VITA DI STEFANO pittor fiorentino e d'UGOLINO SANESE
Fu in modo eccellente Stefano, pittore fiorentino e discepolo di Giotto, che non pure superò tutti gl'altri che inanzi a lui si erano affaticati nell'arte, ma avanzò di tanto il suo maestro stesso che fu, e meritamente, tenuto il miglior di quanti pittori erano stati infino a quel tempo, come chiaramente dimostrano l'opere sue. Dipinse costui in fresco la Nostra Donna del Camposanto di Pisa, che è alquanto meglio di disegno e di colorito che l'opera di Giotto, e in Fiorenza, nel chiostro di S. Spirito, tre archetti a fresco; nel primo de' quali, dove è la Trasfigurazione di Cristo con Moisè et Elia, figurò, imaginandosi quanto dovette essere lo splendore che gli abagliò, i tre Discepoli con straordinarie e belle attitudini, e in modo aviluppati ne' panni ch'e' si vede che egli andò con nuove pieghe, il che non era stato fatto insino allora, tentando di ricercar[e] sotto l'ignudo delle figure - il che, come ho detto, non era stato co[n]siderato neanche da Giotto stesso. Sotto questo arco, nel quale fece un Cristo che libera la indemoniata, tirò in prospettiva uno edifizio perfettamente, di maniera allora poco nota, a buona forma e migliore cognizione riducendolo, et in esso con giudizio grandissimo modernamente operando mostrò tanta arte e tanta invenzione e proporzione nelle colonne, nelle porte, nelle finestre e nelle cornici, e tanto diverso modo di fare dagl'altri maestri, che pare ch'e' cominciasse a vedere un certo lume della buona e perfetta maniera de' moderni. Imaginossi costui, fra l'altre cose ingegnose, una salita di scale molto difficile, le quali in pittura e di rilievo murate e in ciascun modo fatte hanno disegno, varietà et invenzione utilissima e comoda tanto, che se ne servì il magnifico Lorenzo Vecchio de' Medici nel fare le scale di fuori del palazzo del Poggio a Caiano, oggi principal villa dell'illustrissimo signor Duca. Nell'altro archetto è una storia di Cristo quando libera San Piero dal naufragio, tanto ben fatta che pare che s'oda la voce di Pietro che dica: Domine, salva nos, perimus. Questa opera è giudicata molto più bella dell'altre, perché oltre la morbidezza de' panni, si vede dolcez[z]a nell'aria delle teste, spavento nella fortuna del mare, e gl'Apostoli, percossi da diversi moti e da fantasmi marini, essere figurati con attitudini molto proprie e tutte bellissime; e benché il tempo abbia consumato in parte le fatiche che Stefano fece in questa opera, si conosce, abagliatamente però, che i detti Apostoli si difendono dalla furia de' venti e dall'onde del mare vivamente; la quale cosa essendo appresso i moderni lodatissima, dovette certo ne' tempi di chi la fece parere un miracolo in tutta Toscana. Dipinse dopo, nel primo chiostro di S. Maria Novella, un S. Tomaso d'Aquino allato a una porta, dove fece ancora un Crucifisso, il quale è stato poi da altri pittori, per rinovarlo, in mala maniera condotto. Lasciò similmente una cappella in chiesa cominciata e non finita, che è molto consumata dal tempo, nella quale si vede quando gl'Angeli per la superbia di Lucifero piovvero giù in forme diverse, dove è da considerare che le figure, scortando le braccia, il torso e le gambe molto meglio che ‘ scorci che fussero stati fatti prima, ci dànno ad intendere che Stefano cominciò a conoscere e mostrare in parte le difficultà che avevano a far tenere eccellenti coloro che poi con maggior studio ce gli mostrassono, come hanno fatto, perfettamente: laonde scimia della natura fu dagli artefici per sopranome chiamato. Condotto poi Stefano a Milano, diede per Matteo Visconti principio a molte cose, ma non le potette finire, perché essendosi per la mutazione dell'aria ammalato, fu forzato tornarsene a Firenze, dove avendo riavuto la sanità, fece nel tramezzo della chiesa di Santa Croce, nella cappella degl'Asini, a fresco, la storia del martirio di San Marco quando fu stracinato, con molte figure che hanno del buono. Essendo poi condotto per essere stato discepolo di Giotto, fece a fresco in San Piero di Roma, nella cappella maggiore dove è l'altare di detto Santo, alcune storie di Cristo fra le finestre che sono nella nic[c]hia grande, con tanta diligenza che si vede che tirò forte alla maniera moderna, trapassando d'assai nel disegno e nell'altre cose Giotto suo maestro. Dopo questo fece in Araceli, in un pilastro accanto alla cappella maggiore a man sinistra, un San Lodovico in fresco, che è molto lodato per avere in sé una vivacità non stata insino a quel tempo neanche da Giotto messa in opera. E nel vero aveva Stefano gran facilità nel disegno, come si può vedere nel detto nostro libro in una carta di sua mano nella quale è disegnata la Trasfigurazione ch'e' fece nel chiostro di Santo Spirito, in modo che, per mio giudizio, disegnò molto meglio che Giotto. Andato poi ad Ascesi, cominciò a fresco una storia della Gloria Celeste nella nicchia della cappella maggiore nella chiesa di sotto di San Francesco, dove è il coro, e se bene non la finì, si vede in quello che fece usata tanta diligenza quanta più non si potrebbe disiderare. Si vede in questa opra cominciato un giro di Santi e Sante, con tanta bella varietà ne' volti de' giovani, degl'uomini di mezza età e de' vecchi che non si potrebbe meglio disiderare, e si conosce in quegli spiriti beati una maniera dolcissima e tanto unita che pare quasi impossibile che in que' tempi fusse fatta da Stefano, che pur la fece, se bene non sono delle figure di questo giro finite se non le teste; sopra le quali è un coro d'Angeli che vanno scherzando in varie attitudini, et acconciamente portando in mano figure teologiche sono tutti vòlti verso un Cristo crucifisso, il quale è in mezzo di questa opera, sopra la testa d'un San Francesco che è in mezzo a una infinità di Santi. Oltre ciò fece nel fregio di tutta l'opera alcuni Angeli, de' quali ciascuno tiene in mano una di quelle chiese che scrive San Giovanni Evangelista ne l'Apocalisse, e sono questi Angeli con tanta grazia condotti che io stupisco come in quella età si trovasse chi ne sapesse tanto. Cominciò Stefano questa opera per farla di tutta perfezzione, e gli sarebbe riuscito, ma fu forzato lasciarla imperfetta e tornarsene a Firenze da alcuni suoi negocii d'importanza. In quel mentre dunque che per ciò si stava in Firenze, dipinse per non perder tempo ai Gianfigliazzi, lung'Arno fra le case loro et il Ponte alla Carraia, un tabernacolo piccolo in un canto che vi è, dove figurò con tal diligenzia una Nostra Donna alla quale, mentre ella cuce, un fanciullo vestito e che siede porge un uc[c]ello, che, per piccolo che sia il lavoro, non manco merita essere lodato che si facciano l'opere maggiori e da lui più maestrevolmente lavorate. Finito questo tabernacolo e speditosi de' suoi negozii, essendo chiamato a Pistoia da que' signori, gli fu fatto dipignere, l'anno 1346, la cappella di San Iacopo; nella volta della quale fece un Dio Padre con alcuni Apostoli, e nelle facciate le storie di quel Santo e particolarmente quando la madre, moglie di Zebedeo, dimanda a Gesù Cristo che voglia i due suoi figliuoli collocare uno a man destra, l'altro a man sinistra sua nel regno del Padre. Appresso a questo è la decollazione di detto Santo, molto bella. Stimasi che Maso detto Giottino, del quale si parlerà di sotto, fusse figliuolo di questo Stefano; e se bene molti per l'allusione del nome lo tengono figliuolo di Giotto, io, per alcuni stratti ch'ò veduti e per certi ricordi di buona fede scritti da Lorenzo G[h]iberti e da Domenico del Grillandaio, tengo per fermo ch'e' fusse più presto figliuolo di Stefano che di Giotto. Comunche sia, tornando a Stefano, se gli può attribuire che dopo Giotto ponesse la pittura in grandissimo miglioramento, perché, oltre all'essere stato più vario nell'invenzioni, fu ancora più unito nei colori e più sfumato che tutti gl'altri, e sopra tutto non ebbe paragone in essere diligente. E quegli scorci ch'e' fece, ancora che, come ho detto, cattiva maniera in essi per la difficultà di fargli mostrasse, chi è nondimeno investigatore delle prime difficultà negl'essercizii merita molto più nome che coloro che seguono con qualche più ordinata e regolata maniera. Onde certo grande obligo avere si dee a Stefano, perché chi camina al buio e mostrando la via rincuora gl'altri, è cagione che, scoprendosi i passi dificili di quella, dal cattivo camino con spazio di tempo si pervenga al disiderato fine. In Perugia ancora, nella chiesa di San Domenico, cominciò a fresco la cappella di Santa Caterina che rimase imperfetta. Visse ne' medesimi tempi di Stefano con assai buon nome Ugolino pittore sanese, suo amicissimo, il quale fece molte tavole e cappelle per tutta Italia, se ben tenne sempre in gran parte la maniera greca come quello che, invec[c]hiato in essa, aveva voluto sempre per una certa sua caparbità tenere più tosto la maniera di Cimabue che quella di Giotto, la quale era in tanta venerazione. È opera dunque d'Ugolino la tavola dell'altar maggiore di Santa Croce in campo tutto d'oro, et una tavola ancora che stette molti anni all'altar maggiore di Santa Maria Novella, e che oggi è nel Capitolo dove la nazione spagnola fa ogni anno solennissima festa il dì di San Iacopo et altri suoi uffizii e mortorii. Oltre a queste fece molte altre cose con bella pratica, senza uscire però punto della maniera del suo maestro. Il medesimo fece, in un pilastro di mattoni della loggia che Lapo avea fatto alla piaz[z]a d'Orsanmichele, la Nostra Donna: che non molti anni poi fece tanti miracoli, che la loggia stette gran tempo piena d'imagini e che ancora oggi è in grandissima venerazione. Finalmente, nella capella di messer Ridolfo de' Bardi che è in Santa Croce, dove Giotto dipinse la vita di S. Francesco, fece nella tavola dell'altare a tempera un Crucifisso e una Madalena et un S. Giovanni che piangono, con due frati da ogni banda che gli mettono in mezzo. Passò Ugolino da questa vita, essendo vecchio, l'anno 1349, e fu sepolto in Siena, sua patria, orrevolmente. Ma tornando a Stefano, il quale dicono che fu anco buono architettore - e quello che se n'è detto di sopra ne fa fede -, egli morì, per quanto si dice, l'anno che cominciò il giubileo del 1350, d'età d'anni 49, e fu riposto in S. Spirito nella sepoltura de' suoi maggiori con questo epitafio: STEFANO FLORENTINO PICTORI FACIUNDIS IMAGINIBUS AC COLORANDIS FIGURIS NULLI UNQUAM INFERIORI AFFINES MOESTISS. POS. VIX. ANN. XXXXIX. Fine della Vita di Stefano pittor fiorentino e d'Ugolino sanese.