GIULIO ROMANO pittore et architetto
Quando fra il più degli uomini si veggono spiriti ingegnosi che siano affabili e giocondi con bella gravità in tutta la conversazione loro, e che stupendi e mirabili siano nell'arti che procedono da l'intelletto, si può veramente dire che siano grazie ch'a pochi il Ciel largo destina, e possono costoro sopra gli altri andare altieri per la felicità delle parti di che io ragiono; perciò che tanto può la cortesia de' servigi negli uomini, quanto nelle opere la dottrina delle arti loro. Di queste parti fu talmente dotato dalla natura Giulio Romano, che veramente si poté chiamare erede del graziosissimo Raffaello, sì ne' costumi quanto nella bellezza delle figure nell'arte della pittura: come dimostrano ancora le maravigliose fabbriche fatte da lui e per Roma e per Mantova, le quali non abitazioni di uomini, ma case degli Dei per esempio fatte degli uomini ci appariscono. Né tacer voglio la invenzione della storia di costui, nella quale ha mostro d'essere stato raro e che nessuno l'abbia paragonato: e ben posso io sicuramente dire che in questo volume non sia egli secondo a nessuno. Veggonsi i miracoli ne' colori da lui operati, la vaghezza dei quali spira una grazia ferma di bontà e carca di sapienzia ne' suoi scuri e lumi, che talora alienati e vivi si mostrano; né con più grazia mai geometra toccò compasso di lui. Talché se Apelle e Vitruvio fossero vivi nel cospetto degli artefici, si terrebbono vinti dalla maniera di lui, che fu sempre anticamente moderna e modernamente antica. Per il che ben doveva Mantova piagnere, quando la morte gli chiuse gli occhi, i quali furono sempre vaghi di beneficarla, salvandola da le inondazioni dell'acque e magnificandola nei tanti edifizî, che non più Mantova, ma nuova Roma si può dire, bontà dello spirito e del valore dello ingegno suo maraviglioso. Il quale di modi nuovi che abbino quella forma, che leggiadramente si conoschino nella bellezza degli artefici nostri, più d'ogni altro valse per arte e per natura. Fu Giulio Romano di[s]cepolo del grazioso Raffaello da Urbino, e per la natura di lui mirabile et ingegnosa meritò più degli altri essere amato da Raffaello, che ne tenne gran conto come quello che di disegno, d'invenzione e di colorito tutti i suoi discepoli avanzò di gran lunga. E ben lo mostrò Raffaello, mentre che visse, nel farlo di continuo lavorare su tutte le più importanti cose che egli dipignesse, nelle quali, come curioso e desideroso d'imitare il suo maestro, attese molto alle cose d'architettura; e per lo diletto che in tal cosa sempre pigliò, fece di nuove, capricciose e belle fantasie: come si vede ancora alla vigna del Papa, vicino a Monte Mario, nella quale è un componimento leggiadrissimo nella entrata, e di stravaganzia nelle facce di fuora e nel cortile di dentro il medesimo si vede. La quale opera, e per le fontane che rustiche fece lavorare, e per quelle che domestiche ci sono, e per ogni ornamento fattovi, è la più bella che sia fuor di Roma per ispasso di vigne e per grandezza e bellezza di luogo: per essere in quella una fonte lavorata di musaico alla rustica di gongole, telline et altre cose maritime per le mani del mirabile Giovanni da Udine, che, per essere stata da lui investigata dallo antico, è la prima ne' moderni ch'à dato lume di far quelle che sì belle in Roma e sparse per Italia sono sì maravigliose di varietà e d'ornamento. E per mano del medesimo sono ancora gli stucchi che in tal vigna nelle belle logge fece, e le grottesche che vi si veggono dipinte, delle quali egli il primo di tale arte fra' moderni fu capo, e più di tutti divino è stato tenuto. Come si veggono ancora di man d'esso gli animali che in questa opera fece, i quali nessuno con più pratica e con più vivezza ha mai lavorato. Fece in tal fabbrica Giulio, oltra infiniti disegni, in una testa di quelle logge, un Polifemo grandissimo, con infinito numero di fanciulli satiri che gli giuocano intorno; il quale è stato tenuto cosa molto lodevole. Avvenne che nella morte di Raffaello, Giovan Francesco Fiorentino e Giulio Romano rimasero insieme eredi delle sue cose; per che diedero fine in compagnia a infinite opere, le quale Raffaello aveva lasciato loro insieme col credito, e particularmente la sala di palazzo, dove sono i fatti di Gostantino. Della quale opera tutta Giulio fece i cartoni; et una parete, dove Gostantino ragionava a' soldati, ordinarono di mistura per farla in muro a olio: e poi non riuscendo, si deliberarono di gettarla per terra e dipignerla in fresco; e fu tosto finita, essendosi quella già cominciata da Raffaello nel tempo di Leone X, la quale per la morte di esso e poi di papa Adriano, che non curò di farla finire, fu prolungata fino ai primi anni di Clemente VII. È questa opera molto bella d'invenzione, et ha dimolte parti perfettissimamente condotte. E così fecero insieme Giovan Francesco e Giulio per Perugia la tavola di Monte Luci, et un quadro di Nostra Donna, nel quale Giulio fece una gatta, e fu per questo detto il quadro della Gatta, che fu molto lodato. Era in quel tempo Giovan Matteo Genovese datario del Papa e vescovo di Verona, il quale a' servigi di Clemente con grandissimi favori tenne Giulio in altezza; per che in palazzo gli ordinò alcune stanze murate vicino alla porta, e gli fece lavorare una tavola della Lapidazione di Santo Stefano per Santo Stefano di Genova, suo beneficio; la quale è di bellezza e di singular grazia e di componimento sì ben condotta, che è la migliore opera di quante e' facesse già mai, attesoché vi sono pezzi d'ignudi bellissimi, e quella gloria, dove Cristo siede alla destra del Padre, è cosa veramente celeste e non dipinta; della quale Giovan Matteo fece degni i frati di Monte Oliveto, donandogli quel luogo dove oggi dimorano per monistero loro. Fece ancora a Iacopo Fuccheri tedesco in Roma, nella chiesa di Santa Maria d'Anima, una tavola alla cappella loro, ch'è molto lodata, e massimamente un casamento girato in tondo, che certo è cosa divina; similmente a' piè d'un San Marco un leone, i peli del quale torcono secondo che egli gira: cosa veramente difficile, e le ali di quello più di piume e di penne che di colori contraffatte. Aveva Giulio a' servigi suoi in Roma Giovanni dal Leone e Raffaello dal Colle dal Borgo a San Sepolcro, i quali erano molto dèstri nel mettere in opera le cose ch'egli disegnava. Per il che gli fece condur vicino alla Zecca un'arme, assegnandone la metà per ciascuno, situata allato a Santa Maria, chiesina vicino alla Zecca vecchia in Banchi, nella quale sono due figure che reggono l'ornamento col capo. E nella sala grande ch'e' fece, essi una gran parte colorirono e condussero di quelle cose che vi sono. Fece poi Giulio a Raffael Borghese solo condurre, sopra la porta di dentro del cardinale della Valle, una Nostra Donna, la quale cuopre un fanciullo che dorme, e Santo Andrea e San Niccolò, che maravigliosissimamente furono lodati. Diede in questo medesimo tempo il disegno della vigna e palazzo di messer Baldassarre da Pescia, e dentro a quello fece condurre di pittura e di stucchi la sala e la stufa, e lavorare una loggia di stucchi bianchi: la quale opera è certo tanto bella, varia et aggraziata, che miracolo e stupore è a vederla. Si divise in questo tempo Giulio da Giovan Francesco, come quello che voleva l'opere proprie condurre a modo suo. Fece per Roma diverse cose d'architettura a diverse persone, come il disegno della casa degli Alberini in Banchi, il quale disegnò Giulio per ordine di Raffaello; e così quello del palazzo che si vede su la piazza della Dogana, che nel vero è cosa bellissima. Ordinò su un canto al Macello de' Corbi la casa sua, la quale ha bel principio e vario, ancora che sia poca. Era questo ingegno tanto celebrato di nome e di grado, che la sua fama e dolcezza di natura fu cagione che, sendo per suoi bisogni capitato a Roma Federigo Gonzaga primo duca di Mantova, amicissimo di messer Pietro Aretino, et egli domestico di Giulio, in tanta grazia lo raccolse, per essere amatore delle virtù, che non cessò di accarezzarlo, sì che lo condusse in Mantova a' suoi servigi. Quivi dimorando, non dopo molto tempo diede principio alla fabbrica et al bel palazzo del T fuor della porta di San Sebastiano; la quale opera, per non esservi pietre vive, fece di mattoni e di pietre cotte lavorate, con colonne, base, capitegli, cornici, porte e finestre, con bellissime proporzioni e stravagante maniera di adornamenti di volt' e spartimenti, con ricetti, sale, camere et anticamere divinissime: le quali non abitazioni di Mantova, ma di Roma paiono, con bellissima forma di grandezza. E fece dentro a questo edifizio, in luogo di piazza, un cortile scoperto, nel quale sboccano in croce quattro entrate. La principale delle quali trafora e passa in una grandissima loggia e sbocca nel giardino; l'altre due vanno a diversi appartamenti, che son quattro: due dei quali ha fatto ornati di stucchi e di pitture, et in una sala di quelli tutti i bellissimi cavalli turchi e barbari del Duca, et appresso quello i cani favoriti, che sono naturali e bellissimi; con le volte di diversi spartimenti, e questi dipinti per le facce da basso. Arrivasi poi in una stanza, ch'è sul canto del palazzo, nella quale sono nella volta le storie di Psiche, veramente bellissime, e nel mez[z]o alcuni Dei che scortano al disotto in su, che di rilievo e non dipinti paiono, la forza dei quali buca la volta con la bellezza de' contorni e con lo essere di colori con dottissima arte dipinti. Nelle facciate attorno fece varie istorie, tutte divinissime e belle, et una Baccanaria per un Sileno, che maraviglia è credere che si possa far meglio negli strani fauni, satiri, tigri; et una credenza di festoni pieni d'argenti, che i lustri degli ori e degli argenti mostra vivissimi in varie fogge di lavori stranamente fatti dagli orefici: le quali capricciose invenzioni dottamente, con senso poetico e pittoresco, ha garbatissimamente finite. Si passa poi in una camera dove sono fregi di figure di basso rilievo di stucchi, con tutto l'ordine de' soldati che sono nella colonna di Traiano, lavorati con bella maniera. Vedevisi ancora in un palco d'una anticamera, lavorato a olio, quando Icaro volando, da Dedalo suo padre ammaestrato, per gloria del troppo alzarsi, il Sole gli strugge la cera et abbrucia l'ale: per il che precipitando in mare, si muore; la quale opera fu talmente considerata d'imaginazione e poi sì ben condotta, che non pitture o cose imaginate, ma vive e vere si rappresentano: perché qui si ha paura che non ti cada addosso, et il calor del sole nel friggere e nell'abbruciar l'ale del misero giovane fa conoscere il fumo e ‘l fuoco acceso, e la morte nel volto d'Icaro si comprende non meno che il dolore e la passione nell'aria di Dedalo. Vedesi in XII storie de' Mesi quando in ciascuno le arti più dagli uomini sono con studio esercitate; le quali dir si puote che tanto rendino piacere quanto la fatica d'un così bello ingegno abbia avuto conforto nel dipignerle sì capricciosamente e giudizio nel conoscerle. Passato quella loggia di tanti stucchi adorna e di tante bizzarrie piena, si capita in certe stanze, dove dalle fantasie, che varie vi sono, l'intelletto s'abbaglia; perché Giulio, che capriccioso et ingegnosissimo era, volse in un canto del palazzo fare una stanza di muraglia e di pittura unita, tanto simile al vivo che gli uomini ingannasse, et a quegli nell'entrare facesse paura. Adunque, perché quello edificio in quel cantone, che è ne' paduli, non patisse danno o impedimento da la debolezza de' fondamenti, fece fare nella quadratura della cantonata una stanza tonda, acciocché i quattro cantoni venissero di maggior grossezza, et a quella stanza una volta tonda a uso di forno. Né avendo tal camera cantoni per il girar di quella, vi fece murare le porte e le finestre e ‘l camino di pietre rustiche, lavorate e scantonate a caso, e sì dall'una all'altra scommesse, che dall'una banda verso terra ruinavano. Ciò fatto, si mise a dipignere per quella una storia, quando Giove fulmina i Giganti. Aveva Giulio nel mez[z]o del cielo figurato su certi nugoli il trono e la sedia di Giove, con l'aquila che teneva il fólgore in bocca; e Giove partito di quella, sceso e più basso, lanciava fólgori, lo spavento e ‘l lampo dei quali faceva Giunone ristrignersi in se stessa, Ganimede e gli Dei fuggire per lo cielo su carri, Marte coi lupi, Mercurio coi galli, la Luna con le femmine, il Sole co' cavalli, Saturno coi serpenti, Ercole e Bacco, e Momo non manco affrettava il fuggire per l'aria che si facessero gli altri, i quali dalla baruffa de' venti erano nelle loro vesti involti et aviluppati. Aveva fatto il pavimento di terra di frombole di fiume acconce che giravano murate, e quelle nel piano della pittura che veniva in terra aveva contrafatte: per che un pezzo quelle dipinte in dentro sfuggivano, e quando da erbe e quando da sassi più grossi erano occupate et adorne. E perché la stanza aveva sopra tutto il cielo pieno di nugoli, et intorno un paese che non aveva né fine né principio, sendo quella tonda, i monti si congiungevano, et i lontani chi più inanzi o più a dietro sfuggivano. Erano i Giganti grandi di statura, che da' lampi de' fólgori percossi ruinavano a terra, e quale inanzi e quale a dietro cadeva a quelle finestre, ch'erano diventate grotte overo edificî, e nel ruinarvi sopra i Giganti le facevano cadere, onde chi morto e chi ferito e chi dai monti ricoperto, si scorgeva la strage e la ruina d'essi. Né si pensi mai uomo vedere di pennello cosa alcuna più orribile o spaventosa né più naturale: perché chi vi si trova dentro, veggendo le finestre torcere, i monti e gli edificî cadere insieme coi Giganti, dubita che essi e gli edifizî non gli ruinino addosso. Onde si conosce in questa opera quanto il valore della invenzione e dell'arte abbia avuto origine da Giulio d'imaginare di nuovo quello che di antico maestro non si scrisse mai, come delle fatiche sue lodatissime per questa opera si veggono. Fece in questo lavoro perfetto coloritore Rinaldo Mantovano, che oltre alla camera de' Giganti, dipinta da lui con i cartoni di Giulio, fece molte altre stanze; il quale mentre che visse sempre gli fece onore in questa arte, e più fatto gliene avrebbe, se egli, non morendo sì giovane, avesse potuto mostrar quanto egli cercava imitare Giulio suo maestro. Sono ancora in tal luogo ricetti et altre cose, alle quali tutte è dato dall'ingegno di Giulio quel fine che abbiamo detto dell'altre. Rifece d'ornamenti di stucchi tutte le stanze del castello dove il Duca abitava, e in una sala fece tutta la storia troiana. Fece ancora fare in una anticamera dodici storie a olio sotto le dodici teste degli Imperatori, le quali dipinse Tiziano da Cadoro: e veramente sono onorate e belle pitture. Sono altre stanze, e per il Duca altre pitture, le quali taceremo, avendo di lui dato quel saggio che si può dare d'un tanto bello ingegno; come chi andando a Mantova potrà vedere la fabbrica di Marmiruolo, nelle pitture sue non meno belle che quelle del castello e del T. Fece in Santo Andrea allo altar del Sangue una tavola a olio, bellissima; et ancora nelle facce due storie: in una la Crocifissione di Cristo coi ladroni e cavalli, dei quali egli continuo molto si dilettò, e meglio d'altro maestro e più perfettamente di bella maniera gli dipinse; nell'altra faccia èvvi la storia quando trovano il sangue. E per molte chiese di quella città fece cappelle, tavole e varii ornamenti per abbellirla et ornarla. La qual cosa fu cagione che quel Duca onoratamente lo rimunerò. Inoltre fabbricò per sua abitazione in quella città una casa dirimpetto a San Barnaba, la quale fece tutta dipignere et abbellire di stucchi, perciò che egli aveva de le antiquità di Roma, e similmente il Duca gliene aveva date, ch'egli se ne ornasse e ne avesse buona custodia. E perché grandissima utilità si traeva de' suoi disegni, ordinò che in Mantova non si potesse far fabbrica senza disegni et ordine di Giulio; il quale talmente operò con fogne, fossi et ordini buoni dati a' Mantovani, che dove prima solevano abitare di continuo nel fango e nella memma, gli ridusse all'asciutto, e di mala aria e pestifera che prima era, la condusse a buona e sana. Rifece poi la chiesa a San Benedetto da Mantova vicino al Po, luogo de' Monaci Neri, e rinovò molti altri edificî. E per tutta la Lombardia giovò di maniera, che que' popoli hanno posto di sorte in uso l'arte del disegno, inusitata sino al suo tempo, che ne sono uscite dipoi pratiche persone e bellissimi ingegni. Faceva di continuo disegni a' circunvicini e per fabbriche e per opere; come a Verona nel Duomo fece al Moro Veronese, il quale la tribuna d'esso a fresco dipinse; et al Duca di Ferrara moltissimi disegni per panni di seta e d'arazzi. Mostrò ancora il valor suo nella venuta di Carlo V imperatore, quando fece gli apparati in Mantova e l'ordine d'una scena, nella quale egli con nuovi ordini di lumi fece recitare, errando il sole mentre si recitò, che faceva lume loro, e finita la comedia si nascose sotto i monti. Nessuno fu mai che meglio di lui disegnasse celate, selle, fornimenti di spade e mascherate strane, e quelle con tanta agevolezza espediva, che il disegnare in lui era come lo scrivere in un continuo pratico scrittore. Né pensò mai a fantasia che, aperto la bocca, non avesse inteso, e lo animo altrui con la penna sùbito non esprimesse. Era d'ogni ordine di buone qualità carico talmente, che la pittura pareva la minor virtù ch'egli avesse. Fece in Mantova in San Domenico una bellissima tavola d'un Cristo morto; e fece medesimamente fabbricare nel Duomo assai cose per il cardinale. Avvenne che il Duca si morì; et egli, per la benivolenza ch'e' portava al cardinale et a quella patria, dove aveva moglie e figliuoli, benché desiderasse tornare a Roma et andare in altre parti, mai non si partì di quivi, se non quanto o per muraglie per quello Stato o per altre cose importanti era costretto. Erano i soprastanti alla fabbrica di S. Petronio in Bologna desiderosi di dar principio alla facciata di quella; per il che con grandissima instanza vi condussero Giulio in compagnia di uno architetto milanese, chiamato Tofano Lombardino; i quali fecero per questo disegni et ordini, essendosi smarriti quelli che Baldassarre Sanese aveva già fatti. E fu sì bello e tanto bene ordinato il disegno fatto da Giulio, che e' ne ricevette da quel popolo lode grandissima, e con liberalissimi doni se ne ritornò a Mantova. Era morto in quei giorni Antonio da S. Gallo, et aveva lasciato in grandissimo travaglio di mente i deputati di San Pietro di Roma, non sapendo essi a cui voltarsi per dargli il carico di dovere con lo ordine cominciato venire a fine di tal fabbrica; e perché e' pensarono che altri non fosse migliore a far ciò che il valore di Giulio Romano, dissimulatamente ne lo facevano tentare per via degli amici, persuadendosi che e' dovesse accettar volentieri per ripatriare con impresa onorata e con grossa provisione. E nel vero egli più che volentieri vi sarebbe andato, se due cose non l'avessero ritenuto: l'una era che il cardinale di Mantova non voleva per alcun modo contentarsi ch'egli si partisse; l'altra, che la moglie, gli amici e' parenti di lui lo confortavano a non lassar Mantova. E di più si trovava egli allora molto male disposto del corpo. Laonde rinfrescato di lettere da Roma, cominciò a fantasticare in quanto onore e gloria, et in casa sua, tal cosa lo porrebbe, et in quanta grandezza d'utile e di grado i figliuoli suoi per la Chiesa potevano venire. Per il che, non potendo partire, ne prese tal dispiacere, che fra il male e quello aggravamento di più, si morì in pochi giorni in Mantova. La quale poteva pur concedergli grazia che, come ella s'era abbellita per lui, così egli la sua patria ornasse et onorasse: ove per la invidia di non se lo prestare l'una all'altra, fecero sì che poi nessuna di loro non se lo potette godere altrimenti. Morì di età d'anni LIIII. E finché durerà Mantova, quivi sarà sempre celebrato. Fu da' suoi figliuoli pianto e da' suoi cari amici, et in San Barnaba datogli onorato sepolcro. Né il cardinale né i figliuoli del Duca restarono di tal perdita senza dolore, e dolgonsene ancora del continuo ne' bisogni loro. Perché le virtù di esso, che l'onorarono in vita, lo fanno e faranno bramare così morto quanto di lui ci sarà memoria. Bene è vero, quanto a le opere, che se innanzi a lui non fossero morti il Figurino suo creato e Rinaldo Mantovano, le arebbono fatte, se non tante e tali, simili almeno, come per tutta Mantova s'è veduto nell'opere di Rinaldo e massimamente in una facciata di chiaro oscuro alla casa de' Bagni ch'è tenuta bellissima. Rese Giulio l'anima al cielo il giorno che si fa solenne commemorazione di Tutti i Santi, l'anno MDXLVI. E gli fu posto alla sepoltura lo infrascritto epitaffio: VIDEBAT IUPPITER CORPORA SCULPTA PICTAQUE SPIRARE ET AEDES MORTALIUM AEQUARIER COELO IULII VIRTUTE ROMANI. TUNC IRATUS CONCILIO DIVORUM OMNIUM VOCATO ILLUM E TERRIS SUSTULIT. QUOD PATI NEQUIRET VINCI AUT AEQUARI AB NOMINE TERRIGENA. ROMANUS MORIENS SECUM TRES IULIUS ARTEIS ABSTULIT (HAUD MIRUM) QUATTUOR UNUS ERAT.