VITA DI PIERO DELLA FRANCESCA pittore dal Borgo a San Sepolcro
Infelici sono veramente coloro, che affaticandosi negli studii per giovare altrui e per lasciare di sé fama, non sono lasciati o dall'infirmità o dalla morte alcuna volta condurre a perfezzione l'opere che hanno cominciato; e bene spesso avviene che lasciandole o poco meno che finite o a buon termine, sono usurpate dalla presonzione di coloro che cercano di ricoprire la loro pelle d'asino con le onorate spoglie del leone. E se bene il tempo, il quale si dice padre della verità, o tardi o per tempo manifesta il vero, non è però che per qualche spazio di tempo non sia defraudato dell'onor che si deve alle sue fatiche colui che ha operato, come avvenne a Piero della Francesca dal Borgo a S. Sepolcro; il quale, essendo stato tenuto maestro raro nelle difficultà de' corpi regolari e nell'aritmetrica e geometria, non potette, sopragiunto nella vecchiezza dalla cecità corporale e dalla fine della vita, mandare in luce le virtuose fatiche sue et i molti libri scritti da lui, i quali nel Borgo sua patria ancora si conservano; se bene colui che doveva con tutte le forze ingegnarsi di accrescergli gloria e nome per aver appreso da lui tutto quello che sapeva, come empio e maligno cercò d'anullare il nome di Piero suo precettore, e usurpar quello onore, che a colui solo si doveva, per se stesso, publicando sotto suo nome proprio, cioè di fra' Luca dal Borgo, tutte le fatiche di quel buon vecchio; il quale, oltre le scienze dette di sopra, fu eccellente nella pittura. Nacque costui nel Borgo a San Sepolcro, che oggi è città ma non già allora, e chiamossi dal nome della madre della Francesca, per essere ella restata gravida di lui quando il padre e suo marito morì, e per essere da lei stato allevato et aiutato a pervenire al grado che la sua buona sorte gli dava. Attese Pietro nella sua giovenezza alle matematiche, et ancora che d'anni quindici fusse indiritto a essere pittore, non si ritrasse però mai da quelle; anzi facendo maraviglioso frutto et in quelle e nella pittura, fu adoperato da Guidobaldo Feltro, duca vecchio d'Urbino, al quale fece molti quadri di figure piccole bellissimi, che sono andati in gran parte male, in più volte che quello Stato è stato travagliato dalle guerre. Vi si conservarono nondimeno alcuni suoi scritti di cose di geometria e di prospettive, nelle quali non fu inferiore a niuno de' tempi suoi né forse che sia stato in altri tempi già mai, come ne dimostrano tutte l'opere sue piene di prospettive, e particularmente un vaso in modo tirato a quadri e facce che si vede dinanzi, di dietro e dagli lati, il fondo e la bocca: il che è certo cosa stupenda, avendo in quello sottilmente tirato ogni minuzia, e fatto scortare il girare di tutti que' circoli con molta grazia. Laonde acquistato che si ebbe in quella corte credito e nome, volle farsi conoscere in altri luoghi; onde andato a Pesero et Ancona, in sul più bello del lavorare fu dal duca Borso chiamato a Ferrara, dove nel palazzo dipinse molte camere, che poi furono rovinate dal duca Ercole vecchio per ridurre il palazzo alla moderna; di maniera che in quella città non è rimaso di man di Piero se non una capella in S. Agostino, lavorata in fresco, et anco quella è dalla umidità malcondotta. Dopo, essendo condotto a Roma, per papa Nicola Quinto lavorò in palazzo due storie nelle camere di sopra a concorrenza di Bramante da Milano, le quali forono similmente gettate per terra da papa Giulio Secondo perché Raffaello da Urbino vi dipignesse la prigionia di S. Piero et il miracolo del Corporale di Bolsena, insieme con alcune altre che aveva dipinte Bramantino, pittore ecc[ellente] de' tempi suoi. E perché di costui non posso scrivere la vita né l'opere particulari per essere andate male, non mi parrà fatica, poi che viene a proposito, far memoria di costui, il quale nelle dette opere che furono gettate per terra aveva fatto, secondo che ho sentito ragionare, alcune teste di naturale sì belle e sì ben condotte che la sola parola mancava a dar loro la vita. Delle quali teste ne sono assai venute in luce, perché Raffaello da Urbino le fece ritrare per aver l'effigie di coloro, che tutti furono gran personaggi; perché fra essi era Niccolò Fortebraccio, Carlo Settimo re di Francia, Antonio Colonna principe di Salerno, Francesco Carmignuola, Giovanni Vitellesco, Bessarione cardinale, Francesco Spinola, Battista da Canneto; i quali tutti ritratti furono dati al Giovio da Giulio Romano discepolo et erede di Raffaello da Urbino, e dal Giovio posti nel suo museo a Como. In Milano, sopra la porta di S. Sepolcro, ho veduto un Cristo morto di mano del medesimo fatto in iscorto, nel quale, ancora che tutta la pittura non sia più che un braccio d'altezza, si dimostra tutta la lunghezza dell'impossibile fatta con facilità e con giudizio. Sono ancora di sua mano in detta città in casa del marchesino Ostanesia camere e logge, con molte cose lavorate da lui con pratica e grandissima forza negli scórti delle figure. E fuori di Porta Versellina, vicino al castello, dipinse a certe stalle oggi rovinate e guaste alcuni servidori che streg[g]hiavano cavalli, fra i quali n'era uno tanto vivo e tanto ben fatto, che un altro cavallo, tenendolo per vero, gli tirò molte coppie di calci. Ma tornando a Piero della Francesca, finita in Roma l'opera sua se ne tornò al Borgo, essendo morta la madre; e nella Pieve fece a fresco dentro alla porta del mezzo due Santi, che sono tenuti cosa bellissima. Nel convento de' Frati di S. Agostino dipinse la tavola dell'altar maggiore, che fu cosa molto lodata, et in fresco lavorò una Nostra Donna della Misericordia in una Compagnia overo, come essi dicono, Confraternita; e nel Palazzo de' Conservadori una Resurrezzione di Cristo, la quale è tenuta dell'opere che sono in detta cità, e di tutte le sue, la migliore. Dipinse a S. Maria di Loreto, in compagnia di Domenico da Vinegia, il principio d'un'opera nella volta della sagrestia; ma perché temendo di peste la lasciarono imperfetta, ella fu poi finita da Luca da Cortona, discepolo di Piero, come si dirà al suo luogo. Da Loreto venuto Piero in Arezzo, dipinse per Luigi Bacci, cittadino aretino, in S. Francesco la loro capella dell'altar maggiore, la volta della quale era già stata cominciata da Lorenzo di Bicci. Nella quale opera sono storie della Croce, da che i figliuoli d'Adamo, sotterrandolo, gli pongono sotto la lingua il seme dell'albero di che poi nacque il detto legno, insino alla esaltazione di essa Croce fatta da Eraclio imperadore, il quale portandola in su la spalla, a piedi e scalzo entra con essa in Ierusalem; dove sono molte belle considerazioni e attitudini degne d'esser lodate, come, verbigrazia, gl'abiti delle donne della reina Saba condotti con maniera dolce e nuova, molti ritratti di naturale antichi e vivissimi, un ordine di colonne corintie divinamente misurate, un villano che, appoggiato con le mani in su la vanga, sta con tanta prontezza a udire parlare Santa Lena mentre le tre croci si disotterrano, che non è possibile migliorarlo; il morto ancora è benissimo fatto, che al toccar della croce resuscita; e la letizia similmente di Santa Lena, con la maraviglia de' circostanti che si inginocchiano ad adorare. Ma sopra ogni altra considerazione e d'ingegno e d'arte è lo avere dipinto la notte et un Angelo in iscorto, che venendo a capo all'ingiù a portare il segno della vittoria a Gostantino che dorme in un padiglione guardato da un cameriere e da alcuni armati oscurati dalle tenebre della notte, con la stessa luce sua illumina il padiglione, gl'armati e tutti i dintorni con grandissima discrezione: per che Pietro fa conoscere in questa oscurità quanto importi imitare le cose vere, e lo andarle togliendo dal proprio; il che avendo egli fatto benissimo, ha dato cagione ai moderni di seguitarlo e di venire a quel grado sommo dove si veggiono ne' tempi nostri le cose. In questa medesima storia espresse efficacemente in una battaglia la paura, l'animosità, la destrezza, la forza e tutti gl'altri affetti che in coloro si possono considerare che combattono, e gl'accidenti parimente con una strage quasi incredibile di feriti, di cascati e di morti: ne' quali per avere Pietro contrafatto in fresco l'armi che lustrano, merita lode grandissima, non meno che per aver fatto nell'altra faccia, dove è la fuga e la sommersione di Massenzio, un gruppo di cavagli in iscorcio, così maravigliosamente condotti che rispetto a que' tempi si possono chiamare troppo begli e troppo eccellenti. Fece in questa medesima storia uno mezzo ignudo e mezzo vestito alla saracina sopra un cavallo secco, molto ben ritrovato di notomia, poco nota nell'età sua. Onde meritò per questa opera da Luigi Bacci - il quale, insieme con Carlo et altri suoi fratelli e molti Aretini che fiorivano allora nelle lettere, quivi intorno alla decollazione d'un re ritrasse - essere largamente premiato e di essere, sì come fu poi, sempre amato e reverito in quella città, la quale aveva con l'opere sue tanto illustrata. Fece anco nel Vescovado di detta città una S. Maria Madalena a fresco, allato alla porta della sagrestia; e nella Compagnia della Nunziata fece il segno da portare a processione; a S. Maria delle Grazie fuor della terra, in testa d'un chiostro, in una sedia tirata in prospettiva un S. Donato in pontificale con certi putti; et in S. Bernardo ai Monaci di Monte Oliveto un S. Vincenzio in una nicchia alta nel muro, che è molto dagl'artefici stimato. A Sargiano, luogo de' Frati Zoccolanti di S. Francesco fuor d'Arezzo, dipinse in una cappella un Cristo che di notte òra nell'orto, bellissimo. Lavorò ancora in Perugia molte cose che in quella città si veggiono, come nella chiesa delle Donne di S. Antonio da Padoa, in una tavola a tempera, una Nostra Donna col Figliuolo in grembo, San Francesco, S. Lisabetta, S. Giovan Battista e S. Antonio da Padoa; e di sopra una Nunziata bellissima, con un Angelo che par proprio che venga dal cielo, e che è più, una prospettiva di colonne che diminuiscono bella affatto. Nella predella, in istorie di figure piccole, è S. Antonio che risuscita un putto, S. Lisabetta che salva un fanciullo cascato in un pozzo e S. Francesco che riceve le stìmate. In S. Chriaco d'Ancona, all'altare di S. Giuseppo, dipinse in una storia bellissima lo sposalizio di Nostra Donna. Fu Piero, come si è detto, studiosissimo dell'arte e si esercitò assai nella prospettiva, et ebbe bonissima cognizione d'Euclide, in tanto che tutti i miglior' giri tirati ne' corpi regolari egli meglio che altro geometra intese, et i maggior' lumi che di tal cosa ci siano, sono di sua mano; per che maestro Luca dal Borgo frate di S. Francesco, che scrisse de' corpi regolari di geometria, fu suo discepolo; e venuto Piero in vecchiezza et a morte doppo aver scritto molti libri, maestro Luca detto, usurpandogli per se stesso, gli fece stampare come suoi, essendogli pervenuti quelli alle mani dopo la morte del maestro. Usò assai Piero di far modelli di terra, et a quelli metter sopra panni molli con infinità di pieghe per ritrarli e servirsene. Fu discepolo di Piero Lorentino d'Angelo aretino, il quale imitando la sua maniera fece in Arezzo molte pitture, e diede fine a quelle che Piero lasciò, sopravenendoli la morte, imperfette. Fece Lorentino in fresco, vicino al S. Donato che Piero lavorò nella Madonna delle Grazie, alcune storie di S. Donato; et in molti altri luoghi di quella città e similmente del contado moltissime cose, e perché non si stava mai e per aiutare la sua famiglia che in que' tempi era molto povera. Dipinse il medesimo nella detta chiesa delle Grazie una storia dove papa Sisto Quarto, in mezzo al cardinal di Mantoa et al cardinal Piccolomini, che fu poi papa Pio Terzo, concede a quel luogo un perdono; nella quale storia ritrasse Lorentino di naturale e ginocchioni Tommaso Marzi, Piero Traditi, Donato Rosselli e Giuliano Nardi, tutti cittadini aretini et Operai di quel luogo. Fece ancora nella sala del palazzo de' Priori, ritratto di naturale, Galeotto cardinale da Pietramala, il vescovo Guglielmino degl'Ubertini, messer Angelo Albergotti dottor di legge, e molte altre opere che sono sparse per quella città. Dicesi che essendo vicino a carnovale, i figliuoli di Laurentino lo pregavano che amazzasse il porco, sì come si costuma in quel paese; e che non avendo egli il modo da comprarlo, gli dicevano: "Non avendo danari, come farete, babbo, a comperare il porco?". A che rispondeva Lorentino: "Qualche santo ci aiuterà". Ma avendo ciò detto più volte e non comparendo il porco, n'avevano, passando la stagione, perduta la speranza, quando finalmente gli capitò alle mani un contadino dalla Pieve a Quarto, che per sodisfare un voto voleva far dipignere un S. Martino: ma non aveva altro assegnamento per pagare la pittura che un porco che valeva cinque lire. Trovando costui Lorentino, gli disse che voleva fare il S. Martino, ma che non aveva altro assegnamento che il porco. Convenutisi dunque, Lorentino gli fece il Santo, et il contadino a lui menò il porco. E così il Santo provide il porco ai poveri figliuoli di questo pittore. Fu suo discepolo ancora Piero da Castel della Pieve, che fece un arco sopra Santo Agostino et alle Monache di S. Caterina d'Arezzo un S. Urbano, oggi ito per terra per rifare la chiesa. Similmente fu suo creato Luca Signorelli da Cortona, il quale gli fece più che tutti gl'altri onore. Piero borghese, le cui pitture furono intorno agl'anni 1458, d'anni sessanta per un cattarro accecò, e così visse insino all'anno 86 della sua vita. Lasciò nel Borgo bonissime facultà et alcune case che egli stesso si aveva edificate, le quali per le parti furono arse e rovinate l'anno 1536. Fu sepolto nella chiesa maggiore, che già fu dell'Ordine di Camaldoli et oggi è Vescovado, onoratamente da' suoi cittadini. I libri di Pietro sono per la maggior parte nella libreria del secondo Federigo duca d'Urbino, e sono tali che meritamente gli hanno acquistato nome del miglior geometra che fusse ne' tempi suoi. Fine della Vita di Piero della Francesca.