GIOTTO pittor fiorentino
Quello obligo istesso che hanno gli artefici pittori alla natura - la quale continuamente per essempio serve a quegli che cavando il buono da le parti di lei più mirabili e belle, di contrafarla sempre s'ingegnano -, il medesimo si deve avere a Giotto, perché essendo stati sotterrati tanti anni dalle ruine delle guerre i modi delle buone pitture e i dintorni di quelle, egli solo, ancora che nato fra artefici inetti, con celeste dono quella ch'era per mala via resuscitò e redusse ad una forma da chiamar buona. E miracolo fu certamente grandissimo che quella età e grossa et inetta avesse forza d'operare in Giotto sì dottamente, che ‘l disegno, del quale poca o nessuna cognizione avevano gli uomini di que' tempi, mediante sì buono artefice ritornasse del tutto in vita. E nientedimeno i principii di sì grande uomo furono nel contado di Fiorenza, vicino alla città XIIII miglia. Era l'anno MCCLXXVI nella villa di Vespignano uno lavoratore di terre il cui nome fu Bondone, il quale era tanto di buona fama nella vita e sì valente nell'arte della agricoltura, che nessuno che intorno a quelle ville abitasse era stimato più di lui. Costui nello aconciare tutte le cose era talmente ingegnoso e d'assai, che dove i ferri del suo mestiero adoperava, più tosto che rusticalmente adoperati e' paressino ma da una mano che gentil fussi d'un valente orefice o intagliatore mostravano essere esercitati. A costui fece la natura dono d'un figliuolo, il quale egli per suo nome alle fonti fece nominare Giotto. Questo fanciullo crescendo d'anni, con bonissimi costumi e documenti mostrava in tutti gli atti ancora fanciulleschi una certa vivacità e prontezza d'ingegno straordinario di una età puerile, e non solo per questo invaghiva Bondone, ma i parenti e tutti coloro che nella villa e fuori lo conoscevano. Per il che, sendo cresciuto Giotto in età di X anni, gli aveva Bondone dato in guardia alcune pecore del podere, le quali egli ogni giorno quando in un luogo e quando in un altro l'andava pasturando; e venutagli inclinazione da la natura dell'arte del disegno, spesso per le lastre et in terra per l'arena disegnava del continuo per suo diletto alcuna cosa di naturale overo che gli venissi in fantasia. E così avenne che un giorno Cimabue, pittore celebratissimo, transferendosi per alcune sue occorrenze da Fiorenza dove egli era in gran pregio, trovò inella villa di Vespignano Giotto, il quale, in mentre che le sue pecore pascevano, aveva tolto una lastra piana e pulita e con un sasso un poco apuntato ritraeva una pecora di naturale, senza esserli insegnato modo nessuno altro che dallo istinto della natura. Per il che fermatosi Cimabue e grandissimamente maravigliatosi, lo domandò se volesse star seco; rispose il fanciullo che se il padre suo ne fosse contento, ch'egli contentissimo ne sarebbe. Laonde domandatolo a Bondone con grandissima instanzia, egli di singular grazia glielo concesse. Et insieme a Fiorenza inviatisi, non solo in poco tempo pareggiò il fanciullo la maniera di Cimabue, ma ancora divenne tanto imitatore della natura che ne' tempi suoi sbandì affatto quella greca goffa maniera, e risuscitò la moderna e buona arte della pittura, et introdusse il ritrar di naturale le persone vive, che molte centinaia d'anni non s'era usato. Onde ancor oggidì si vede ritratto nella cappella del Palagio del Podestà di Fiorenza l'effigie di Dante Alighieri, coetaneo et amico di Giotto et amato da lui per le rare doti che la natura aveva nella bontà del gran pittore impresse, come tratta messer Giovanni Boccaccio in sua lode nel prologo della novella di messere Forese da Rabatta e di Giotto. Furono le sue prime pitture, nella Badia di Fiorenza, la cappella dello altar maggiore, nella quale fece molte cose tenute belle, ma particularmente in una storia della Nostra Donna quando ella è annunziata da l'Angelo, nella quale contrafece lo spavento e la paura che, nel salutarla Gabriello, la fe' mettere con grandissimo timore quasi in fuga; et in Santa Croce quattro cappelle, tre poste fra la sagrestia e la cappella grande: nella prima e dove si suonono oggi le campane vi è fatto di sua mano la vita di San Francesco, e l'altre due una è della famiglia de' Peruzzi e l'altra de' Giugni, e un'altra dall'altra parte di essa cappella grande. Nella cappella ancora de' Baroncelli è una tavola a tempera con diligenza da lui finita, dentrovi l'incoronazione di Nostra Donna con grandissimo numero di figure picciole et un coro d'Angeli e di Santi, fatta con diligenzia grandissima et in lettere d'oro scrittovi il nome suo; onde gli artefici che consideraranno in che tempo questo maraviglioso pittore, senza alcun lume della maniera, diede principio al buon modo di disegnare e del colorire, saranno sforzati averlo in perpetua venerazione. Sono ancora in detta chiesa altre tavole et in fresco molte altre figure, come, sopra il sepolcro di marmo di Carlo Marsupini aretino, un Crocifisso con la Nostra Donna e San Giovanni e la Magdalena a' piè della croce, e da l'altra banda della chiesa, sopra la sepoltura di Lionardo Aretino, una Nunziata, verso l'altare maggiore (la quale è stata ricolorita da altri pittori moderni), come nel refettorio uno Albero di Croce e storie di San Lodovico et un Cenacolo, e nella sagrestia negli armarii storie di Cristo e di San Francesco. Nel Carmino alla cappella di San Giovanni Batista, lavorate in fresco, tutte le storie della vita sua, e nella Parte Guelfa di Fiorenza una storia della Fede Cristiana in fresco dipinta perfettissimamente. Fu condotto ad Ascesi a finir l'opera cominciata da Cimabue, dove passando da Arezzo lavorò nella Pieve la cappella di San Francesco sopra il battesimo, et in una colonna tonda, vicino a un capitello corintio antico bellissimo, dipinse un San Francesco e San Domenico; al Duomo fuor d'Arezzo una cappelluccia dentrovi la lapidazione di Santo Stefano con bel componimento di figure. Finite queste opere si condusse ad Ascesi a l'opra cominciata da Cimabue, dove acquistò grandissima fama per la bontà delle figure che in quella opera fece, nelle quali si vede ordine, proporzione, vivezza e facilità donatagli dalla natura e dallo studio accresciuta, perciò che era Giotto studiosissimo e di continuo lavorava. Et allora dipinse nella chiesa di Santa Maria degli Agnoli e nella chiesa d'Ascesi de' Frati Minori tutta la chiesa dalla banda di sotto. Sentì tanta fama e grido di questo mirabile artefice papa Benedetto XII da Tolosa, che, volendo fare in San Pietro di Roma molte pitture per ornamento di quella chiesa, mandò in Toscana un suo cortigiano che vedesse che uomo era questo Giotto e l'opere sue, e non solamente di lui, ma ancora degli altri maestri che fussino tenuti eccellenti nella pittura e nel musaico. Costui, avendo parlato a molti maestri in Siena et avuti disegni da loro, capitò in Fiorenza per vedere l'opere di Giotto e pigliar pratica seco; e così una mattina arrivato in bottega di Giotto che lavorava, gli espose la mente del Papa et in che modo e' si voleva valere dell'opera sua, et in ultimo lo richiese che voleva un poco di disegno per mandarlo a Sua Santità. Giotto, che cortesissimo era, squadrato il cortigiano, prese un foglio di carta et in quello con un pennello che egli aveva in mano tinto di rosso, fermato il braccio al fianco per farne compasso e girato la mano, fece un tondo sì pari di sesto e di profilo che fu a vederlo una maraviglia grandissima. E poi ghignando, vòlto al cortigiano gli disse: "Eccovi il disegno". Tennesi beffato il mandato del Papa, dicendo: " Ho io [a] avere altro disegno che questo? ". Rispose Giotto: " Assai e pur troppo è quel che io ho fatto; mandatelo a Roma insieme con gli altri e vedrete se sarà conosciuto". Partissi il cortigiano da Giotto, e quanto e' pigliasse malvolentieri questo assunto, dubitando non essere uccellato a Roma, ne fece segno col non esser satisfatto nel suo partire; pure, uscito di bottega e mandato al Papa tutti e' disegni scrivendo a ciascuno il nome e di chi mano egli erano, tanto fece nel tondo disegnato da Giotto; e nella maniera che egli l'aveva girato senza muovere il braccio e senza seste, fu conosciuto dal Papa e da molti cortigiani intendenti quanto egli avanzasse di eccellenzia tutti gli altri artefici de' suoi tempi. E perciò, divulgatasi questa cosa, ne nacque quel proverbio familiare e molto ancora ne' nostri tempi usato:Tu sei più tondo che l'O di Giotto. Il quale proverbio non solo per il caso donde nacque si può dir bello, ma molto più per il suo significato che consiste nella ambiguità del tondo, che oltra a la figura circulare perfetta, significa ancora tardità e grossezza d' ingegno. Fecelo dunque il predetto Papa venire a Roma, onorandolo grandemente e con premî riconoscendolo, dove fece la tribuna di San Pietro et uno Angelo di sette braccia dipinto sopra l'organo, e molte altre pitture, parte ristaurate da altri a' nostri dì e parte nel rifondare le mura nuove disfatte e traportate da lo edificio del vecchio San Piero fin sotto l'organo: come una Nostra Donna che era in sur un muro, il quale, perché ella non andasse per terra, fu tagliato attorno et allacciato co[n] travi e ferri, e murata dipoi per la sua bellezza dalla pietà et amore che portava all'arte il gentilissimo messer Niccolò Acciaiuoli, dottore fiorentino, con altre restaurazioni moderne di pittura e di stucchi per abellire questa opera di Giotto. Fu di sua mano la nave del musaico fatta sopra le tre porte del portico nel cortile di San Pietro, la quale fu sì maravigliosa et in quel tempo di tal disegno, d'ordine e di perfezzione, che le lode universalmente dàtele dagli artefici e da altri intendenti ingegni meritamente se le convengono. Fu chiamato a Napoli dal re Ruberto, il quale gli fece fare in Santa Chiara, chiesa reale edificata da lui, alcune cappelle nelle quali molte storie del Vecchio e Nuovo Testamento si veggono, dove ancora in una cappella sono molte storie dell'Apocalisse, ordinategli, per quanto si dice, da Dante, fuoruscito allora di Firenze e condotto in Napoli anch'egli per le parti. Nel Castello de l'Uovo fece ancora molte opere, e particularmente la cappella di detto castello. E fu sì da quel re amato, che oltra la pittura pigliò grandissimo piacere del suo ragionamento, avendo egli alcuni motti et alcune risposte molto argute; come fu quando, dicendogli un giorno il re che lo voleva fare il prim'uomo di Napoli, "E perciò - gli rispose Giotto - son io alloggiato vicino a Porta Reale, per essere il primo di Napoli". Et un'altra volta, dicendogli il re: "Giotto, s'io fusse in te, ora che fa caldo tralasserei un poco il dipignere", rispose: " Et io, se fussi in voi, farei il medesimo". Fecegli dunque fare molte cose in una sala - che il re Alfonso Primo ruinò per fare il castello - e così nella Incoronata. Dicesi che gli fu fatto dal re dipignere per capriccio il suo reame, per che Giotto gli dipinse uno asino imbastato che teneva a' piedi un altro basto nuovo e fiutandolo faceva segno di desiderarlo, e su l'uno e l'altro basto era la corona reale e lo scettro della podestà. Domandato dunque Giotto dal re nel presentargli questa pittura del significato di quella, rispose tali i sudditi suoi essere e tale il suo regno, nel quale ogni giorno nuovo signore desideravano. Ora, partitosi da Napoli, fu intertenuto in Roma dal signor Malatesta da Rimini, che, condottolo nella sua città, moltissime cose nella chiesa di San Francesco gli fece dipignere, le quali da Sigismondo figliuolo di Pandolfo, che rifece la chiesa tutta di nuovo, furono guaste e rovinate. Fece ancora nel chiostro di detto luogo, a l'incontro della facciata della chiesa, la istoria della Beata Michilina, a fresco, che fu una delle più belle et eccellenti cose che Giotto facesse per le leggiadrissime considerazioni che ebbe questo rarissimo artefice nel dipignerla. Perché, oltra la bellezza de' panni e la grazia e la vivezza delle teste degli uomini e delle donne, che sono vivissime e miracolose, egli è cosa singularissima una giovane che v'è, bellissima quanto più esser si possa, la quale per liberarsi da la calumnia dello adulterio giura sopra di un libro, con gli occhi fissi negli occhi del proprio marito che giurar la faceva per diffidanza d'un figliuol nero partorito da lei, il quale in nissun modo che suo fusse poteva credere; costei, così come il marito mostra lo sdegno e la diffidenza nel viso, fa conoscere con la pietà della fronte e degli occhi, a coloro che intentissimamente la contemplano, la innocenzia e la simplicità sua et il torto che se le faceva in farla giurare e nel publicarla a torto per meretrice. Medesimamente grandissimo affetto fu quel ch'espresse questo ingegnosissimo artefice in un infermo di certe piaghe, dove tutte le femmine che vi sono dattorno, offese dal puzzo, fanno certi torcimenti schifosi i più graziati del mondo. Et in un altro quadro vi si veggono scórti bellissimi fra una quantità di poveri attratti, et è maravigliosissimo l'atto che fa la sopradetta Beata a certi usurai che le sborsano i danari della vendita delle sue possessioni per dargli a' poveri, e le pare che i denari di costor putino; e vi è uno che, mentre quegli annovera, pare ch'accenni al notaio che scriva, e col tenere le mani sopra i denari fa conoscere con garbatissima considerazione l'affezzione e l'avarizia sua. Mostrò Giotto in tre figure che in aria sostengano l'abito di San Francesco, figurate per l'Obedienza e la Pazienzia e la Povertà, molta bella maniera di panni, i quali con bello andare di pieghe morbidamente colorite fanno conoscere a coloro che le mirano che egli era nato per dar luce all'arte della pittura. Ritrasse di naturale il signor Malatesta in una nave, che pare vivissimo, et alcuni marinai et altre genti che di prontezza e di affetto nelle attitudini loro fanno conoscere l'eccellenzia di Giotto, come si vede in una figura che, parlando con alcuni, si mette una mano al viso sputando in mare: e certamente fra tutte le cose fatte da Giotto in pittura, questa si può dire essere una delle migliori, perché non vi è figura in così gran numero di figure che non abbia in sé grandissimo e bell'artificio e non sia posta con capricciosa attitudine. E però non mancò il signor Malatesta, vistosi nascere nella sua città una delle più belle cose del mondo, premiarlo e magnificamente lodarlo. Finiti i lavori di quel signore, pregato da un prior fiorentino, che allora nella chiesa di San Cataldo in quella città era da' suoi superiori mandato, che egli volesse dipignerli fuor della porta della chiesa un San Tomaso d'Aquino che a' suoi frati leggesse la lezzione, esso per l'amicizia che seco aveva non mancò di satisfarlo, faccendoli una pittura molto lodevole. E di quivi partito andò a Ravenna, et in San Giovanni Vangelista fece una cappella a fresco lodata molto. Tornossi poi con grandissimo onore e con grandissima facultà a Fiorenza, dove in San Marco fece un Crocifisso, in sul legno, grande lavorato a tempera maggiore che ‘l naturale, in campo d'oro, il quale fu messo a mano destra in chiesa; et un simile ne fece in Santa Maria Novella, sul quale Puccio Capanna suo creato in compagnia di lui lavorò, et ancora oggidì è locato sopra la porta maggiore nell'intrata della chiesa. Dipinse in fresco nel medesimo luogo un San Lodovico sopra al tramezzo della chiesa, a man destra sotto la sepoltura de' Gaddi; e ne' Frati Umiliati in Ognisanti una cappella e quattro tavole, e fra l'altre una dentrovi una Nostra Donna con molti Angeli attorno et il Figliuolo in braccio, et un Crocifisso grande in legno, dal quale Puccio Capanna pigliando il disegno molti per tutta Italia ne lavorò, avendo presa molto la pratica e la maniera di Giotto. Nel tramezzo della chiesa in detto luogo è appoggiata una tavolina a tempera dipinta di mano di Giotto con infinita diligenza e con disegno e vivacità, dentrovi la morte di Nostra Donna con gli Apostoli che fanno l'essequie e Cristo che l'anima in braccio tiene, dagl'artefici pittori molto lodata, e particularmente da Michelagnolo Buonaroti, attribuendole la proprietà della storia essere molto simile al vero, oltraché le attitudini nelle figure con grandissima grazia dello artefice sono espresse. E veramente fu in que' tempi un miracolo il vedere in Giotto tanta vaghezza nel dipignere, e considerare ch'egli avesse appreso quest'arte senza maestro. Avvenne che per aver Giotto nel disegno fatto una bellissima pratica, li fu fatto fare molti disegni, e non solamente per pitture ma per fare delle sculture ancora; come quando l'Arte de' Mercatanti volse far gettar di bronzo le porte del Batisteo di San Giovanni, egli disegnò per Andrea Pisano tutte le storie di San Giovanni Batista, che è quella porta ch'è vòlta oggi verso la Misericordia. Ma quanto e' valesse nella architettura lo dimostrò nel modello del campanile di Santa Maria del Fiore, che essendo mancato di vita Arnolfo Todesco capo di quella fabrica, e desiderando gli Operai di quella chiesa e la Signoria di quella città che si facesse il campanile, Giotto ne fece fare col suo disegno un modello di quella maniera todesca che in quel tempo si usava, e, per averlo egli ben considerato, inoltre disegnò tutte le storie che andavano per ornamento in quella opera. E così scompartì di colori bianchi, rossi e neri in sul modello tutti que' luoghi dove avevano [a] andare le pietre et i fregi con grandissima diligenzia, et ordinò che ‘l circuito da basso fussi in giro di larghezza de braccia 100, cioè braccia 25 per ciascuna faccia, e l'altezza braccia 144. Nella quale opera fu messo mano l'anno MCCCXXXIIII e seguitata del continuo: ma non sì che Giotto la potessi veder finita, interponendosi la morte sua. Mentre che questa opera si andava fabricando, fece egli nelle Monache di San Giorgio una tavola, e nella Badia di Fiorenza, in uno arco sopra la porta didentro alla chiesa, tre mez[z]e figure, oggi dalla ignoranzia d'uno abbate fatte imbiancare per illuminare la chiesa. Nella sala grande del Podestà di Fiorenza, per mettere paura ai popoli, dipinse il Commune ch'è rubato da molti, dove in forma di giudice con lo scettro in mano a sedere lo figura, e le bilance pari sopra la testa per le giuste ragioni ministrate da esso et aiutato da quattro figure: dalla Fortezza con l'animo, dalla Prudenzia con le leggi, dalla Giustizia con l'armi e dalla Temperanza con le parole - pittura bella et invenzione garbata, propria e verisimile. Partissi di Fiorenza per fare nel Santo di Padova alcune cappelle, dove molto dimorò perché fece ancora nel luogo dell'Arena una Gloria Mondana, la quale gli diede molto onore. Et a Milano trasferitosi, quivi ancor lavorò. E a Fiorenza ritornatosi, alli VIII di gennaio nel MCCCXXXVI rese l'anima a Dio, onde dagli artefici pianto et a' suoi cittadini assai doluto, non senza portarlo alla sepoltura con quelle esequie onorevoli che a una tanta virtù com'era quella di Giotto si convenissi e a una patria come Fiorenza, degna d'uno ingegno mirabile come il suo. E così quel giorno non restò uomo piccolo o grande che non facesse segno con le lacrime o col dolersi della perdita di tanto uomo. Il quale, per le rare virtù che in lui risplenderono, meritò, ancora che e' fosse nato di sangue vile, lode e fama certo chiarissima. Il campanile di Santa Maria del Fiore fu seguitato e tirato avanti da Taddeo Gaddi suo discepolo in su lo stesso modello di Giotto, et è opinione di molti e non isciocca che egli desse opera alla scoltura ancora, attribuendogli ch'e' facesse due storiette di marmo che sono in detto campanile dove si figurano i modi e i principii dell'arti, ancora che altri dichino solamente il disegno di tali storie essere di sua mano. Restò in memoria della sua sepoltura in Santa Maria del Fiore, dalla banda sinistra entrando in chiesa, un mattone di marmo, dove è sepolto il corpo suo. I discepoli suoi furono Taddeo sopradetto e Puccio Capanna, che in Rimini nella chiesa di San Cataldo de' Frati Predicatori dipinse un vóto d'una nave che par che affoghi nel mare con gente che gettano le robe nel mare, et èvvi Puccio di naturale fra un buon numero di marinai. Fu ancora suo discepolo Ottaviano da Faenza, che in San Giorgio di Ferrara, luogo de' Monaci di Monte Oliveto, dipinse molte cose, et in Faenza sua patria, dove egli visse e morì, dipinse nello arco sopra la porta di San Francesco una Nostra Donna con San Piero e San Paulo. E Guglielmo da Forlì, che fece molte opere e particularmente la cappella di San Domenico nella sua città. Furono similmente creati di Giotto Simon sanese, Stefano fiorentino e Pietro Cavallini romano, et altri infiniti i quali molto alla maniera et alla imitazione di lui s'accostarono. Restò nelle penne di chi scrisse, a suo tempo e poi, tanta maraviglia del nome suo, per esser stato primo a ritrovare il modo di dipignere perduto inanzi lui molti anni, che dal magnifico Lorenzo Vecchio de' Medici, facendosi egli di questo maestro ogni giorno più maraviglia, meritò d'avere in Santa Maria del Fiore la effigie sua scolpita di marmo, e dal divino uomo messer Angelo Poliziano lo infrascritto epitaffio in sua lode, acciò che quegli che verranno eccellenti e rari in qualsivoglia professione debbino valorosamente esercitarsi per avere di sì fatte memorie, meritandole, in lode loro dopo la morte, come fe' Giotto: ILLE EGO SUM PER QUEM PICTURA EXTINCTA REVIXIT CUI QUAM RECTA MANUS TAM FUIT E FACILIS. NATURAE DEERAT NOSTRAE QUOD DEFUIT ARTI PLUS LICUIT NULLI PINGERE NEC MELIUS. MIRARIS TURRIM EGREGIAM SACRO AERE SONANTEM? HAEC QUOQUE DE MODULO CREVIT AD ASTRA MEO. DENIQUE SUM IOTTUS. QUID OPUS FUIT ILLA REFERRE? HOC NOMEN LONGI CARMINIS INSTAR ERIT.