per ornamento del carro dipinto con bellissimo disegno quattro delle sue istorie. Per la prima delle quali si vedeva quando da Pesinunte a Roma condotta, incalmandosi la nave che la portava nel Tevere, era dalla vestal Claudia col solo suo e semplice cignimento, e con singolar meraviglia de' circunstanti, miracolosamente alla riva tirata; sì come per la seconda si vedeva essere di comandamento de' sacerdoti suoi condotta in casa di Scipion Nasica, giudicato per lo migliore e più santo uomo che allora in Roma si ritrovasse; e come per la terza si vedeva similmente essere in Frigia dalla Dea Cerere visitata, poi che in Sicilia aver sicuramente nascosto la figliuola Proserpina si credea; veggendosi per la quarta ed ultima, fuggendo (come i poeti raccontano) in Egitto il furor de' Giganti, essere in una merla a convertirsi costretta. Ma a piè del carro si vedevan cavalcar poi secondo l'uso antico armati diece Coribanti, che varii e stravaganti atteggiamenti di persona e di testa facevano; dopo i quali, con i lor romani abiti si vedeano venire due romane matrone, con il capo da un giallo velo coperte, e con loro il prescritto Scipion Nasica e la prescritta vergine e vestal Claudia, che un quadro e bianco e d'ogn'intorno listato panno, che sotto la gola s'affibiava, in testa aveva. Veggendosi per ultimo, acciò che graziosamente la piccola squadra chiudesse, con gran leggiadria venire il giovane e bellissimo Atis, da Cibele (secondo che si legge) ardentissimamente amato, il quale oltre alle ricche e snelle e leggiadre vesti di cacciatore, si vedeva da un bellissimo et aurato collare esser reso molto graziosamente adorno.

CARRO DICIOTTESIMO DI DIANA
Ma nel diciottesimo oltre modo vistoso carro, da due bianchi cervi tirato, si vide venire con l'aurato arco e con l'aurata faretra la cacciatrice Diana, che su due altri cervi, che con le groppe molto capricciosamente quasi sede le facevano, di sedere con infinita vaghez[z]a e leggiadria faceva sembiante, essendo il restante del carro reso poi da nove delle sue piacevolissime favole stranamente e grazioso e vago et adorno. Per la prima delle quali si vedeva quando mossa a pietà della fuggente Aretusa, che dall'innamorato Alfeo seguitar si vedeva, era da lei in fonte convertita; sì come per la seconda si vedeva pregare Esculapio che volesse ritornargli in vita il morto ed innocente Ippolito; il che conseguito, si vedeva nella terza poi destinarlo custode in Aricia del tempio e del suo sagrato bosco; ma per la quarta si vedeva scacciare dalle pure acque, ove ella con l'altre vergini Ninfe si bagnava, la da Giove violata Cinzia; e per la quinta si vedeva l'inganno da lei usato al soprascritto Alfeo, quando, temerariamente cercando di conseguirla per moglie, condottolo a certo suo ballo et ivi in compagnia del l'altre Ninfe imbrattatasi di fango il volto, lo costrinse, non potendo in quella guisa riconoscerla, tutto scornato e deriso a partirsi; vedevasi per la sesta poi, in compagnia del fratello Apollo, gastigando la superba Niobe, uccider lei con tutti i figliuoli suoi; e si vedeva per la settima mandare il grandissimo e selvaggio porco nella selva Calidonia, che tutta l'Etolia guastava, da giusto e legittimo sdegno contro a que' popoli mossa per gl'intermessi suoi sagrifizii; sì come per l'ottava, non meno sdegnosamente si vedeva convertire il misero Ateone in cervo; e come nella nona ed ultima per il contrario, da pietà tratta, si vedeva convertire la piangente Egeria, per la morte del marito Numa Pompilio, in fonte. Ma a piè del carro in leggiadro e vago e disciolto e snello abito di pelli di diversi animali quasi da loro uccisi composto, si vedevan poi con gl'archi e con le faretre otto delle sue cacciatrici Ninfe venire; e con loro senza più, e che la piccolissima ma graziosa squadra chiudeva, il giovane Virbio di punteggiata mortella inghirlandato, tenente in una delle mani una rotta carretta e nell'altra una ciocca di verginali e biondi capelli.

CARRO DICIANOVESIMO DI CERERE
Ma nel dicianovesimo carro, da due gran dragoni tirato, Cerere la Dea delle biade, in matronal abito, di spighe inghirlandata e con la rosseggiante chioma, si vedeva non men degl'altri pomposamente venire, e non men pomposamente si vedeva esser reso adorno da nove, delle sue favole, che dipinte state vi erano. Per la prima delle quali si vedeva figurato il felice nascimento di Plutone, lo Dio delle ricchezze, da lei e da Iasio eroe (secondo che in alcuni poeti si legge) generato; sì come per la seconda si vedeva con gran cura lavarsi e da lei col proprio latte nutrirsi il piccolo Triptolemo, di Eleusio e di Iona figliuolo; veggendosi per la terza il medesimo Triptolemo per suo avviso fuggire su l'un de' due draghi che da lei col carro gl'erano stati donati, perché andasse pel mondo pietosamente insegnando la cura e coltivazion de' campi, essendogli stato l'altro drago ucciso dall'empio re de' Geti, che di uccider similmente Triptolemo con ogni studio cercava; ma per la quarta si vedeva quando ella nascondeva in Sicilia, presaga in un certo modo di quel che poi gl'avvenne, l'amata figliuola Proserpina; sì come nella quinta si vedeva similmente dopo questo (e come altrove s'è detto) andare in Frigia a visitare la madre Cibele; e come nella sesta si vedeva, in quel luogo dimorando, apparirgli in sogno la medesima Proserpina e dimostrargli in quale stato per il rapimento di lei fatto da Plutone si ritrovasse; per lo che tutta commossa si vedeva per la settima con gran fretta tornarsene in Sicilia; e per l'ottava si vedeva similmente come non ve la trovando, con grande ansietà, accese due gran faci, si era mossa con animo di volerla per tutto ‘l mondo cercare; veggendosi nella nona ed ultima arrivare alla palude Ciane, et ivi nel cignimento della rapita figliuola a caso abbattendosi, certificata di quel che avvenuto gl'era, per la molta ira non avendo altrove in che sfogarsi, si vedeva volgere a spez[z]are i rastri e le marre e gl'aratri e gl'altri rusticani instrumenti che ivi a caso pe' campi da' contadini stati lasciati erano. Ma a piè del carro si vedevan camminar poi, denotando i varii suoi sagrifizii, prima per quegli che Eleusini son chiamati, due verginelle di bianche vesti adorne, con una graziosa canestretta per ciascuna in mano, l'una delle quali tutta di variati fiori e l'altra di variate spighe si vedeva esser piena. Dopo le quali, per que' sagrifizii che alla terrestre Cerere si facevano, si vedevan venire due fanciugli, due donne e due uomini, tutti di bianco vestiti anch'essi e tutti di iacinti incoronati, e che due gran buoi quasi per sagrificargli menavano. Ma per quegl'altri poi che si facevano alla legislatrice Cerere, Tesmofora da' Greci detta, si vedevan venire due sole in vista molto pudiche matrone, di bianco similmente vestite, e di spighe e di agnocasto anch'esse similmente inghirlandate. Ma dopo costoro, per descrivere pienamente tutto l'ordine de' sagrifizii suoi, si vedevan venire, di bianchi drappi pur sempre adorni, tre greci sacerdoti, due de' quali due accese facelle e l'altro una similmente accesa et antica lucerna in mano portavano; chiudendo ultimamente il sagro drappello i due tanto da Cerere amati, di cui disopra s'è fatto menzione: Triptolemo cioè, che, portando un aratro in mano, un drago di cavalcar sembrava, et Iasio, che in snello e leggiadro e ricco abito di cacciatore parve che figurato esser dovesse.

CARRO VENTESIMO DI BACCO
Seguitava il carro ventesimo di Bacco, con singolare artifizio e con nuova et in vero molto capricciosa e bizarra invenzione formato anch'egli, per il quale si vedeva figurata una graziosissima e tutta argentata navicella, che sur una gran base, che di ceruleo mare aveva verace e natural sembianza, era stata in tal guisa bilicata che per ogni piccolo movimento si vedeva, qual proprio enel proprio mare si suole, con singolarissimo piacere de' riguardanti qua e là ondeggiare. In su la quale oltre al lieto e tutto ridente Bacco, nel modo solito adorno e nel più eminente luogo posto, si vedeva col re di Tracia Marone alcune Baccanti et alcuni Satiri tutti gioiosi e lieti, che, sonando diversi cembali et altri loro sì fatti instrumenti, sorgendo quasi in una parte della felice nave un abbondevole fontana di chiaro e spumante vino, si vedevano con varie taz[z]e non pure spesse volte andarne tutti giubilanti beendo, ma, con quella libertà che il vino induce, sembravano di invitare i circustanti a far loro, beendo e cantando, compagnia. Aveva la navicella poi in vece d'albero un grande e pampinoso tirso che una graziosa e gonfiata vela sosteneva, in su la quale, perché lieta et adorna fusse, si vedevan dipinte molte di quelle Baccanti che sul monte Tmolo, padre di preziosissimi vini, si dice che bere e scorrere e con molta licenzia ballare e cantare solite sono. Ma a piè del carro si vedeva camminar poi la bella Sica, da Bacco amata, che una ghirlanda et un ramo di fico in capo et in mano aveva, con la quale si vedeva similmente l'altra amata del medesimo Bacco, Stafile detta, la quale, oltre ad un gran tralcio con molte uve che in man portava, si vedeva similmente essersi con pampani e con grappoli delle medesime uve non meno vagamente fatto intorno alla testa graziosa e verde ghirlanda. Veniva dopo costoro il vago e giovanetto Cisso, da Bacco amato anch'egli, e che in ellera, disgraziatamente cascando, fu dalla madre Terra convertito: per lo che si vedeva avere l'abito in tutte le parti tutto d'ellera pieno. Dopo il quale il vecchio Sileno tutto nudo e sur un asino, con diverse ghirlande d'ellera legato, quasi che per l'ubbriachez[z]a sostenere per se stesso non si potesse, si vedeva venire portando una grande e tutta consumata taz[z]a di legno alla cintura attaccata; venendo con lui similmente lo Dio de' conviti, Como dagl'antichi detto, figurandolo sotto forma d'un rubicondo e sbarbato e bellissimo giovane, tutto di rose inghirlandato, ma tanto in vista abbandonato e sonnolente, che pareva quasi che uno spiede da cacciatore et una accesa facella, che in man portava, a ognora per cascargli stessero. Seguitava con una pantera in groppa la vecchia e similmente rubiconda e ridente Ubbriachez[z]a, di rosso abito adorna e con un grande e spumante vaso di vino in mano, e seguitava il giovane e lieto Riso. Dopo i quali si vedevan venire in abito di Pastori e di Ninfe due uomini e due donne, di Bacco seguaci, di varii pampani in varii modi inghirlandati et adorni. Ma la bella Semele, madre di Bacco, tutta per memoria dell'antica favola affumicata et arsiccia, con Narceo, primo ordinatore de' baccanali sagrifizii, con un gran becco in groppa e di antiche e lucide armi adorno, parve che degnamente ponessero alla lieta e festante squadra convenevole e grazioso fine.

CARRO VENTUNESIMO ET ULTIMO
Ma il ventunesimo et ultimo carro, rappresentante il romano monte Ianiculo, da due grandi e bianchi montoni tirato, si diede al venerabile Iano, con le due teste di giovane e di vecchio, come si costuma, figurandolo, et in mano una gran chiave et una sottil verga, per dimostrare la potestà che sopra le porte e sopra le strade gl'è attribuita, mettendogli. Veggendosi a piè del carro poi di bianche e line vesti adorna, e con l'una delle mani aperta e nell'altra una antica ara con una accesa fiamma portando, venire la sagra Religione, essendo dalle Preghiere in mezzo messa, rappresentate (qual da Omero si descrivano) sotto forma di due grinze e zoppe e guercie e maninconiche vecchie di drappi turchini vestite. Dopo le quali si vedeva venire Antevorta e Postvorta, compagne della Divinità, credendosi che quella prima potesse sapere se le preghiere dovevono essere o non essere dagli Dii essaudite, e la seconda, che solo del trapassato ragione rendeva, credendosi che dire potesse se essaudite state o non state le preghiere fussero: figurando quella prima con sembianza et abito matronale et onesto, et una lucerna et un vaglio in mano mettendogli, con una acconciatura in testa piena di formiche; e questa seconda di bianco nelle parti dinanzi vestendola e la faccia di donna vecchia rappresentandole, si vedeva in quelle di dietro esser di gravi e neri drappi adorna et avere per il contrario i crini biondi et increspati e vaghi, quali alle giovani et amorose donne ordinariamente veder si sogliono. Seguitava quel Favore poi che agli Dei si chiede perché i nostri desiderii sortischino felice et avventuroso fine, il quale, benché di giovenile aspetto, e con l'ali e cieco e di altiera e superba vista si dimostrasse, timido nondimeno e tremante alcuna volta pareva che fusse per una volubile ruota sopra la quale di posarsi sembrava, dubitando quasi (come spesse volte avvenir si vede) che per ogni minimo rivolgimento cascare con molta agevolezza ne potesse. E con lui si vedeva il Buono Evento, od il Felice Fine dell'imprese che noi ci vogliàn dire, figurato per un lieto e vago giovane, tenente in una delle mani una taz[z]a e nell'altra una spiga et un papavero. Seguitava poi in forma di vergine d'oriental palma inghirlandata, e con una stella in fronte e con un ramo della medesima palma in mano, Anna Perenna, per Dea dagl'antichi venerata, credendo che far felice l'anno potesse; e con lei si vedevan venire due Feciali, con la romana toga di verminacea ghirlanda adorni, e con una troia et un sasso in mano, denotante la spezie del giuramento che fare eran soliti quando per il popul romano alcuna cosa promettevano. Dietro a' quali si vedevan venir poi (le religiose cirimonie della guerra seguitando) con la gabinia e purpurea toga un Consolo romano con l'aste in mano, e con lui due romani Senatori togati anch'essi, e due soldati con tutte l'armi e con il romano pilo; seguitando ultimamente, perché questa e tutte l'altre squadre chiudessero, di gialli e bianchi e di leonati drappi adorna, e con diversi instrumenti da batter le monete in mano, la Pecunia, il cui uso, per quanto si crede, fu da Iano primieramente (come cosa al genere umano necessaria) ritrovato et introdotto. Tali furono i carri e le squadre della meravigliosa e non mai più tal veduta mascherata, né che forse mai più a' giorni nostri sarà per vedersi, intorno alla quale, lasciando stare come troppo gran peso per le mie spalle le immense et incomparabili lodi che convenevoli le sarebbero, molto giudiziosamente erano state ordinate sei ricchissime maschere, che molto bene con tutta l'invenzione confacendosi, si videro qua e là a guisa di sergenti, anzi pure di capitani, secondo che mestiero faceva, trascorrere e tenere la lunghissima fila, che circa un mezzo miglio di cammino occupava, con decoro e con grazia insieme ordinata e ristretta. Ma avvicinandosi oramai la fine dello splendido e lietissimo Carnovale, che vie più lieto e con vie più splendore stato celebrato sarebbe, se l'importuna morte di Pio Quarto, poco innanzi seguita, non avesse disturbato una buona quantità di reverendissimi cardinali e d'altri signori principalissimi, che di tutta Italia, alle realissime noz[z]e invitati, si erano per venire apparecchiati; e lasciando stare le leggiadre e ricche et infinite invenzioni nelle spicciolate maschere (mercé degl'innamorati giovani) vedutesi non pure agl'infiniti conviti et ad altri sì fatti ritrovamenti, ma ora in questo luogo et ora in quello, ove si rompessin lance o si corresse all'anello od ove si facesse in mill'altri giuochi simili paragone della destrez[z]a e del valore, e dell'ultima festa che l'ultimo giorno di esso si vide solo trattando, dirò che quantunque tante e sì rare e sì ricche et ingegnose cose di quante di sopra menzion s'è fatto vedute si fussero, che questa nondimeno per la piacevolezza del giuoco e per la ricchez[z]a e per l'emulazione e competenza che vi si scorse ne' nostri artefici, di cui pareva ad alcuni (come avviene) d'essere stati nelle cose fatte lasciati indietro, e per una certa stravaganza e varietà dell'invenzioni, di che altre belle et ingegnose et altre anche ridicole e goffe si dimostrarono, apparse, dico, di molto vaga e straordinaria bellez[z]a anch'ella, et anch'ella dette in tanta sazietà al riguardante popolo diletto e piacere per avventura inaspettato e meraviglioso. E questa fu una Bufolata composta e distinta in diece squadre, distribuite, oltre a quelle che i sovrani Principi per sé tolsero, parte ne' signori della corte e forestieri, e parte ne' gentiluomini della città e nelle due nazioni de' mercanti spagnuola e genovese. Videsi adunque primieramente, e su la prima bufola che alla destinata piazza comparse, venire con grand'arte e giudizio adornata la Sceleratez[z]a, che da sei cavalieri ingegnosissimamente anch'essi, per il Flagello o per i Flagelli figurati, pareva che cacciata e stimolata e percossa fusse. Dopo la quale in su la bufola seconda, che sembianza di pigro asinello aveva, si vide venire il vecchio et ebbro Sileno, da sei Baccanti sostenuto, mentre che di stimolare e pugnere l'asino nel medesimo tempo pareva che si sforzassero. Sì come in su la terza, che forma di vitello aveva, si vide venire similmente l'antico Osiri, accompagnato da sei di que' suoi compagni o soldati, co' quali in molte parti del mondo trascorrendo si crede che insegnasse alle ancor nuove e roz[z]e genti la coltivazione de' campi. Ma in su la quarta, senza altrimenti trasfigurarla, era stato l'umana Vita a caval posta, cacciata e stimolata anch'ella da sei cavalieri, che gl'Anni rappresentavano. Sì come in su la quinta, senz'essere similmente trasfigurata, si vide venire con le tante bocche, e con le solite desiose e grand'ali, la Fama, da sei cavalieri, che la Vertù o le Vertù rassembravano, cacciata anch'ella; le quali Vertù (a quanto si disse) cacciandola, aspiravano a conseguire il debito e meritato premio dell'onore. Videsi in su la sesta venire poi un molto ricco Mercurio, che da sei altri simili Mercurii pareva che non meno degl'altri stimolato et affrettato fusse; veggendosi in su la settima la notrice di Romolo Acca Laurenzia, a cui sei de' suoi sacerdoti Arvali non pure con gli stimoli affrettavano il pigro animale al corso, ma pareva quasi che stati introdotti fussero per fargli dicevole e molto pomposa compagnia. Videsi in su l'ottava venir poi con molta grazia e ricchez[z]a una grande e naturalissima civetta, a cui i sei cavalieri in forma di naturalissimi e troppo a' veri simiglianti pipistrelli, or da questa parte et or da quella co' destrissimi cavalli la bufola stimolando, sembravano di dare mille festosi e giocondissimi assalti. Ma per la nona con singolare artifizio e con ingegnoso inganno si vide una nugola a poco a poco comparire, la quale, poi che per alquanto spazio gl'occhi de' riguardanti tenuti sospesi ebbe, si vide in un momento quasi scoppiare, e di lei uscire il marino Miseno su la bufola a seder posto, il quale da sei ricchissimi e molto maestrevolmente ornati Tritoni si vide in un momento essere perseguitato e punto. Veggendosi per la decima et ultima quasi con il medesimo artifizio, ma ben con diversa e molto maggior forma e colore, un'altra simil nugola venire, e quella in simil modo al debito luogo con fumo e con fiamma e con strepito orrendo scoppiando, si vide dentro a sé avere l'infernal Plutone sopra il solito carro tirato, dal quale con molto grazioso modo si vide spiccare in vece di bufola il grande e spaventevole Cerbero, e quello esser cacciato da sei di quegl'antichi e gloriosi eroi che ne' Campi Elisi si crede che faccino riposata dimora. Queste squadre tutte poi che ebbero, di mano in mano che su la piaz[z]a comparsero, fatto di sé debita e graziosa mostra, dopo un lungo romper di lance e dopo un grande atteggiar di cavalli e di mille altri sì fatti giuochi, con che le vaghe donne et il riguardante popolo fu per buono spazio intrattenuto, condotti finalmente al luogo ove le bufole a mettersi in corso avevano, sonata la tromba e sforzandosi ciascuna squadra che la sua bufola innanzi all'altre alla destinata meta arrivasse, prevalendo or questa et or quella, giunte per alquanto spazio al luogo vicine, si vide in un momento tutta l'aria d'intorno empiersi di terrore e di spavento per i grandi e strepitosi fuochi che or da questa parte et or da quella in mille e strane guise le ferivano; talché bene spesso si vide avvenire che chi più vicino era da principio stato ad acquistare il desiato premio, impaurendosi quello spaventoso e poco ubbidiente animale per lo strepito e pe' fumi e pe' fuochi predetti, che, quanto più innanzi si andava, maggiori sempre e con vie più impeto le percuotevano; e perciò in diversa parte e bene spesso al tutto in fuga rivolgendosi, si vide, dico, che molte volte i primi eran fra gl'ultimi costretti a ritornare, partorendo il viluppo degl'uomini e delle bufole e de' cavalli, et i lampi e gli strepiti et i fracassi, strano e nuovo et incomparabile diletto e piacere. Con che e con il quale spettacolo fu finalmente posto al lietissimo e festevolissimo Carnovale splendido, benché per avventura a molti noioso, fine. Ne' primi e santi giorni poi della seguente Quaresima, pensando di soddisfare alla religiosissima Sposa, ma con soddisfazione certo grandissima di tutto ‘l popolo, che, essendone stato per molt'anni privo et essendosi parte di quei sottilissimi instrumenti smarriti, temeva che mai più riassumere non si dovessero, fu fatta la tanto famosa e tanto ne' vecchi tempi celebrata festa di S. Felice, così detta dalla chiesa ove prima ordinar si soleva. Ma questa volta, oltre a quella che i proprii eccellentissimi Signori aver ne volsero, con cura e spesa di quattro principali e molto ingegnosi gentiluomini della città, in quella di Santo Spirito, come luogo più capace e più bello, rappresentata, con ordine et apparato grandissimo e con tutti i vecchi instrumenti e con non pochi di nuovo aggiunti; in cui, oltre a molti Profeti e Sibille, che con quel semplice et antico modo cantando, predicevano l'avvenimento di Nostro Signore Iesù Cristo, notabile anzi pure, per essere in quei rozzi secoli ordinato, meraviglioso e stupendo et incomparabile fu il Paradiso, che in un momento aprendosi, pieno di tutte le gerarchie degl'Angeli e de' Santi e delle Sante, e co' varii moti le diverse sue sfere accennando, si vide quasi in terra mandare il divino Gabbriello pieno d'infiniti splendori in mez[z]o ad otto altri Angeletti ad annunziare la Vergine gloriosa, che tutta umile e devota sembrava nella sua camera dimorarsi, calandosi tutti e risalendo poi con singolar meraviglia di ciascuno dalla più alta parte della cupola di quella chiesa, ove il prescritto Paradiso era figurato, fino al palco della camera della Vergine, che non però molto spazio sopra il terreno si alzava, con tanta sicurtà e con sì belli e sì facili e sì ingegnosi modi, che a pena parse che umano ingegno potesse tant'oltre trapassare. Con la quale le feste, tutte dagl'eccellentissimi Signori per le realissime noz[z]e apparecchiate, ebbero non pure splendido e famoso, ma, come bene et a veri e cristiani principi si conveniva, religioso e devoto compimento. Sarebbonci da dire ancora molte cose d'un nobilissimo spettacolo rappresentato dal liberalissimo signor Paulo Giordano Orsino, duca di Bracciano, in un grande e molto eroico teatro, tutto nell'aria sospeso, da lui con real animo e con spesa incredibile in questi giorni di legnami fabbricato, ove, con ricchissime invenzioni de' cavalieri mantenitori, de' quali egli fu uno, e degl'avventurieri, si combatté con diverse armi una sbarra e si fece, con singolar diletto de' riguardanti, con ammaestratissimi cavalli quel grazioso ballo chiamato la Battaglia. Ma perché questo, impedito dalle importune piogge, fu per molti giorni prolungato, e perché ricercherebbe, volendo a pieno trattarne, quasi un'opera intera, essendo oggimai stanco, senza più dirne, credo che perdonato mi sia se anch'io farò ormai a questa mia, non so se noiosa, fatica fine.

<< prec succ >>

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