Cap. XXIIII. Del dipingere in pietra a olio, e che pietre siano buone.
E cresciuto sempre lo animo a' nostri artefici pittori faccendo che il colorito a olio, oltra l'averlo lavorato in muro, si possa, volendo, lavorare ancora su le pietre. Delle quali hanno trovato nella riviera di Genova quella spezie di lastre che noi dicemmo nella Architettura, che sono attissime a questo bisogno, perché, per esser serrate in sé e per avere la grana gentile, pigliano il pulimento piano. In su queste hanno dipinto modernamente quasi infiniti e trovato il modo vero da potere lavorarvi sopra. Hanno provato poi le pietre più fine, come mischî di marmo, serpentini e porfidi et altre simili, che, sendo lisce e brunite, vi si attacca sopra il colore. Ma nel vero, quando la pietra sia ruvida et arida molto meglio inzuppa e piglia l'olio bollito et il colore dentro, come alcuni piperni overo piperigni gentili, i quali, quando siano battuti col ferro e non arrenati con rena o sasso di tufi, si possono spianare con la medesima mistura che dissi nell'arricciato, con quella cazzuola di ferro infocata; perciò che a tutte queste pietre non accade dar colla in principio, ma solo una mano d'imprimatura di colore a olio, cioè mestica; e secca che ella sia, si può cominciare il lavoro a suo piacimento. E chi volesse fare una storia a olio su la pietra, può tôrre di quelle lastre genovesi e farle fare quadre e fermarle nel muro co' pernî sopra una incrostatura di stucco, distendendo bene la mestica in su le commettiture, di maniera che e' venga a farsi per tutto un piano di che grandezza l'artefice ha bisogno. E questo è il vero modo di condurre tali opre a fine; e finite, si può a quelle fare ornamenti di pietre fini, di mistî e d'altri marmi, le quali si rendono durabili in infinito, purché con diligenza siano lavorate; e possonsi e non si possono vernicare, come altrui piace, perché la pietra non prosciuga, cioè non sorbisce quanto fa la tavola e la tela, e si difende da' tarli, il che non fa il legname.